Videogiocatori che odiano i videogiochi

Come, spesso, gli appassionati o presunti tali influenzano il gaming in maniera negativa.

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a cura di Paolo Sirio

Il mondo dei videogiochi ha un grosso problema: i videogiocatori. Spesso e volentieri, gli appassionati o presunti tali influenzano in maniera negativa – con i loro comportamenti e orientamenti – l'hobby di cui si professano cultori, forti di convinzioni sbagliate e preconcetti nei confronti di tutto e tutti: dei giochi, in primis, ma anche della stampa chiamata a parlarne e ad informare.

Questo si ripercuote su tre aspetti fondamentali: la qualità e il genere di videogiochi che vengono proposti al grande pubblico, il tipo di giornalismo videoludico che si aspira ad avere come riferimento, e l'industria nel suo insieme che – rilevando e analizzando i trend da una prospettiva finanziaria – prende decisioni destinate a plasmare il futuro del medium.

Naturalmente, l'industria in sé non può ritenersi soltanto un portavoce del pensiero dei gamer: è ovvio che vada dove soffia il vento, e che quel soffio provenga dallo sventolio dei bigliettoni dei giocatori, ma è altrettanto chiaro che la ricerca del delicato equilibrio tra gli aspetti retorici e commerciali spesso non vada a buon fine, vanificando gli sforzi di chi vede in questo settore una potente capacità di espressione artistica.

C'è una parte dell'industria che odia i videogiochi ma, una volta tanto, prima ancora di puntare il dito sarebbe il caso di guardarci dentro e fare della sana autocritica; perché, nella maggior parte dei casi, ad affossare le velleità creative e l'analisi di qualità siamo proprio noi, siete proprio voi, con un'abilità innata nel non valorizzare e, quando possibile, persino screditare il lavoro altrui.

Sono tutti uguali, e poi non premiano l'unicità

Intendiamoci: Internet è una grossa bolla. I social sono una bolla nella bolla. I siti specializzati sono una bolla nella bolla nella bolla. Salvo rare eccezioni, il casino che scoppia è dovuto ad un manipolo di persone che spesso non ha idea o non ha la minima influenza su quello che succederà nel mondo reale: tra voi probabilmente non ci sarà nemmeno un giocatore di Fortnite, eppure fuori da queste quattro mura Fortnite è il nuovo sinonimo di videogioco.

Per cui, quando si parla di successo commerciale mancato da un gioco, è possibile che la colpa non sia di chi legge queste righe ma del mondo là fuori in cui un progetto semplicemente non ha sfondato. Ci sta, capita, ma brucia un sacco. Specialmente quando il “tradimento” non arriva dall'esterno – lì lo sai il titolo di nicchia non esploderà –, ma quando a voltare le spalle al videogioco è uno di quella minoranza rumorosa.

Una delle accuse più grandi che viene mossa al gaming moderno è che non è in grado di esprimere, cosa che invece avveniva una volta (classica frase da boomer di solito basata sulla nostalgia, basata a sua volta sul nulla), varietà. I videogiochi, in sintesi, sono tutti uguali tra loro: e che palle, un altro Assassin's Creed; che noia, un altro FIFA; che barba, un altro Call of Duty, e via discorrendo.

Il problema, lo vediamo con i nostri dati alla mano, è che questi sono ancora i giochi che vanno per la maggiore quando c'è da fornirvi un approfondimento o una notizia, e noi di SpazioGames non siamo di certo l'ultimo sito generalista che vuole saltare sul carro dei videogiochi post pandemia. Peggio ancora: non appena arriva qualcuno che prova qualcosa di diverso, viene ignorato o addirittura dileggiato.

Pensiamo a due casi di giochi recenti: Death Stranding rovescia il concetto di open world, agendo per sottrazione in un filone che aggiunge sino allo sfinimento, e viene bollato come simulatore di corriere; The Last of Us Part II ribalta i suoi personaggi, sfida le convenzioni e abbatte le aspettative, e magicamente la serie più amata della storia diventa la più odiata nel giro di poche settimane.

In entrambi i casi salta all'occhio una massiccia dose di immaturità: nel primo, di fronte ad un gioco che non va capito, non è il teorema di Pitagora e ancora non ho visto un titolo che richieda una comprensione per il solo godimento, ma offre qualcosa di sensibilmente diverso dalla massa di tripla-A che si susseguono a profusione e che sulla carta tanto odiate; già questo dovrebbe bastare a farvelo guardare con occhi differenti ma, a quanto pare, no.

