I videogiochi hanno un serio problema con la gestione della difficoltà e dei suoi diversi livelli. Certe cose succedono da sempre e difficilmente cambieranno, direte voi; e io potrei rispondervi che oggi, in realtà, non è più esattamente così. Non ci sono molti esempi virtuosi per dimostrare quanto detto, ma esiste certamente un modo molto più credibile per cambiare questa cattiva tendenza a cui siamo stati abituati.
La gestione della difficoltà a cui si fa riferimento non è quella di Final Fantasy XVI, di cui abbiamo già parlato abbondantemente nella nostra recensione e nel nostro speciale di approfondimento dedicato agli errori di gestione che prevedevano un complesso di aspetti per nulla trascurabili, che vanno ben oltre il concetto di sfida al giocatore.
In sostanza, oggi non ci interessa parlare di quelle decisioni a monte che tendono a trattare gli utenti da perfetti impediti (cosa che non sono affatto), e nemmeno di come certe costrizioni finiscano per disinnescare il potenziale esplosivo che sulla carta hanno alcune grandi produzioni.
Loro ti fanno più male, tu ne fai di meno
Come lasciato intendere dal sottotitolo di questo capitoletto dell'odierno SpazioGames Originals, c'è questa brutta tendenza ancorata al passato che non è mai stata davvero invertita.
Si tratta di una di quelle regole che avrebbe già concrete possibilità di essere cancellata e resa più sensata, ma rappresenterebbe un lavoro supplementare per gli sviluppatori davvero enorme, senza contare l'extra budget da mettere a disposizione per la produzione.
Lo sarebbe perché quando si toccano elementi come il bilanciamento globale si rischia davvero grosso, soprattutto se si pensa a tutto ciò che questo comporta in termini di attenzioni, falle che non devono essere scoperte e usate a proprio vantaggio, e tutta una serie di dettagli non da poco che determinano gli equilibri finali di gioco.
Il motivo dipende generalmente da un numero maggiore di variabili che devono essere controllate, testate e tenute sempre in considerazione, ma oggi esistono metodi piuttosto efficaci per costruire compartimenti stagni anche in titoli dalla grandezza ragguardevole, che offrono aperture dinamiche ed effettive solamente al passaggio del giocatore.
Ciò che è rimasto pressoché uguale è il modo in cui gli sviluppatori impostano i parametri dei diversi livelli di difficoltà, talvolta lasciandoli anche in bella vista per mostrare al giocatore cosa esattamente cambierà se sceglierà di adottare una determinata opzione per la propria partita.
Ecco, ciò che davvero non va, e che va considerato in modo critico come un'alterazione forzata che è frutto di enorme pigrizia (e di altre dinamiche che è giusto mettere in luce) è proprio il modo in cui all'aumentare della difficoltà si toccano parametri come la salute che cala più velocemente e i danni inferti che diminuiscono in maniera drastica.
Rendersi conto che basta subire un paio di colpi per morire, o che ci vuole molto più tempo per buttare giù un nemico che si comporta come una spugna, non è esattamente ciò che immaginavamo per l'evoluzione del videogioco, che bada più agli ultimi ritrovati in ambito tecnologico legati alla cosmesi ed è rimasto all'età della pietra su non pochi elementi legati alla gestione dell'IA.
Arretratezza reale o scelte di necessità?
Se un gioco come The Last of Us – Part 2 (eccolo su Amazon) rappresenta un punto di rottura, un tangibile segno di demarcazione tra il prima e il dopo, di certo qualche motivo ci sarà (qui la nostra recensione). Tra questi, c'è anche un modo sopraffino di gestire i diversi livelli di difficoltà, che perdono le classiche scanalature in favore di una maggiore fluidità e capacità di adattamento alle esigenze del giocatore.
Il budget per la produzione è stato faraonico, su questo non ci sono dubbi, e mantenersi su qualità considerate nella norma sarebbe risultato un mezzo fallimento.
Tra manovre a tenaglia asincrone, routine comportamentali meno leggibili del solito, reazioni diversificate a seconda di circostanze e inclinazioni dei gruppi dei nemici, percorsi che non seguono binari, livelli di allerta in cui si rimescolano le carte facendo perdere ogni riferimento e tutta una serie di variabili che gettano nello smarrimento il giocatore, il lavoro di The Last of Us – Part 2 è stato finora un nuovo punto di riferimento a cui gli altri non sono stati in grado di appaiarsi.
E, pensate un po', non era affatto un gioco si vantava di avere grossomodo la stessa longevità di una camminata a piedi da Varsavia a Madrid, di offrirvi mille pianeti da esplorare, di avere una mappa in cui perdersi a lungo mentre ripetete allo sfinimento le stesse fetch quest di riempimento. Se la quantità a tutti i costi deve essere un modo per giustificare ottanta euro da spendere, ma anche la conferma che dopo una manciata di ore si è in realtà già visto tutto, siamo letteralmente rovinati.
Diventa quasi ironico pensare che le controverse IA e gli algoritmi vengano utilizzate per creare più contenuti che gli autori possono poi rimaneggiare a piacimento, operando al fine di arginare nefandezze e creazioni grezze. Quelle stesse IA che dovrebbero essere usate per cambiare paradigmi, interi termini di paragone e in definitiva anche le esperienze di gioco.
In definitiva
Oggi fa molta più presa sul pubblico dire che il prossimo gioco è più grande del precedente, che dura di più, che ha una marea di missioni da portare a termine, tantissimo da esplorare. E siccome queste manie di grandezza fini a se stesse sembrano quasi voler rappresentare un passo in avanti per l'intera industria, che prima aveva dei limiti e doveva arrangiarsi col poco che aveva a disposizione, prevediamo una prosecuzione di questa tendenza ancora a lungo. Almeno fin quando quel treno sempre lanciato a folle velocità non avrà una decisa battuta d'arresto.
Quando assistiamo ancora, nel 2023, a giochi come A Plague Tale: Requiem, è del tutto normale mettersi le mani ai capelli quando si ha a che fare con l'IA nemica rimasta all'era PSOne. Con questo non si deve però fare confusione con casi come quello di Sifu, che ha dovuto abbassare la difficoltà media per le lamentele dei giocatori che non riuscivano ad andare avanti per vie delle morti continue.
Attenzione: non si sta facendo e non si vuole per nulla un discorso senza grigi dove "è troppo facile" o "è troppo difficile", né su quanto qualcuno possa essere più bravo di qualcun altro. Non ce ne importa nulla.
Il discorso è basato sulla necessità di guardare a nuovi modelli, all'implementazione dell'IA che possa migliorare la credibilità di gioco, e in ultima battuta all'evoluzione che questa reca con sé. I giochi di guida ci stanno provando con discreto successo e si iniziano a intravedere comportamenti affini ai giocatori umani. Per ogni trenino dell'indifferenza che parte durante le gare di Gran Turismo, ci sono altri titoli che hanno abbandonato da un bel pezzo le brutte consuetudini del passato.
Quando accadrà lo stesso con tutti gli altri giochi?