Il Giappone: piccolo arcipelago formato da quattro grandi isole che sorge all’Estremo Oriente del nostro emisfero. Una terra che molti di noi hanno sognato sin da bambini, piccola fucina di idee e di prodotti che da piccoli abbiamo amato e apprezzato; un luogo in cui il futuro era già presente, teatro realistico di alcune correnti letterarie e cinematografiche.
Ricordate il video in loop di una geisha nella futuristica Los Angeles di Blade Runner? Siete rimasti impressionati nel vedere una coerente Neo-Tokyo, impreziosita dalle sue autostrade sopraelevate, in Akira di Katsuhiko Otomo? Il Giappone era teatro perfetto per il futuro e tutto ciò che veniva da quella terra era, per noi bambini nati al calare dei gloriosi anni Ottanta, qualcosa da scoprire e guardare con curiosità.
È proprio William Gibson, autore del classico Neuromante, a descrivere il Giappone moderno in questi termini, che ci concediamo di tradurre:
«Il Giappone moderno era semplicemente cyberpunk. I giapponesi stessi lo sapevano e ne erano deliziati. Mi ricordo la mia prima occhiata a Shibuya, quando uno dei giovani giornalisti di Tokyo che mi ci aveva portato [...] disse 'lo vedi? Lo vedi? È la città Blade Runner'. E lo era. Lo era in modo evidente».
Non a caso, la corrente cyberpunk nasce all’inizio degli anni Ottanta, in contemporanea con la vertiginosa ascesa del Sol Levante nel panorama socio-economico mondiale, un periodo assai fiorente che è nato nel dopoguerra e culminato con lo scoppio della Bolla Speculativa del mercato edilizio nipponico.
Nell’immaginario sociale nipponico la “bolla” era un periodo assai favorevole sotto più punti di vista – non solo da quello economico – in cui tutto era ricoperto da una patina dorata. Tokyo, in particolare, era il mondo del possibile, in cui tutti potevano inventare e re-inventarsi.
Da questa corrente ottimista è nato il mondo dell’intrattenimento e dell’hi-tech e – non a caso – dagli anni Ottanta ad oggi il mercato videoludico giapponese ha conosciuto poche battute d'arresto. Ha avuto frenate e ridimensionamenti, sì, all’ombra dei grandi colossi occidentali, ma non è mai sparito: tant’è che è proprio nei videogiochi che i giapponesi hanno saputo ricreare parte della loro storia e delle loro aspettative, dando a noi occidentali uno spaccato di una cultura e di una terra così lontana e – a tratti – mutabile in base agli eventi e alle circostanze.
Un mondo misterioso che ci ha affascinato da più punti di vista e ci ha permesso di guardare al futuro, con ottimismo, e al suo passato, come austero monito della vita che cambia ma che non viene mai dimenticata.
Quali sono, allora, alcuni dei videogiochi per eccellenza che a modo loro ci raccontano il Giappone, quasi come se volessimo scoprirlo o virtualmente visitarlo, attraverso i loro mondi?
Yakuza 0 e la “Bolla Economica” giapponese
Parlando proprio della bolla speculativa che ha raggiunto il suo apice negli anni Ottanta, non posso fare a meno di pensare a quella preziosa saga che è Yakuza/Like a Dragon, serie dedicata al crimine organizzato giapponese – ormai affermata anche sul nostro mercato – nata dalla mente di Toshiro Nagoshi e prodotta da Ryu Ga Gotoku Studio.
Yakuza è quello che io considero come il gioco giapponese per eccellenza, adatto e consigliato caldamente a tutti i videogiocatori che amano il Sol Levante e che sono – per molteplici ragioni – impossibilitati a raggiungere e visitare l’arcipelago orientale.
Il periodo della bolla speculativa non poteva essere ignorato e – oltre al fatto che la speculazione edilizia giapponese e l’apparato mafioso delle kumi (le famiglie criminali) andavano quasi a braccetto – l’universo di Yakuza ci catapulta violentemente in Yakuza 0, nel prequel della storia di Kazuma Kiryu, protagonista indiscusso della saga, ambientato nel 1986.
