Sono passati solo pochi giorni dal debutto sul mercato di Prince of Persia The Lost Crown e dalla nostra, immancabile, recensione, curata per l'occasione dall'ottimo Francesco Corica.
Chi si è preso la briga di leggerla saprà che il gioco è piaciuto a noi come a gran parte della stampa specializzata nazionale ed internazionale, ma oggi non è (solo) di questo che parleremo.
Piuttosto, faremo il punto su quello che Prince of Persia ha insegnato – e che magari continuerà ad insegnare nei prossimi mesi, a tutti e tre gli attori principali del mercato: il suo publisher (Ubisoft), gli sviluppatori (non il team di Ubisoft Montpellier, in generale a tutti gli altri) e i giocatori stessi.
Un monito per Ubisoft
Il gigante francese è innegabilmente uno degli attori principali del mercato che più amiamo da almeno trentacinque anni, capace di pubblicare saghe che hanno fatto la storia del medium, da Assassin's Creed a Far Cry, passando per Just Dance e Mario + Rabbids; eppure negli ultimi anni è oggetto di critiche, perlopiù fondate, sulla gestione di alcuni dei suoi franchise e sulla riproposizione a cadenza ciclica (quando non annuale) di molti dei suoi marchi.
Non entreremo nel merito di queste accuse in questa sede, non solo perché non è lo scopo che ci eravamo prefissati, ma anche perché, se adeguatamente argomentato, questo discorso allungherebbe a dismisura questo approfondimento.
Quello che è però sotto gli occhi di tutti è che ci sia stato un generale appiattimento di certi franchise, con un riciclo di contenuti piuttosto pronunciato che ha portato il publisher transalpino a partorire prodotti affetti da evidente elefantiasi, con una mole spropositata di contenuti che ha però influito negativamente sull'esperienza di gioco, che sapeva di già visto già dopo qualche ora.
Per quanto mi riguarda questo è sicuramente il caso di Assassin's Creed Valhalla, che sarebbe potuto durare tranquillamente trenta ore in meno senza che ne fossero compromesse le qualità migliori, o Far Cry 6, le cui secondarie tendono a ripetersi già all'alba delle dieci ore di gioco.
Guarda caso, quando lascia libertà creativa ai suoi team (e ne ha di talentuosi nella sua scuderia, come gli autori di Prince of Persia e i membri di Ubisoft Milan, giusto per citarne un paio) e autorizza progetti focalizzati e non affetti da manie di grandezza, Ubisoft fa centro, in maniera quasi universale: pur non conoscendo ancora i dati di vendita, visto che il gioco è sugli scaffali da pochissimo tempo, l'accoglienza della critica e della Rete lascia ben sparare.
Complici i costi di sviluppo più contenuti, sono pronto a scommettere che The Lost Crown sarà uno dei titoli più redditizi per il publisher francese da parecchio tempo a questa parte.
Il messaggio è chiaro: invece di fare "pesca a strascico" (grazie Stefania, ndr) con titoli open world troppo simili a loro stessi, Ubisoft dovrebbe dare maggiore spazio a produzioni che oseremmo definire doppia A come questa, con costi umani, una visione unitaria chiara ed uno sviluppo circoscritto e concentrato.
Un esempio da seguire
Al netto dei gusti personali, poi, Prince of Persia The Lost Crown credo possa fare in un certo senso giurisprudenza, più di tantissimi altri titoli indipendenti che possedevano le medesime qualità ma che non venivano presi ad esempio dai grandi publisher, probabilmente a causa delle differenze percepite nei budget, nelle dimensioni dei progetti e del numero di sviluppatori coinvolti.
Qui, invece, si parla sì di uno dei publisher più grossi e danarosi del mercato, ma anche di un team, quello di Ubisoft Montpellier, che ha sempre lavorato in maniera "artigianale", alla vecchia maniera, interfacciandosi il meno possibile con gli altri studi sotto il grande ombrello di Ubisoft e contando su risorse locali e perlopiù interne per risolvere eventuali problemi sorti durante la programmazione.
I titoli di coda di The Lost Crown, non a caso, sono consistentemente più brevi della media dei titoli Ubisoft, perché la forza lavoro effettiva di Ubisoft Montpellier non arriva alle trecento unità complessive: se a questa capacità di ottimizzare le risorse si aggiunge il talento, in questo caso cristallino, ecco che i bei giochi fioccano.
Dopo la trilogia originale di Rayman, lo studio ha sfornato Rayman Origins prima e Rayman Legends poi, due dei migliori platform bidimensionali degli ultimi quindici anni, l'incompreso ma coraggioso ZombiU, uno dei titoli che ha sfruttato meglio le caratteristiche hardware di WiiU, e quel piccolo e commovente concentrato di emozioni che rispondeva al nome di Valiant Hearts.
L'unico tra tutti questi titoli a presentare una mappa ad esplorazione libera era ZombiU, comunque lontano dalle dimensioni gargantuesche degli open world odierni (non solo targati Ubisoft, sia chiaro): un caso?
Adesso, lungi da noi lanciare strali contro i giochi a mondo aperto: a tutti piace immergersi in un universo ben ricreato che si apre dinanzi al giocatore, ma come ben sappiamo e i publisher faticano a comprendere, non è che tutti i giochi debbano per forza adottare quell'approccio. Le recenti avventure di Sargon ne sono ulteriore dimostrazione.
