«Via via che la produzione andava a regime, l'obiettivo enorme del nostro progetto è diventato chiaro. Per far uscire e supportare The Last of Us avremmo dovuto concentrare tutte le nostre risorse sulla creazione di contenuti post-lancio per gli anni a venire, il che avrebbe avuto un importante impatto sullo sviluppo dei nostri futuri single-player».
Quando leggo e rileggo queste righe scritte da Naughty Dog, che hanno accompagnato la conferma dell'addio al progetto di The Last of Us Online, scuoto la testa. «Il team del multiplayer stava lavorando alla pre-produzione di questo gioco fin dai tempi di The Last of Us - Parte II» aggiunge la software house.
Ma da The Last of Us - Parte II sono passati ormai tre anni (era giugno 2020). Questo significa che, dal 2020 (ma probabilmente da anni prima, quando veniva sviluppato il single player) alla cancellazione dell'1 dicembre 2023, questi anni sono trascorsi con investimenti e lavori su un progetto che non esisterà mai, che non riporterà mai soldi nelle casse di chi lo ha finanziato. Soldi perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia, verrebbe quasi da dire.
E stiamo parlando di The Last of Us, un franchise che, secondo i dati più recenti di Naughty Dog, conta su oltre 37 milioni di copie piazzate. Ma piazzate per le sue qualità single player, che non si possono convertire in un gioco persistente di successo con un colpo di bacchetta magica. Un concetto che, forse, a piccoli passi sta comprendendo anche l'industria dei videogiochi. Per il suo bene.
Rischi e benefici
Quando i cosiddetti live service, giochi persistenti, riescono a raggiungere la soglia del successo, fanno leva su un sistema di monetizzazione che porta ai publisher delle entrate su base periodica. Tradotto: se sfondano, diventano una miniera d'oro.
Ma quando sfondano?
La risposta, qui, è un'incognita, perché non esiste una formula per il successo. Nemmeno per provare a trasformare in live service un universo amato come quello di The Last of Us, per il quale a quanto pare dovremmo credere a una Naughty Dog che casca dal pero e si rende conto che – sì, servono un bel po' di risorse nel lungo termine per un progetto simile, non ci avevamo pensato prima.
Da quando alcuni fenomeni come l'online di Call of Duty, il culto per Fortnite e la monetizzazione senza fondo del fu FIFA, oggi EA Sports FC, hanno dimostrato quanto remunerativo possa essere creare un game as a service, abbiamo visto questa formula venire declinata in accordo ai generi videoludici più disparati. Gli shooter che volevano ereditare il successo di CoD, i battle royale sulla qualunque – discepoli di Fortnite che è già discepolo di PUBG –, i giochi sportivi trasformati in giochi di pacchetti e sbustate.
Eppure, quando si prova a far affacciare sul mercato un nuovo live service, ci sono alcuni aspetti di cui ci si dimentica. Il primo è il tempo.
L'industria guarda sempre più non solo alle copie vendute, che sono un dato piuttosto asciutto, ma alle ore in cui i giocatori si trattengono dentro un gioco. È così che, ad esempio, Microsoft valuta l'andamento dei giochi sul suo Xbox Game Pass. E i giochi live service sono titoli che di tempo, nel lungo corso, ne mettono insieme veramente tanto.
Posto che ore extra per le giornate non si possono acquistare da nessuna parte (farebbero comodo, ammetto) e ci si deve accontentare quindi di sole 24, la questione è semplice: le ore che i giocatori possono dedicare al gaming sono limitate e gli appassionati di live service hanno bisogno di stimoli davvero forti, per decidere che un gioco che cerca di replicare il successo di un altro possa spingerli ad abbandonare quello a cui già si dedicano.
Torniamo quindi al punto iniziale: una ricetta vincente non c'è. E questo si traduce nel fatto che, ancora di più che con i single player, spesso i publisher si ritrovano a investire soldi su progetti che non hanno nessun ritorno e che chiudono dopo pochi mesi.
Un vero e proprio buco nero a bilancio, con spese di pre-produzione, produzione, lancio, pianificazione della gestione, promozione e gestione effettiva, che si schiantano sul giudizio insindacabile del pubblico-consumatore: un live service vive tanto quanto le persone continuano a connettersi su base quotidiana per popolarlo. E non c'è un ABC di buone norme sicure che ti possano garantire che ciò avvenga, riducendo i margini di rischio.