Per la prima volta la saga di Kiryu viaggia indietro nel tempo, attraverso gli occhi virtuali del protagonista abbiamo sempre visto il Giappone contemporaneo, lo abbiamo apprezzato, amato e riconosciuto. Tuttavia, per la prima volta, gli sviluppatori con questo titolo hanno cambiato i “connotati” di Kamurocho (nome di fantasia del quartiere a luci rosse di Kabukicho), rendendola a tutti gli effetti una piccola metropoli nel boom economico: alcuni palazzi sono sempre gli stessi, ma altri sono nel pieno della loro costruzione – è uno dei simboli del progresso che avanza.
Icone, mini-giochi (come quello del fiorente mercato immobiliare, appunto!) e rappresentazioni visive sono continui riferimenti a quel preciso periodo storico: Yakuza 0 diventa un vero e proprio palcoscenico – e non solo per il nostro mero divertimento: anche per il nostro apprendimento, dato che proietta verso il recente passato del Giappone.
A meno che non sia frutto di studio o interesse personale, difficilmente noi occidentali possiamo riuscire ad appassionarci così tanto al piccolo miracolo giapponese (finito poi con lo “scoppio” della bolla nel 1992 e l’inizio del decennio perduto): Yakuza 0 riesce a veicolare messaggi e contesti, invece, in modo sopraffino.
Oltre a confezionare una storia coerente con il background e la personalità dei protagonisti principali, il titolo pubblicato da Sega diventa una bella lezione di storia e sociologia difficile da ignorare.
Il Giappone apocalittico nel visionario mondo di Shin Megami Tensei/Persona
Tra gli strascichi della devastante Seconda Guerra Mondiale c’è stato il timore, insito in migliaia di giapponesi, di un nuovo disastro nucleare. Una paura latente ma forte soprattutto nell'immediato dopoguerra, in cui erano ancora aperte le cicatrici delle due bombe atomiche sganciate sulle città di Hiroshima e Nagasaki.
La condanna da parte del popolo giapponese delle armi nucleari è apparsa anche sulla Costituzione: il Giappone ripudia la guerra e la bomba atomica. Di riflesso, come specchio di ogni società moderna, le paure e i timori hanno trovato il loro terreno nelle arti figurative.
La celebre serie di film Godzilla nasce proprio da questo spirito di denuncia dei produttori del film, il regista Jun Fukuda disse: «immaginavo Godzilla come la personificazione della violenza e dell'odio per l'umanità, poiché fu creato dall'energia atomica».
Il campo di battaglia di Godzilla e di tanti altri alieni e robot che si sono susseguiti in opere cinematografiche e videoludiche è proprio Tokyo, il simbolo della rinascita nel Dopoguerra e della globalizzazione, polmone sociale ed economico della vita nipponica.
Shinjuku, Shibuya o Kichijoji sono – solitamente – i quartieri più alla moda, più vicini alle tendenze giovanili quelli maggiormente colpiti dai cataclismi soprannaturali; per questo motivo, all’interno della nostra disamina, una menzione d’onore va sicuramente a Shin Megami Tensei.
La saga di Megami Tensei ha fatto il suo debutto su Super Famicom nel lontano 1987; all’epoca la fortunata saga era stata prodotta da Atlus e pubblicata da Namco. La trama era il diretto seguito di una saga letteraria di genere horror molto famosa in Giappone in quel periodo: Digital Devil Story, scritta da Aya Nishitani.
Il protagonista è generalmente un liceale che – suo malgrado – si trova al centro di un grave cataclisma che coinvolge il mondo reale, ovvero l’invasione incontrollata di entità soprannaturali o demoniache, un tropo narrativo che continua, in qualche modo, ad essere fulcro dell’intera saga.