Ecco che, allora, appare evidente come la genesi e lo sviluppo del titolo, comunque pieno di buone idee (alcune originali, altre prese di peso da titoli similari), possano ispirare team interni in seno a grossi pubisher a dedicarsi a progetti solo apparentemente "minori", che non necessitino di budget faraonici, che non implementino forzatamente feature oggi considerate imprescindibili e che, soprattutto, abbiano il coraggio di discostarsi dalla sacra regola non scritta del "più grande, più grosso e con la mappa più vasta possibile".
Si possono confezionare giochi appassionanti anche se la mappa non è sconfinata, belli da vedere anche se non sono costati milioni di dollari e soddisfacenti anche se non gonfiati da decine di missioni opzionali tutte uguali che ne triplicano la durata, diluendone le qualità. E nessuno lo ha sottolineato meglio di Larian (autori del premiatissimo Baldur's Gate III), che ha fatto proprio notare il rapporto tra qualità e costi messo in campo dal titolo Ubisoft.
Un reminder per noi giocatori
E veniamo a noi giocatori.
Non mi sento di fare parte di questo "noi" specifico, visto che sono da sempre abbastanza immune alle mode videoludiche del momento e non amo le mappe di gioco troppo grandi, ma confesso di essere stato colpevole di hype tanto quanto qualsiasi altro videogiocatore in talune circostanze, e quindi non posso non rientrare nel calderone.
Cosa potrebbe (il condizionale è d'obbligo) averci insegnato Prince of Persia The Lost Crown?
Potenzialmente, tantissime cose: che i metroidvania non sono buoni solo per gli sviluppatori indipendenti, che scelgono questo genere per mancanza di fondi in taluni casi più che per reale convinzione; che i giochi in due dimensioni non hanno nulla da invidiare, in quanto a presentazione, a quelli in tre – e soprattutto, a mio parere, che le infinite dispute sulla difficoltà nei videogiochi, su Hidetaka Miyazaki e sulle patch correttive di Lies of P non hanno più senso di esistere.
Uno dei pregi migliori di Prince of Persia è insito infatti proprio nella gestione della difficoltà, non solo per i quattro livelli pre-impostati che basterebbero a coprire una vasta gamma di giocatori, quanto piuttosto per la possibilità di personalizzare in ogni suo aspetto il livello di sfida dell'avventura.
Parto proprio dalla mia esperienza personale: videogiocatori da trentacinque anni, apprezzo sempre molto un videogioco che sappia impegnarmi – quando non proprio prendermi a calci nelle gengive – se non dedico ad esso la giusta attenzione.
Mi piace confrontarmi con nemici capaci di punire ogni mia disattenzione e vivere ogni scontro, anche quelli di routine, con un pizzico di ansia e senso di incertezza: quindi ho apprezzato tantissimo la possibilità di dosare il danno inflitto e subito e la resistenza dei nemici, che in The Lost Crown possono essere comodamente gestiti spostando uno slider.
Per rendere l'idea, pur perseverando per le immense altre qualità del gioco, mi sono trovate a maledire Team Cherry innumerevoli volte durante le mie due run a Hollow Knight proprio per questo motivo.
L'approccio di Ubisoft Montpellier all'accessibilità ed alla personalizzazione dell'esperienza di gioco dovrebbe a mio avviso essere preso da esempio per tutte le prossime produzioni similari, ovvero tutte quelle appartenenti alla larghissima fascia compresa tra la difficoltà "autoriale" dei soulslike e la comprensibile facilità dei giochi Pokémon-like.
Con i nostri soldi, noi videogiocatori possiamo dare forma al mercato futuro entro un certo limite – e quindi, qualora la recensione di Francesco o il presente articolo vi avessero incuriosito, il consiglio è di dare fiducia a Prince of Persia The Lost Crown adesso, invece di aspettare i consueti saldi tra qualche mese, perché tutti i messaggi fin qui elencati arriveranno ai destinatari solamente qualora i dati di vendita siano all'altezza.
E, se volete farvi un'idea più concreta che mai, c'è comunque anche una demo gratuita lì pronta ad aspettarvi.
In conclusione
Al netto delle sue innegabili qualità ludiche, Prince of Persia The Lost Crown può rappresentare una svolta per Ubisoft – e, a cascata, per tutto il mercato videoludico: un team non troppo numeroso, un gioco concentrato e non vasto per il gusto di esserlo e un prezzo di lancio abbordabile potrebbero essere gli ingredienti giusti per un successo di pubblico a costi sostenibili, che farebbe seguito a quello di critica.
A noi, e pensiamo di dar voce a moltissimi appassionati, non dispiacerebbe un mercato che alterni agilmente le mega-produzioni da milioni di dollari a progetti più asciutti come questo, in cui i team di sviluppo possano prendersi qualche rischio in più senza per questo compromettere la salute delle casse del loro publisher e il loro futuro lavorativo, come abbiamo tristemente visto in un 2023 pieno di licenziamenti.
Speriamo che la strada sia tracciata e che altri dopo Ubisoft (ma viene in mente anche Obisidan con Pentiment, sebbene lì ci si poggiasse al paracadute della distribuzione in abbonamento) la seguano con convinzione: ne guadagnerebbe la varietà dell'offerta ludica per noi giocatori e, probabilmente, la salute del mercato più in generale.