Soldi buttati
Negli ultimi due anni circa, il numero di live service che hanno provato ad affacciarsi sul mercato, fallendo in modo inappellabile, è pericolosamente alto. Uno dei casi più clamorosi è forse quello di Babylon's Fall: nato carne, morto pesce, il gioco online persistente di PlatinumGames e Square Enix è un perfetto sunto di suicidio videoludico, poiché venne lanciato in condizioni disastrose dalle quali non c'era via di ritorno o di redenzione. Risultato: dopo il debutto di marzo 2022, il 27 febbraio 2023 il gioco è stato chiuso dopo meno di un anno (e chi lo aveva preso a prezzo pieno ha ora in casa un costoso sottobicchiere).
Inutile sottolineare ancora quanti soldi siano stati buttati in un'operazione simile, spinta a pedate sul mercato prima ancora che sapesse cosa avesse intenzione di fare da grande, probabilmente per necessità dettate dalle scadenze dei quarti fiscali del publisher. Quarti fiscali che, mi permetto di sospettare, non saranno stati proprio resi fiorenti dal lancio di Babylon's Fall, in realtà.
In tutti i questi casi, ci sono sviluppatori che hanno speso tempo, ingegno e risorse per creare opere che sono finite in un pugno di mosche, in investimenti che non hanno condotto a nulla.
È il rischio di inseguire anziché condurre o inventare: c'è stato un momento in cui ogni cosa è stata declinata in salsa battle royale, per esempio, o in salsa shooter in soggettiva. E, nei casi dell'addio a The Last of Us Online o del flop di Marvel's Avengers, è anche la prova che solo perché una IP è amata, questo non significa che il suo pubblico la farà diventare un live service remunerativo.
Il miraggio del successo
Negli anni, i publisher hanno tentato in tutti i modi di trovare la loro gallina dalle uova d'oro, ma il punto è che il live service di successo è una eccezione, non la regola, proprio perché trovare contemporaneamente un'idea davvero forte che funzioni, le risorse per supportarla a lungo termine e un'esperienza che strappi i giocatori dai live service già popolarissimi è una specie di congiunzione astrale. E va da sé che non sia una mossa saggia provare, allora, a rendere i live service la regola anziché l'eccezione delle proprie produzioni.
Si può pensare di "accontentarsi", certo, a patto di avere un equilibrio tra quanto si spende e quanto si incassa. For Honor, ad esempio, secondo i dati di SteamCharts negli ultimi trenta giorni su Steam ha avuto una più che dignitosa media di oltre 3,3mila giocatori attivi. L'ambizioso Outriders, che Square Enix promosse con tutti i crismi del caso e che di recente venne aggiornato con novità che volevano dargli una scossa, negli stessi trenta giorni ha avuto una media di 348 giocatori attivi. Outriders è uscito nel 2021, For Honor nel 2017.
E People Can Fly faceva sapere, a maggio 2022, che «i guadagni netti dalle vendite di Outriders sono stati insufficienti per recuperare i costi e le spese del publisher per sviluppare, distribuire e promuovere il titolo».
Se aiuta a darsi una proporzione, EA Sports FC 24 ha avuto una media di oltre 40mila utenti attivi negli stessi ultimi trenta giorni su Steam, Destiny 2 – che pure non vive il suo momento di massima forma e ha numeri in flessione – ha superato i 47mila utenti attivi medi nei trenta giorni.
Media utenti attivi negli ultimi 30 giorni su Steam, secondo SteamCharts
Gioco | Media utenti negli ultimi 30 giorni | Giocatori medi per mese un anno fa |
EA Sports FC 24 | 40.461,8 | 48.902,6 (FIFA 23) |
eFootball | 5.795 | 7.376,1 |
The Division 2 | 3.242,5 | -- |
For Honor | 3.306 | 2.867,9 |
Outriders | 348 | 462,5 |
Marvel's Avengers | 183,6 | 532,1 |
PUBG | 249.250,2 | 212.290,4 |
Destiny 2 | 47.169,3 | 62.138,1 |
Call of Duty | 102.821,8 | 178.353,3 |
Sea of Thieves | 8.713,9 | 11.964 |
Fallout 76 | 8.506,5 | 8.448,3 |
The Elder Scrolls Online | 12.257,9 | 14.037,7 |
Halo Infinite | 4.570,6 | 3.969 |
Lost Ark | 40.430,5 | 269.489,7 |
Apex Legends | 141.765,2 | 170.882,7 |
Back 4 Blood | 2.035,1 | 3.392,2 |
GTA V | 148.398,7 | 106.294,1 |
Payday 3 | 1.371,3 | -- |
Payday 2 | 26.612,3 | 32.951,9 |
Rainbow Six Siege | 42.187 | 39.917,4 |
Rainbow Six Extraction | 59,8 | -- |
Insomma, la sfida del successo a lungo termine è tutt'altro che banale e gli investimenti che vengono profusi per tentare di inseguirlo solo in rari casi riescono a tradursi in un buon ritorno. Può essere utile, a tal proposito, la tabella che proponiamo qui sopra, che mostra se e come le attività sui giochi citati sono cambiate da dicembre 2022 a dicembre 2023.