Da una “costola” dei primi due fortunati Megami Tensei – che contribuirono ad espandere l’universo narrativo di Nishitani – nacque il ben più noto Shin Megami Tensei, un vero e proprio “reboot” del franchise che vedeva come protagonista la sola Atlus a seguito di dissidi interni con la software house di Pac-Man.
Shin Megami Tensei è stato l’apripista di un universo narrativo granitico che dagli anni Ottanta si estende fino ad oggi con ben 23 spin-off e variazioni dal titolo originale (che prosegue ancora su Nintendo Switch). Ovviamente, lo spin-off più celebre (e che ha ormai abbandonato il prefisso SMT) è Persona che si distacca dalla serie originale introducendo la teoria junghiana della “Maschera”.
Shin Megami Tensei è anche noto per essere un precursore nel mondo dei videogiochi di ruolo in quanto è fortemente presente la cattura (forse è meglio dire “contrattazione”) e la gestione dei demoni che andremo a reclutare nella nostra città ormai in balia del caos.
Come dice correttamente Luca Rungi, nella sua precisa disamina della serie, i demoni non diventano mai nostri alleati, bensì sono un necessario mezzo di sopravvivenza per poter superare i difficili dungeon del gioco; il titolo di Atlus quindi si pone come antesignano di una modalità ludica che è diventata famosa in ben altre serie videoludiche, Pokémon su tutte.
Tuttavia, qual è il nesso tra Godzilla che attacca Tokyo e i demoni del fortunato JRPG di Atlus? Scorre un filo molto sottile che accomuna le due opere: la differenza tra l’ordine costituito e il caos, la lotta contro il bene e il male che può essere di natura sovrannaturale/demoniaca o umana.
Su quest’ultima mi piacerebbe soffermarmi in quanto Megami Tensei II (uscito nel 1990) è ambientato in un Giappone post-apocalittico devastato dalle bombe atomiche. A causa delle radiazioni, la popolazione vive prevalentemente in bunker sotterranei, come in Fallout.
Il protagonista è – come sempre – un giovane che, che un giorno, giocando ad un videogioco online, per mezzo di bug viene a contatto con un demone che romperà il sigillo del suo mondo, affidando al ragazzo il compito di salvare l'umanità da questa crisi.
Il tropo narrativo si sussegue in tutti i capitoli, giovani – la maggior parte delle volte completamente ignari – si ritrovano a dover salvare l’umanità dal caos ed è sempre il Giappone a farne le spese. Il motivo per cui il team di sviluppo dell’epoca scelse Tokyo come ambientazione principale era che la storia turbolenta della capitale, afflitta da guerre e disastri naturali, la rendeva paragonabile alle ambientazioni fantasy di altri giochi dell’epoca.
Tuttavia, a differenza dei JRPG più classici ambientati in un mondo fantastico, i videogiocatori potevano immedesimarsi più facilmente nei protagonisti e nelle loro vicende grazie allo scenario di una Tokyo moderna e credibile. A rinforzo di questa tesi, un membro dello staff di Atlus disse in un’intervista che lo stile dato da una metropoli moderna come Tokyo rendeva Megami Tensei l’antitesi dei giochi di ruolo fantasy tradizionali, aggiungendo che questo ha fatto sì che il gioco sviluppasse uno «spirito punk» – cosa che è sopravvissuta fino ad oggi, se pensiamo alla cultura giovanile rappresentata in Persona 5.
Il primo sguardo che vediamo di Tokyo, nel capitolo originale della saga, è nel quartiere di Kichijoji, teatro di brutali omicidi. La scelta precisa di un quartiere un po’ più defilato rispetto agli arcinoti distretti di Ginza, Roppongi o Shibuya, sta nel fatto che Kazuma Kaneko (l’art director del gioco) e compagni erano originari della zona e la conoscevano molto bene.
