The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom uscirà il 12 maggio 2023 eppure, a differenza del suo predecessore, fino a pochi giorni fa non sapevamo granché del gioco.
Nella stessa situazione, a pochi mesi di distanza dall’uscita, Breath of the Wild era un gioco molto più chiaro nelle sue intenzioni. Sarà perché doveva spingere anche le vendite di Nintendo Switch (e l’ha fatto egregiamente nel tempo) ma c’era stata molta più chiarezza nell’esprimere le intenzioni di quello che poi si è rivelato il capolavoro istantaneo che tutti conosciamo.
A sei anni di distanza lo scenario è ovviamente molto diverso, va detto. Nintendo Switch è ormai una console di successo e, allo stesso modo, il franchise di Zelda è diventato clamorosamente pop. Ovviamente, lo ha fatto proprio con quel Breath of the Wild che ha riscosso un successo di critica e pubblico tale da non impensierire Nintendo, forse, nel dover compiere sforzi eccessivi di comunicazione per il sequel. Tradotto: non serve fare una promozione imponente perché Tears of the Kingdom è già venduto.
Perché il silenzio adoperato fino ad ora è stato assordante, inusuale per quelle che sono state da sempre le best practice del marketing della Grande N. C’è infatti una domanda che tutti ci stiamo un po’ facendo, o almeno pensando: come si fa ad uscire con il sequel di un capolavoro?
Nintendo ha risposto con dieci minuti di gameplay che hanno distrutto completamente l’hype per The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom – se ci ricordiamo che cosa comporta e cosa lascia in sospeso, il modo in cui l'hype viene vissuto intorno ai videogiochi.
Il peso dell'eredità di Breath of the Wild
Con buona pace di chi, dopo sei anni, diversamente dal titolo per Switch ancora non si rassegna al fatto che l’ennesimo blockbuster dalle promesse fantasmagoriche in cui ha creduto non abbia poi dato un senso reale agli 80 euro investiti, e soprattutto per ridare luce al contesto di disinformazione e bestialità storiche che aleggiano ad ogni occasione in cui il franchise si è mostrato, è bene riprendere i nostri appunti per costringerci a rimarcare l’ovvio: Breath of the Wild ha rappresentato l’Ocarina of Time dell’epoca moderna, una lezione di videogiochi che ha cambiato per sempre il settore.
Il titolo per Nintendo 64 fu così imponente da impostare uno standard dal quale la stessa Nintendo non è mai riuscita ad allontanarsi pienamente. Tutti i videogiochi che sono seguiti alla prima avventura 3D di Link hanno ricalcato sempre la stessa struttura, pur elaborando immaginari sempre differenti. Tanto da costringere alla rottura proprio con Breath of the Wild.
Un titolo che, dal 2017, ha riallineato nuovamente gli standard di quello che è il game design relativo ai giochi d’avventura in 3D. Succede ogni volta che una creazione seminale arriva in un contesto creativo, e l’ultimo caso lo abbiamo visto anche con Elden Ring che ha fatto suo l’approccio di Breath of the Wild per rinfrescare la consolidata formula dei soulslike.
In questo contesto, dal secondo trailer di Tears of the Kingdom in poi (peraltro se vi interessa potete prenotarlo su Amazon), sembrava che la storia del franchise potesse ritornare su quella stessa iterazione, ovvero ripetere la formula che funziona all’infinito.
Devo essere del tutto sincero con voi: l’ho pensato anche io per un attimo.
D’altronde, Nintendo si ritrova dichiaratamente in territori inesplorati per quanto riguarda Nintendo Switch. Non c’era mai stata una console così di successo per un periodo così lungo – e, come detto, The Legend of Zelda non è mai stato più popolare di così. Quella stessa tentazione di adagiarsi sugli allori che la Grande N ha colto dopo la strabordante generazione Wii con la pigrissima Wii U poteva ripetersi.
In questo contesto, la community dei videogiocatori è arrivata all’ultima presentazione di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom con una sola domanda: ma non è che sarà un “more of the same”?