Uno dei casi più clamorosi, qui, è quello di Payday 3, che è appena uscito ed è meno giocato di Payday 2 (che risale al 2013), capitolo precedente che doveva soppiantare: un buon sunto del fatto che non ci sia la formula del successo sicuro, nemmeno quando punti con non troppe attenzioni sulla reiterazione in una saga.
Riuscirà a strappare parte del pubblico di Sea of Thieves? Deve, certo, considerando quanto Ubisoft abbia speso nel progetto in tutti questi anni. Ma può farcela? Lo vedremo, ma tra il dovercela fare e il potercela fare, è il caso di dirlo, c'è davvero un mare di mezzo.
Tornare a misura d'uomo
Nel tentativo di trovare la loro isola felice e remunerativa nell'oceano di live service, i publisher devono scontrarsi con i dati diffusi da Sony per il 2023: in tutto il mondo, i giochi su cui i giocatori hanno trascorso più ore sono praticamente sempre gli stessi tre o quattro: Fornite domina, inseguito a seconda del mercato da FIFA/EA Sports FC, GTA V o Call of Duty.
La ricerca spasmodica di un modello persistente che possa portare entrate costanti è stata, ad esempio, al cuore della pianificazione che l'uscente Jim Ryan aveva messo in atto anche per l'universo PlayStation. È per questo che Sony ha messo le mani su Bungie ed è per questo che al più recente PlayStation Showcase abbiamo visto un numero spropositato di giochi persistenti (fin troppo simili tra loro a una prima occhiata, ma è questione di gusti, ammetto, ndr).
Ora che il dirigente ha dato il suo addio, però, sembra che Sony stia di nuovo cambiando direzione e che abbia deciso di rinviare l'ondata di live service che aveva in cantiere. Il caso di The Last of Us Online, che si sveglia una mattina e dopo anni di sviluppo si accorge di costare un pochino troppo, potrebbe essere solo uno tra i diversi.
Ma ha un senso: considerando la scala delle sue produzioni e il livello di fotorealismo a cui puntano, sommato alle spese di marketing fuori scala, produrre un gioco da parte dei PlayStation Studios per Sony ha costi proibitivi. Così come li avrebbe per chiunque, perché continuare a produrre AAA fotorealistici sempre più grandi costa semplicemente troppo, per un modello di vendita che spera negli 80 euro a copia il giorno di lancio – e basta.
Da qui l'idea dell'infornata di live service, che però sono lontani da ciò per cui i PlayStation Studios si sono fatti un nome (che è l'esatto opposto, il single player story-driven). E da qui il fatto che, però, produrre un live service di successo, nei numeri che sarebbero utili ai costosi progetti di casa Sony, sia tutt'altro che una passeggiata.
La soluzione, allora, più che il continuare a sperperare vanamente soldi per idee che messe a confronto con il pubblico non hanno né capo né coda e sono dimenticabili, potrebbe essere far tornare le produzioni a essere a misura d'uomo. È difficile sostenere progetti che costano nell'ordine delle centinaia di milioni di dollari ed è anche un modello che porta le software house ad assumere, assumere e assumere per cercare di rispettare le consegne – e poi a licenziare, licenziare e licenziare, intrappolando gli sviluppatori in un costante saliscendi di precarietà, quando la consegna è alle spalle e il publisher incrocia le dita per le vendite.
L'unica certezza, in questa situazione, è comunque che sgranare il rosario dei live service sperando di pescare un miracolo ha a sua volta un impatto – e raramente la cosa conduce a un ritorno. Gli ultimi due anni ce lo hanno detto in modo piuttosto netto, viste le tante chiusure e perfino un nome come The Last of Us che alza le mani, mentre i giocatori sono distratti da Fortnite, FIFA e Call of Duty. Ma l'industria sarà capace di ascoltare?