In particolare, l’edificio abbandonato del Terminal Echo affascinava il giovane Kaneko, che si chiedeva come fosse possibile che un grande edificio, costruito in una posizione privilegiata, potesse rimanere utilizzato, diventando quasi un palazzo fantasma; così, Terminal Echo fu di ispirazione per un dungeon.
Insomma, anche qui Tokyo diventa teatro di battaglia e il significato di tutto sta sempre nella forza di chi parte con niente, degli ultimi che devono ribaltare il caos per riportare la pace; è un po’ la metafora dei popoli che si rialzano dopo un grave disastro.
Come molte società, quella giapponese (per via della sua natura orientata al collettivismo) deve farsi strada per riportare l’ordine nelle cose, la pace e il progresso. C’è molto di più profondo nella trama del gigantesco universo narrativo di Shin Megami Tensei, ma quello che mi piacerebbe sottolineare in questo approfondimento è la forza di volontà dei protagonisti e la condanna del male che si può trovare, insidiosamente, negli angoli della Rete o nel sottobosco urbano che popola le nostre complesse città.
Il folklore e gli yokai in Ghostwire Tokyo
Se c’è una cosa davvero affascinante del Giappone è la storia dietro le sue leggende, gli spiriti e le creature fantastiche.
Lafcadio Hearn è stato uno dei primi studiosi occidentali a stabilirsi in Giappone alla fine dell’Ottocento; di origine greca e irlandese, si stabilì dapprima negli Stati Uniti, tra Cincinnati e New Orleans, in cui svolse il mestiere di giornalista un po’ fuori dall’ordinario. Privilegiava la scrittura di approfondimenti sulle classi sociali ai margini, folklore e riti voodoo della comunità creola, dopodiché sul finire dei suoi anni fu spedito – come corrispondente estero – nelle Indie Occidentali e in Giappone, che da poco aveva aperto le sue “mura”.
Rimasto incantato dal Sol Levante, Hearn vi si stabilì fino alla morte, studiandone le tradizioni e il folklore, sposando una donna giapponese e regalando agli occidentali il primo spaccato della cultura e dell’occultismo giapponese grazie a libri come Kwaidan o Ombre Giapponesi.
Giocare a Ghostwire Tokyo mi ha un po’ riportato nei racconti di Hearn, catapultandomi in una oscura, piovosa e trasognante Tokyo. Tutta la popolazione pare essere svanita nel nulla, le strade della città sono popolate da visitatori ultraterreni capeggiati da cattivoni di turno.
I visitatori di questa Tokyo deserta sono presi in prestito dalle leggende metropolitane, dalle superstizioni e dal folklore. Grazie ad un misterioso alleato del protagonista – lo spirito di un detective di nome KK – possiamo fronteggiare questi sinistri turisti con armi ed equipaggiamenti non convenzionali, che è possibile potenziare attraverso diversi portali torii sparsi per i quartieri della capitale.
I torii simboleggiano l’ingresso in un luogo sacro e solitamente sono posti davanti ai santuari shintoisti; l’aria che si respira in Ghostwire Tokyo è un mix perfetto di tempi moderni e antichi fusi in uno scenario che sembra fuori dalla realtà.
Il fascino metropolitano della città e il turismo virtuale che permette di fare al videogiocatore (ne parlammo qui proprio con Tango Gameworks) danno quel guizzo in più laddove il gameplay un po’ arranca; la mia esperienza nel mondo di gioco è stata spinta tantissimo dalla mia voglia di conoscenza nei confronti di alcune creature e leggende che per noi, così lontani dal Giappone, suonano strane e inedite.
Ad esempio, tra gli yokai più famosi in Ghostwire Tokyo c’è il kappa. Conosciuto anche all’estero per via della sua presenza anche in qualche anime e opera letteraria (famoso il romanzo di Ryunosuke Akutagawa che porta lo stesso nome), il kappa vive vicino a fiumi e stagni.
