Quando Like a Dragon: Ishin! (qui la nostra recensione) ha finalmente debuttato sul mercato occidentale, mi accingevo a leggere un bellissimo saggio dedicato alla mafia giapponese: “Yakuza: Un’altra mafia” scritto dallo studioso e yamatologo Giorgio Arduini.
Un saggio non poco impegnativo, pieno zeppo di nomi, date, curiosità e riferimenti storici che lo rendono – almeno nel panorama dell’editoria italiana – la magna carta, l’opera omnia fondamentale per tutti coloro che desiderano conoscere più da vicino quella che è la criminalità organizzata giapponese.
La yakuza viene vista da noi occidentali un po’ come se fosse materiale per un nuovo film di Hollywood, fatto di sotto-trame e legami tra mondo criminale e zaibatsu; la cinematografia e l’intrattenimento occidentale hanno regalato alla yakuza quella sorta di fascino esotico, con rituali e simbolismi ben precisi.
Tuttavia, come qualsiasi organizzazione criminale, di esotico c’è ben poco: la yakuza è una delle tante contraddizioni all’interno della società giapponese, una macchina spietata che nell’ombra lascia dietro di sé una scia di violenza, droga, estorsioni e prostituzione.
Quando ho giocato per la prima volta ad un capitolo di Yakuza (qui il mio approfondimento sul Giappone), l’ho fatto per avvicinarmi – seppur in maniera virtuale – al mondo del Sol Levante e ho fatto davvero molta fatica a comprendere la complessità dell’apparato criminale giapponese. Non lo nego: all’inizio anche io mi sono lasciata trasportare dal mero fascino "esotico" della yakuza, se così vogliamo chiamarlo.
Eppure, spostando leggermente quella patina e cercando nel profondo delle cose, ho fatto quello che mi riesce meglio: posare il mio controller e andare a cercare approfondimenti, letture, saggi, anche un po’ di cinematografia. Quello che ho trovato è stato un mondo sostanzialmente diverso da quello che io immaginavo, estremamente vicino a quanto visto in Yakuza/Like a Dragon, la cui saga videoludica è una grande denuncia sociale su ciò che avviene costantemente in un Giappone, fatto di tante luci ma anche tante ombre.
Questo studio, unito all’intrattenimento che solo un titolo come Yakuza riesce a dare, ha mosso in me tanti interrogativi e ha alimentato ancora di più la mia passione per il Giappone, nonostante i dubbi e le perplessità su un Paese che continua ad esercitare in me una curiosità irrefrenabile.
Qual è, allora, la verità dietro l'organizzazione della yakuza e quanto di autentico vi è nella sua rappresentazione all'interno della saga videoludica?
Origini della yakuza e significato del termine
Partiamo dalla parola yakuza, il termine più conosciuto rivolto alla mafia giapponese sia in patria che fuori. È una parola del gergo bakuto (vedremo più in seguito di cosa si tratta) connessa al gioco d’azzardo “oicho kabu”, una variante del kabu che assomiglia molto all’occidentale baccarat.
La difesa del territorio e dei più deboli è l’obiettivo massimo di ogni yakuza. Gli yakuza di oggi sono ideologicamente legati ad una figura ben precisa molto simile al celebre ladro gentiluomo inglese. Si tratta dei kyokaku (letteralmente, “persona cavalleresca”), briganti del XVII secolo, i quali – seppur messi alle strette e disposti a dover infrangere la legge – mantengono una decorosa dignità che li rende prima di tutto “uomini” (Arduini); qui entra in scena l’immaginario dell’eroe invischiato nella criminalità che resta romantico, legato a doppio filo a ideali nobili e giusti.
Ci sono diverse teorie circa l’origine della yakuza così come la conosciamo oggi. La teoria più accreditata è rivolta al gruppo dei Kabukimono, noti anche come Hatamoto-Yakko. Questi Kabukimono costituivano gruppi di ronin, ovvero samurai senza padrone, precedentemente al servizio di famiglie di samurai.
Nell'era Tokugawa iniziò un periodo di stabilità nel Paese e molti samurai, a causa della mancanza di occupazione, furono congedati dai loro signori e divennero ronin. Questi samurai si unirono tra loro per formare bande, note per la loro inclinazione alla violenza e per il terrore che infliggevano agli abitanti dei villaggi. Caratterizzati da un comportamento spregiudicato e dall'uso di linguaggio volgare, indossavano abiti vistosi dai colori sgargianti e sfoggiavano tagli di capelli eccentrici.
Un'altra possibile origine, sostenuta direttamente dalla yakuza stessa, è legata ai Machi-Yakko, una specie di forza di polizia privata costituita da commercianti, negozianti e persino ronin. Questi Machi-Yakko avevano il compito di difendere i villaggi da assalitori, ladri e criminali.