Sì, questa bella definizione che – come tante degli ultimi periodi – i giocatori hanno imparato ad usare spesso a proposito dopo averla appresa dai feed del loro content creator preferito, ripetendola come un pigrissimo mantra per non impelagarsi in spaventosi momenti di riflessione.
L’ultima presentazione di Tears of the Kingdom aveva il compito di rispondere anche a questa domanda e, come accade spesso da chi vive il proprio lavoro partendo da un approccio creativo, l’ha fatto con una semplicità disarmante.
Più un'idea è forte, meno parole servono per descriverla
Sono serviti dieci minuti per mostrare quattro nuove funzionalità di gameplay inedite, mostrate al minimo delle loro possibilità e con la promessa di un’evoluzione esponenziale. Perché non è nel crafting che Tears of the Kingdom vuole innovare, visto che il crafting è tutto meno che innovativo, ma è nei modi.
Guardate di nuovo la presentazione:
Ora pensate al modo in cui i videogiochi, oggi, propongono la meccanica del crafting. C’è sempre un tavolo di lavoro, un checkpoint, una struttura adatta e, quando va bene, non meno di 2-3 menù da aprire nell’HUD e altrettanti input da inserire.
The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom lo fa con una mossa.
Se non avete riflettuto su questo aspetto è normale, perché non siamo più abituati a pensare semplicemente.
Mentre la comunicazione vive oggi di messaggi diretti e asciutti, i videogiochi sono ancorati all’idea che debbano essere obbligatoriamente prodotti macchinosi, oggetti narrativi complessi, strutture che ingannano l’intelligenza del giocatore attraverso operazioni ed input all’apparenza complessi ma in realtà solo complicati. Ci siamo abituati ad essere coinvolti in questo costrutto mentale ed è difficile accorgersene.
Per questo dieci minuti di gameplay presentati in questo modo hanno generato la solita isteria di massa che, oggi, etichetta The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom non solo come un more of the same, ma addirittura come un DLC. Un’isteria che, sfortunatamente, coinvolge anche chi dovrebbe rappresentare il polo critico (fatevi una scorrazzata sull'hashtag del gioco su Twitter, per farvi un'idea, ndr).
Presentare in questo modo le meccaniche di gioco di un sequel, ribaltando le due critiche più diffuse dell’originale (la durabilità delle armi e la stamina di Link) per creare del gameplay inedito è rinfrescante e, per questo, spiazzante.
Per questo risulta difficile immaginare che siano bastati pochi minuti per spiegare perché questo è un sequel e non un contenuto fine a sé stesso. È un gioco che nasce dal pensiero di voler fare un sequel perché c’è un’idea, e non trovare un’idea per fare un sequel.
Aspetteremo Tears of the Kingdom, lo giocheremo e lo valuteremo. Gli daremo, purtroppo, il rituale voto facendoci travolgere dalla tossicità tipica del post-recensione, e continueremo a parlarne negli anni come è stato per il suo predecessore. Fino ad allora, però, non ci sarà nessun tipo di hype perché Nintendo è riuscita a distruggerlo completamente.
Vi eravate preoccupati della stamina di Link? Ora possiamo passare attraverso i muri. Le armi che si distruggono vi infastidiscono? Adesso ogni arma può diventare devastante con il giusto oggetto. Avevate paura che ci fosse la stessa mappa di gioco? C’è un cielo fatto di isole da esplorare e, con tutta probabilità, anche un sottosuolo, stando al primissimo trailer.
L’hype nasce dal dubbio, dall’incertezza di ciò che ci aspetta e da come le nostre aspettative saranno più o meno ripagate. Più un’idea è forte, meno parole servono per descriverla, e in questo caso abbiamo avuto dieci minuti di chiarezza disarmante. Qua non c'è da stare a crogiolare l'hype: c'è solo da aspettare il 12 maggio.
Perché, a prescindere da come sarà effettivamente The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, abbiamo visto un creativo che, pad alla mano, racconta il suo nuovo lavoro senza nessuna sovrastruttura e chiacchiere fuorvianti.
L’hype non esiste quando chi fa videogiochi ti fa entrare nella sua visione creativa senza compromessi. Per chi ancora una visione creativa ce l’ha, almeno.