Spesso viene visto come un personaggio malevolo, capace di attirare gli umani vicino ai corsi d’acqua e succhiare la loro vitalità; tuttavia, spesso è descritto come una creatura benigna, amante del sumo e ghiotto di cetrioli. È per questo motivo, se mi concedete la curiosità, che i roll makizushi che troviamo nei ristoranti di sushi di tutto il mondo si chiamano “kappa maki”.
I nekomata popolano i konbini e gli stand di cibo nei santuari al posto degli abitanti di Tokyo. Nel folklore nipponico sono dei gatti che acquisiscono poteri speciali (da “neko”: gatto). A differenza dei normali felini, i nekomata sono raffigurati con due code e anche loro sono descritti come creature che possono essere sia buone che cattive – tanto che una leggenda narra che un nekomata ha divorato in una notte una decina di anime.
All’interno del titolo di Tango Gameworks, questi gatti speciali sono padroni del commercio dai quali possiamo comprare oggetti utili o con i quali scambiare collezionabili e monete.
Tra i nemici che affollano le strade di Tokyo c’è la Kuchisake-onna, uno spirito cattivo dalle sembianze di una donna con il viso coperto da una mascherina chirurgica, che spesso nasconde un oggetto appuntito (come delle forbici). Le leggende narrano che questi yokai seguano le persone che vagano da sole e iniziano il loro attacco chiedendo alle vittime «sono una bella ragazza?».
Se il povero malcapitato dice di sì, la creatura scoprirà il suo macabro sorriso; in base alle azioni della vittima, la kuchisake potrà ucciderla o sfigurarla. E per difendersi – stando alla leggenda – è necessario lanciare contro lo spirito delle caramelle dure, dei soldi oppure rifugiarsi in un negozio di cosmetici; qui, va detto, sfiderei chiunque a trovarlo aperto di notte!
Tra i collezionabili non potevano mancare i simpatici Tanuki: procioni amichevoli e amanti del saké, famosi per essere stati il soggetto in un lungometraggio dello Studio Ghibli, Pom-Poko. L’abilità di questi bellissimi personaggi è quella di trasformarsi in qualsiasi cosa: non a caso spesso li troveremo sotto forma di cartello stradale o macchinetta automatica (a tradirli sarà la loro stessa coda, che rivela la loro vera natura).
Non sempre i nemici che ci daranno la caccia sono notoriamente degli esseri malvagi; gli sviluppatori che hanno dato alla luce anche The Evil Within hanno scelto tra il roster dei nemici anche i teru teru bozu. Si tratta di bambole tradizionali che solitamente vengono appese alle finestre nei giorni di pioggia, per favorire il bel tempo.
L’obiettivo della software house era proprio quello di inserire elementi ordinari e innocui – come le bamboline, ad esempio – in uno scenario straordinario e inquietante. E l’effetto scenico dei teru teru bozu (che assomigliano a tanti piccoli fantasmini) si sposa benissimo con la spettrale Tokyo in cui – ovviamente – non c’è neanche un raggio di sole.
Nella fase embrionale di sviluppo, la direttrice creativa Ikumi Nakamura ha sfruttato la consulenza di un’esperta del genere, Hiroko Yoda, presidente della società di traduzione e localizzazione AltJapan e autrice di Yokai Attack! The Japanese Monster Survival Guide e Japandemonium Illustrated.
In una dichiarazione a Wired, l’autrice parla della distinzione tra yokai e yurei. Mentre i due termini spesso si confondono nella cultura popolare sotto il termine generico di "yokai", lei descrive questi fenomeni come distinti: solitamente, gli yokai si riferiscono a "qualcosa", mentre gli yurei si riferiscono a "qualcuno".
Gli yurei «sono intimamente legati all'aldilà» e «in genere si manifestano quando qualcuno viene orribilmente maltrattato e muore ingiustamente», per cercare vendetta «o semplicemente per far conoscere a tutti il proprio tormento». D’altro canto, gli yokai sono rappresentanti di tutti i tipi di «fenomeni che vanno dai disastri ai suoni strani, fino a cose semplici come sentire una carezza sulle gambe quando non c'è nulla», e di solito non sono «presenze pericolose, ma cose che ti spaventano o ti sorprendono».