Erano figure estremamente apprezzate dalla popolazione e assunsero il ruolo di eroi popolari che intervenivano per proteggere i più vulnerabili dalle spaventose incursioni dei Kabukimono. Gli affiliati Machi-Yakko erano anche noti per la loro passione per il gioco d'azzardo e avevano stabilito tra loro dinamiche simili a quelle che caratterizzano ancora oggi la yakuza.
Un’altra diffusa teoria è relativa al legame tra la yakuza e due categorie di persone che si sono distinte durante il periodo Edo (1603 - 1868), i bakuto e i tekiya. Questi gruppi, invischiati in ambienti criminali e d’intrattenimento, iniziarono a popolare le grandi città, tra cui l’odierna Tokyo. I bakuto erano persone coinvolte nel gioco d’azzardo e nelle scommesse, termini dai quali prendono il nome. Erano noti per organizzare e partecipare a giochi d’azzardo clandestini, tra cui il suddetto oicho kabu. Nel gioco illegale la yakuza, ancora oggi, ha il suo monopolio, soprattutto nella gestione delle sale pachinko.
I tekiya, invece, erano dei mercanti ambulanti o venditori di strada. A differenza dei bakuto, che praticavano un’attività bandita dalla legge, i tekiya erano normali commercianti che tuttavia si occupavano “sottobanco” di scambio di merci contraffatte o rubate, estorsione e diverse truffe a danni di poveri ignari clienti – come ad esempio la tecnica del “mercante ubriaco”, il quale fingeva di essere alticcio per vendere merce falsamente pregiata a basso prezzo.
Le kumi e il rapporto simbiotico padre/figlio
Come visto nella saga di Yakuza, l’organizzazione criminale del Paese è suddivisa in kumi (famiglie), ciascuna delle quali composta da altre famiglie “sussidiarie” guidate da un capo chiamato Oyabun. La Omi Alliance dell’area del Kansai, presente in tutti i capitoli della serie di Yakuza, è fortemente ispirata alla più grande famiglia criminale giapponese, la Yamaguchi-gumi di Kobe.
Il rapporto di fedeltà tra capo e i suoi sottoposti, detti “kobun”, è sancito da una solenne cerimonia che risponde al nome di sakayuki, nella quale entrambi bevono dalla stessa tazza di tè in segno di rispetto e devozione. “Oyabun” vuol dire letteralmente “grado di padre”, mentre “kobun” è “grado di figlio”, un legame che si avvicina molto a quello tra consanguinei ma che in realtà si manifesta grazie ad un senso di appartenenza condiviso.
L’oyabun si comporta come un vero e proprio padre: prende i sottoposti più giovani sotto la propria ala, dà loro consigli per affari inerenti alla vita nel gruppo e anche nella sfera privata.
Il figlio di Takao Kazuo, storico oyabun e fondatore della Yamaguchi-gumi, disse: «Non è la paura che tiene gli uomini di mio padre legati a lui. È l’amore e la lealtà per tutto quello che ha fatto per loro». L’abnegazione richiesta dai kobun, che si ispirano ad un leader forte, è assoluta.
Nel caso in cui un kobun violi i principi di lealtà nei confronti del suo capo ma desideri rimanere all'interno della famiglia e ottenere il perdono, sarà tenuto a compiere un rito noto come "Yubitsume." Questo rituale implica l'amputazione dell'ultima falange del dito mignolo, che viene successivamente avvolta in un panno e presentata al capo come simbolo di pentimento e richiesta di perdono.
Arduini nel suo saggio scrive: «l’abnegazione […] si estende fino al 'migawari' (lett. “sostituzione di persona”) pratica secondo quale il kobun si fa arrestare in luogo dell’oyabun o addirittura sacrifica la sua vita».
Questo specifico tema è uno degli aspetti centrali e fondamentali delle storie di Kiryu Kazuma e Ichiban Kasuga, i quali decidono di scontare la pena del loro padre putativo. Non nego che, all’oscuro di queste verità, sono rimasta interdetta da questa scelta, seppur avesse luogo in un’opera di finzione. Tuttavia, un contrappunto nella realtà esiste ed è interessante – in quanto rende coerente lo sviluppo narrativo e psicologico dei protagonisti della serie.
Tutto alla luce del Sol Levante
Tra le tante contraddizioni che mi hanno stupito, la prima – sicuramente – è quella della forte presenza della yakuza sul territorio. Incomprensibile per noi e per il nostro modo di concepire le organizzazioni mafiose, la yakuza nipponica sfoggia con orgoglio uffici nei centri cittadini, dotati di chiare insegne con il nome e il simbolo della propria cosca.