Nel secondo, l'immaturità è di tipo tematico e scade in un cameratismo da Ventennio, nel quale i giocatori si sono scoperti reazionari e hanno accampato qualunque scusa pur di non ammetterlo – volevo giocare come Tizio, non volevo essere Caio, negando talvolta persino gli enormi passi in avanti fatti sotto il profilo del gameplay a confronto con un primo capitolo che non brillava da quel punto di vista.

Potremmo discutere per ore di quello che non è andato nell'accoglienza di questi titoli ma il sottile filo rosso che li lega è una grande ipocrisia: la verità che avreste voluto Joel protagonista e un lieto fine, e che Kojima realizzasse un mondo aperto pieno fino ad esplodere, uno Spider-Man 2, perché soltanto questo vi piace – che vi si dica e vi si mostri quello che fa già parte della vostra comfort zone. Che ci sta: ma non venite a lamentarvi che tutti i giochi siano uguali tra di loro, che regnino i remake, i remaster e le serie storiche, perché sono questi comportamenti a determinarne la proliferazione.

Lo stesso, identico processo – che è poi quello che ha innescato la nostra riflessione di oggi – si mette in moto in quei rari casi in cui qualche publisher o sviluppatore compie l'atto di coraggio di assumersi dei rischi. Nuova IP, magari un genere poco esplorato o una contaminazione, e subito sparite: non cliccate, non acquistate, e condannate quel gioco a non dare il là ad altri esperimenti simili e quella software house ad occuparsi dell'ennesimo capitolo dell'ennesimo franchise.

Ne è pieno il gaming di situazioni così, ma oggi più che mai due casi spiccano su tutti: Returnal di Housemarque e Deathloop di Arkane Studios. Li ho inseriti nella top 10 dei giochi che aspetto di più nel 2021 ma, guarda caso, non ve li filate di striscio. I contenuti che abbiamo realizzato al riguardo, che siano news o anteprime e approfondimenti? Spariti, sepolti sotto una montagna di sconti e giochi gratis, nuclearizzati come una mappa di Warzone.

Se fossi un dirigente di Sony o Bethesda sarei incazzato e pure parecchio: questi ci chiedono nuove proprietà intellettuali, generi diversi, poi gli portiamo i primi big roguelike, gli portiamo il bullet hell negli story-driven, gli portiamo una immersive sim multiplayer, e loro ci ignorano? Sono abbastanza sicuro che la prenderei malissimo, come la prendo malissimo quando vedo le vostre reazioni (non le vedo, in realtà: non esistono) all'ultimissima su Deathloop o Returnal.

Un tempo, nel cestone dei dimenticati ci sarebbero finiti pure gli indie, ma oggi? Oggi parliamo di materia alle soglie del mainstream, grazie ad editori pop come Devolver Digital che ti conquistano prima fuori dal campo e poi dentro, abbonamenti come Xbox Game Pass che attingono a piene mani a quel mondo per rimpolpare il proprio catalogo, iniziative PlayStation che fanno da cassa di risonanza.

Con le dovute eccezioni, quindi, per i costi e gli investimenti che prevede, un titolo proveniente dalla scena indipendente rappresenta difficilmente un rischio d'impresa ora come ora: il pubblico c'è, è sempre più folto (uno dei giochi più chiacchierati in giro è Narita Boy in questa fase, se fossi un sommelier due domande me le porrei) e i canali per arrivargli sono fortunatamente tantissimi. Ben altra storia è quella dei doppia-A e dei tripla-A più oscuri, che devono giocarsela nel campionato dei grandi e fanno palesemente fatica ad emergere.

In un certo senso, quello che sta succedendo qui fa gettare davvero la maschera una volta per tutte ad una certa parte d'utenza: in realtà non ve ne frega niente dei videogiochi, vi piace soltanto lamentarvi dei loro difetti (che pure ci sono) e delle mancanze di chi li realizza o vende (che pure ci sono), e salvaguardare il vostro orticello di nuove proprietà intellettuali solo quando sono mega blockbuster e vecchie serie che non finiranno mai.