I cozy game e la catartica campagna giapponese in Boku no Natsuyasumi
Se c’è un genere videoludico che ad oggi, alla soglia dei trentadue anni, stuzzica la mia curiosità è indubbiamente quello dei cozy game, termine traducibile in italiano come “gioco rilassante”.
Facendo una breve incursione nella psicologia dei videogiochi, c’è una teoria molto conosciuta tra gli esperti che è la teoria del flow – studiata da uno psicologo ungherese Mihalyi Csikszentmihalyi (si pronuncia più o meno come “me high, chick sent me high”, ringraziatemi dopo per questa dritta, ndr).
Secondo lo studioso, il flow – in italiano flusso ottimale – è uno stato di totale rilassamento che proviamo durante lo svolgimento di un’attività più o meno complessa. Possiamo sperimentare il flow quando suoniamo uno strumento oppure nel momento in siamo presi completamente dal nostro hobby. Il flow è insomma la capacità di abbandonarci completamente in qualcosa, e nei videogiochi questo riesce benissimo, perché sono terreno fertile per il coinvolgimento e la motivazione.
Per gli sviluppatori creare un videogioco che appaga questa sensazione di flusso è molto difficile: bisogna creare un’attività che non deve essere troppo difficile – il fallimento reiterato e casuale porta all’abbandono del titolo – oppure abbastanza semplice e quindi noioso.
Anche i videogiochi troppo semplici, come quelli che negli anni ho provato su mobile, mi hanno spesso annoiato. Ma nell’ultimo periodo, specialmente quando torno dal lavoro e vorrei usare al minimo le mie facoltà mentali, mi vengono incontro cosiddetti cozy game.
Alcuni legano la rinnovata fama dei videogiochi “rilassanti” ad Animal Crossing: New Horizon, che nel giro di poche settimane divenne un vero e proprio cult tra i possessori di Nintendo Switch, grazie anche all’isolamento forzato in tutto il mondo per via della pandemia da COVID-19.
In Animal Crossing si ritrova un senso di tranquillità apparentemente perduta, nel quale si potevano instaurare legami virtuali per sopperire al vuoto lasciato nella nostra quotidianità dal lockdown. Tuttavia, l’indubbio fascino dei videogiochi “cozy” viene dal lontano passato: pensiamo ad esempio alla fortunata serie di Harvest Moon, che ha avuto i natali su Super Famicom nel 1996 e in cui al videogiocatore non veniva richiesto chissà cosa: semplicemente – vestendo i panni di un giovane contadino – ci si poteva dedicare all’agricoltura e alla pacata vita di campagna.
Nonostante le aspettative, Harvest Moon divenne così famoso in Giappone e in tutto il mondo che ha macinato sequel su sequel e ha ispirato altri titoli più recenti e di successo, come Stardew Valley.
Tuttavia, esiste nel sottobosco di videogiochi particolari e soprattutto nei meandri dei cozy game un titolo che per noi potrebbe risultare a dir poco sconosciuto, in cui viene richiesto al videogiocatore di fare ancora meno rispetto a quanto presentato in Harvest Moon.
Il gioco in questione ci catapulta direttamente nella torrida estate giapponese che tutti quanti ormai conosciamo indirettamente grazie agli anime e ai film: Boku no Natsuyasumi (Le mie vacanze estive), il cozy game per eccellenza.
Inedito in Occidente, in “Bokunatsu” vestiremo i panni di un ragazzino di soli nove anni che si trasferisce nella casa di campagna degli zii per tutto il mese di agosto, in quanto i suoi genitori saranno rimasti in città per l’arrivo di un nuovo nascituro – fratellino o sorellina – del protagonista.