C’è anche un’attenzione esasperata al dettaglio per ogni affiliato: oltre ai celebri tatuaggi, molti yakuza sfoggiano uno slang dedicato, abbigliamenti eccentrici (spesso con il mon in bella vista sul bavero della giacca), persino un particolare modo di camminare, spavaldo e arrogante; tutto questo viene sublimato in maniera egregia nel gioco, con gli sgherri che tentano di approcciare il protagonista con una camminata provocatoria e “da duro”.
È importante sottolineare, inoltre, che appartenere alla yakuza non è considerato reato in Giappone. Molte famiglie sono registrate ufficialmente come organizzazioni religiose, gruppi sindacali o altro; un altro neo all’interno del panorama giapponese è la corruzione tra forze dell’ordine e criminalità organizzata (spesso un tema denunciato e portato in auge anche attraverso l’opera omnia di Ryu Ga Gotoku Studio) i cui legami riescono a celare saggiamente le attività illegali sotto forma di operazioni o azioni rispettose della legge.
Un’altra attività circoscritta al bizzarro mondo criminale giapponese è quella di disturbare le assemblee degli azionisti. Molti di voi si ricorderanno lo strambo mini-gioco dedicato alle assemblee degli azionisti in Yakuza Like a Dragon; bene, i metodi rudi degli investitori mi hanno ricordato la figura del sokaiya.
I sokaiya si dividono in due tipologie: gli yato sokaiya, sono individui che si rivolgono alle società usando minacce di divulgazione di informazioni sensibili durante le assemblee, disturbando e minacciando i partecipanti e i dirigenti durante le riunioni aziendali, rendendo impossibile il regolare svolgimento di tali incontri attraverso metodi più o meno violenti.
Gli yoto sokaiya invece operano a servizio degli azionisti di maggioranza, allo scopo di reprimere il dissenso tra i soci di minoranza, accelerare il processo decisionale durante le assemblee e ostacolare l'azione di altri rappresentanti degli interessi.
Ritornando allo spirito “cavalleresco” insito in ogni affiliato che si raffigura un po’ come un moderno Robin Hood, paradossalmente la yakuza è – a suo modo – al servizio della difesa del cittadino. La Yamaguchi-gumi, dopo il devastante terremoto del 1995 che ha colpito proprio la sua città, Kobe, intervenne prima del governo per coordinare le operazioni di soccorso, mettendo persino a disposizione i propri elicotteri per trasportare i feriti.
Lo stesso spirito di soccorso emerse dopo il devastante terremoto del 2011; ancora una volta, la yakuza si fece avanti per portare soccorso nelle zone colpite. Tutto quanto, con il benestare dei cittadini: «never complain, never explain», come si dice.
Lo stretto legame con lo yakuza eiga
Come ho detto già all’inizio di questo approfondimento, ci sono molte similitudini tra il famoso videogioco e la vita reale. Tuttavia, molti aspetti nel videogioco pubblicato da Sega sono stati volutamente portati all’esasperazione, per una maggiore spettacolarità.
Molti trope narrativi presenti in tutti i capitoli della saga sono un riferimento agli yakuza eiga, ovvero i film dedicati all’universo criminale giapponese che hanno avuto un discreto successo in Giappone, specialmente tra gli anni ’60 e gli anni ’80. Nel cinema di Hollywood la rappresentazione della yakuza fa capolino con un film omonimo, del 1979, con la presenza sullo schermo di Ren Takakura, già attore di pellicole yakuza eiga in patria.
Si tratta del primo caso in cui la yakuza viene rappresentata nel cinema a degli spettatori occidentali e negli anni questa presenza è diventata sempre più forte.
È doveroso menzionare il film TV Girls of the White Orchid (1983) tratto da avvenimenti realmente accaduti, Black Rain di Ridley Scott (1989), Resa dei conti a Little Tokyo (1991) e Johnny Mnemonic (1995), adattamento del romanzo di Gibson La notte che bruciammo Chrome.
Nelle pellicole in cui appare, la yakuza di solito assume il ruolo di antagonista, ma è caratterizzata da una ricca profondità culturale, tradizioni ed esotismo che la rendono affascinante; tra le cose che hanno suscitato l’interesse delle popolazioni oltreoceano ci sono sicuramente i numerosi rituali che mescolano onore, rispetto e crudeltà (come il taglio della falange o i tatuaggi).
La saga di Yakuza è da considerarsi come un grande film interattivo del genere, poiché saggiamente implementa e impila come blocchi di Tetris i tipici stilemi dello yakuza eiga, il beat ‘em up e il free roaming preso in prestito – seppur ufficiosamente – da Shenmue II, pubblicato sempre da Sega.
Secondo Arduini, lo yakuza eiga è caratterizzato da ben 18 “situazioni tipo” che sappiamo ben riconoscere se abbiamo giocato almeno ad uno dei tanti capitoli della saga di Kiryu e compagnia.
Uno degli incipit più abusati è sicuramente l’uscita di prigione da parte del protagonista, per un crimine che ha commesso o – molto più comune – per proteggere il suo caro oyabun.
Sia Kiryu che Ichiban hanno pagato per un crimine non direttamente commesso da loro e al loro ritorno alla vita di tutti i giorni devono far i conti con varie ed eventuali modifiche alla loro organizzazione di appartenenza; un altro tema molto ricorrente è appunto la presa di controllo della banda da parte dell’oyabun “cattivo”, in netto contrasto con il vecchio capo/padre putativo generalmente mostrato come buono e autorevole, soprattutto verso il protagonista.
Inoltre, gli sgherri del capo “cattivo” possono essere invischiati in attività illecite e “lontane” dall’immaginario cavalleresco di uno yakuza: spaccio di droga, omicidi e offese alla popolazione “civile” che è considerata intoccabile.
Imprescindibili negli eiga sono gli episodi del passato che affliggono il protagonista e la sua difficoltà nell’affrontarli, l’eroe al capezzale di un amico/rivale, il riscatto, visita e confessione dei propri pensieri alla tomba di un caro o di un vecchio oyabun e infine, la sequenza più emblematica sia nel panorama cinematografico che – per contro – anche in quello di Yakuza è il duello con la scena del tatuaggio svelato a mo’ di dichiarazione della propria condizione, o per gettare una sfida.
Il successo più grande di questi film era dovuto alla grande attrazione tra protagonista maschile e il pubblico in sala, generalmente giovani studenti o sarariman.
Gli yakuza cinematografici erano personaggi molto amati e presi come modelli di comportamento; grazie al retaggio preso in prestito dai samurai, gli yakuza nel cinema erano fondamentalmente carichi di qualità positive: spavaldi, coraggiosi, saggi, impassibili e con forte senso del dovere; una mascolinità papabile ed invidiabile da parte di una popolazione smarrita e che portava ancora le cicatrici della guerra mondiale.
Il nuovo yakuza eiga, nato nei primi anni ’90 grazie a registi celebri come Takeshi Kitano e Takashi Miike, rigettava il modello dell’eroe romantico, solitario, cupo e che amava farsi giustizia da solo e proponeva anti-eroi, personaggi alienati, esistenzialmente in crisi. Lo yakuza eiga diventò quindi strumento di denuncia sociale, verso la criminalità organizzata e le sue malefatte, ma tuttavia non sparì mai quell'“ancoraggio” verso gli ultimi e i più deboli, un tema caro di cui Yakuza si fa portavoce.
Verso nuove storie…
Il nuovo capitolo di Like a Dragon arriverà ufficialmente il 9 novembre e vedrà a capo nuovamente Kazuma Kiryu, storico protagonista della saga, e il ritorno dello stile beat ‘em up, dopo che il passo era stato ceduto a un rinnovamento con nuovi protagonisti e un gameplay più vicino a quello dei giochi di ruolo.
Like a Dragon Gaiden: The Man Who Erase His Name ci vede nuovamente tra le strade di Yokohama e Osaka e si pone tra gli eventi di Yakuza 6: The Song of Live e Yakuza Like a Dragon (in Giappone conosciuto come Yakuza 7); la trama sarà dedicata interamente alla nuova vita di Kiryu che – per proteggere i ragazzi del suo orfanotrofio di Okinawa – cambierà nome e “professione”, diventando un agente segreto ma sempre invischiato nelle varie sotto-trame e intrighi delle cosche clandestine.
Insomma, se Ichiban Kasuga è ormai protagonista assoluto e irriverente, a tratti goffo ma dallo spirito buono, Kiryu continua ad essere l’incarnazione di quel gangster romantico, fondamentalmente buono, che – con indomito coraggio – riesce a farsi largo secondo la propria giustizia e senso dell’onore.
Secondo i criminali giapponesi, uno yakuza è considerato onorevole quando d’estate cammina al sole per lasciare l’ombra ai cittadini e d’inverno cede invece la parte soleggiata.
Sappiamo bene che non è così e la celata ma perpetua denuncia al crimine organizzato, presente in Yakuza ma anche negli spin-off Judgment e Lost Judgment, deve farci comprendere il peso di determinate azioni in un panorama sociale complesso come quello giapponese.
Tuttavia, seppur fosse esistita una visione di questo tipo in passato, oggi resiste ed esiste solo negli stilemi della finzione, dove indubbiamente esercita il suo fascino e lascia anche con uno spunto di speranza, quasi a suggerirci che (molto) in fondo, forse, davvero "c'è del buono in tutti noi".