Non esistono, stavolta, demoni metropolitani o sparatorie tra famiglie yakuza e yen svolazzanti: Boku no Natsuyasumi presenta il Giappone che molti considerano più autentico, ovvero quello contadino e rurale attraverso bellissimi sfondi pre-rendizzati e personaggi che sembrano usciti da un set Playmobil.
La campagna giapponese è senza dubbio un ambiente affascinante non solo per gli abitanti del luogo ma soprattutto per gli occidentali che sono spesso abituati a guardare al Giappone come un teatro cyberpunk e decadente; la campagna giapponese può essere un luogo di catarsi oppure uno spazio angusto e soffocante (come non dimenticare il paese di Inaba in Persona 4).
Il primo capitolo – che fece il suo debutto su PlayStation nel 2000 – è ambientato nel 1975 e le attività che possiamo intraprendere all’interno della vita del nostro ragazzino assomigliano a quelle fatte dalla maggior parte dei coetanei giapponesi che vivono in contesti rurali: catturare insetti, pescare, gironzolare in bici, fare amicizia con i coetanei del posto e – immancabili nei tropi narrativi di questo tipo – partecipare agli incantevoli matsuri, ovvero le feste estive che hanno luogo in giornate specifiche e sono dedicate alla tradizione religiosa.
A noi italiani, ad esempio, non verrebbe mai l’idea di concepire un cozy game nella torrida campagna pugliese, partecipare a sagre culinarie e feste patronali, eppure i giapponesi – nel loro ricco catalogo di giochi “fuori dal comune” – hanno concepito anche questo.
Non esistono fallimenti, compiti difficili e game over. Tutto è circoscritto ad attività semplici e a un periodo di tempo definito (un mese in-game), tutti elementi estremamente cari ai giochi rilassanti odierni.
Che senso ha creare un gioco simile? Innanzitutto, quello che ha spinto gli sviluppatori è una vera e propria “operazione nostalgia” in cui hanno potuto dare l’opportunità, a chi lo volesse, di rivivere la propria infanzia perduta: non a caso, il target di questo tipo di gioco sono solitamente persone adulte che, per scappare dalla monotonia della vita e del lavoro d’ufficio, si dedicano nuovamente a coltivare le proprie vacanze.
L’innovazione del gioco risiedeva nella libertà di azione per la maggior parte della giornata, che terminava solitamente verso l’ora di cena.
Il suono delle cicale, l’imbandita tavola giapponese e la veranda tradizionale che si affaccia sul piccolo giardino catapultano noi occidentali in un mondo diverso e trasognante. Anche in questo caso, un videogioco del genere permette di essere una virtuale via di fuga verso posti geograficamente e culturalmente lontani da noi, attraverso i quali possiamo conoscere nuovi aspetti e sfaccettature dell’affascinante cultura nipponica.
Dopo il primo capitolo, se ne sono susseguiti altri su PS2, PS3 e PSP in cui sono state aggiunte nuove attività da fare, una grafica migliorata e soprattutto nuovi scenari e decenni.
Ognuno dei titoli è ambientato in diverse zone rurali giapponesi, come la regione settentrionale del Hokkaido, la penisola di Izu (celebre posto vacanziero vicino Tokyo) e le isole Seto, a pochi chilometri da Kobe, con ogni zona diversa per tradizioni e dialetti. Inoltre, il capitolo per PSP è ambientato negli anni ’80... cabinati compresi.
Spaccati virtuali di Giappone
Sono insomma tante le proposte a cui sarebbe possibile dedicarsi, per scoprire di più sull'affascinante contesto giapponese – tanto quello moderno, quanto quello storico o folkloristico.
Gli sviluppatori giapponesi non disdegnano l'inclusione di questi elementi all'interno degli immaginari dei loro titoli, investendo ulteriormente il videogioco di un ruolo di oggetto culturale che passa spesso in sordina.
In attesa del vostro prossimo (o primo) viaggio verso il Giappone, ora sapete quanto da scoprire ci sia già da quello virtuale.