Ci può stare, l'Umarell videoludico è una componente dell'indole umana, ma non vi dà il diritto di puntare il dito contro nessuno nel momento in cui l'industria si adegua a suon di bis e tagli verticali alle indicazioni che le date coi fatti.

La stampa? Pagata e incapace (se non la pensa come me)

Un discorso a parte va fatto per il rapporto con la stampa. Argomento molto vasto, e probabilmente non basterebbero dieci approfondimenti per discuterne, ma il ragionamento è lo stesso: accusate il giornalismo videoludico di essere allineato o corrotto, poi appena trovate un portale in cui si esce dal seminato partite con la classica levata di scudi e con accuse infondate.

Di recente, abbiamo affrontato alcuni temi controversi (buone notizie: non smetteremo di farlo) non tanto perché lo siano, quanto perché vengono visti per qualche ragione in questo modo. C'è chi è abituato a sentire applausi scroscianti a Sony e basta, c'è chi ha adottato il credo dell'Xbox Game Pass salvatore della patria e basta, e ci sono persino i sostenitori di Stadia – massimo rispetto, ma pensare che una piattaforma tanto tribolata e nata da poco abbia dei fan fondamentalisti è un tantino sorprendente, passatecelo.

Ogni volta che si esce per un secondo dalla narrazione dominante e si prova a capire cosa vada e cosa no nei modelli che queste corporazioni propongono, o si fanno complimenti ove meritati, apriti cielo: secondo la vulgata, siamo a giorni alterni boxari, sonari, nintendari, stadiari, e chi più ne ha, più ne metta. Si parte sempre e comunque dall'idea che un parere sia viziato da un bias, nel caso in cui non confermi ciò che si pensi, e mai per comprendere quello che si legge (a patto che si superino il titolo e la prima scrollata, ovvio).

Si fa una guerra per la novità, per la varietà, per la libertà creativa, poi si critica il remake di The Last of Us che penalizza un team di sviluppo con l'ambizione di ritagliarsi un suo spazio in un colosso del settore ed è subito “clickbait!” – è quello di cui siamo stati tacciati quando abbiamo espresso un pensiero su “The Last of Us Remake è una brutta notizia per PS5”.

Si propone un'analisi industriale dello stato di una compagnia, per mettere in piedi un tentativo di spiegare le ragioni dietro certi comportamenti e mosse, e il primo pensiero è che si stia cercando di screditarla: ci è successo con il recente articolo su Xbox, basato su fonti attendibili dal settore, e il suo sensibile ritardo nella produzione di una line-up di esclusive, dove siamo stati magicamente additati come cultori di PlayStation. Pochi giorni prima, un utente Facebook si era andato a cercare la biografia del sottoscritto per scoprire che una delle mie prime esperienze lavorative nel settore era in un sito solo Xbox, pensando che la cosa testimoniasse come io fossi contro Sony.

Ancora: opinioni forti che vengono viste come mancanza di professionalità (siamo stati accusati di condurre dei veri e propri “diari” soltanto perché scriviamo molti articoli su SpazioGames, che è il nostro lavoro per cui veniamo pagati come tutti i professionisti) o quali letture di parte volte a gettare fango su un'altra. Ciò accade perché il pubblico italiano, non sorprende vista la situazione socio-politica nostrana, è rimasto indietro di almeno 20 anni rispetto al resto del mondo che è cresciuto a pane e Kotaku, ed è abituato ai numerini, agli elenchi asettici e alle belle donne in lingerie, risultando continuamente inadeguato a partecipare ad una discussione seppur stimolata in maniera ormai disperata ai livelli di un defibrillatore.

Questa è l'audience a cui si stanno consegnando opere tematicamente complesse del calibro di The Last of Us Part II e raffinate nelle dinamiche ludiche quali Returnal, la cui unica scialuppa di salvataggio è l'inganno, svelato rapidamente dopo l'acquisto, del marchio PlayStation. Quali speranze nemmeno di successo, ma perlomeno di penetrare la sfera minima dell'attenzione del pubblico ha un Deathloop in un contesto simile?

È evidente come i due discorsi siano intimamente intrecciati, e che ad una maggioranza delle persone che interagiscono i videogiochi in sé non interessino – non ne leggono e non amano discuterne. Costoro cullano soltanto il feticcio del videogioco nella sua declinazione di oggetto di culto e tifo, una bandiera da issare per sostenere la propria fazione e niente più; giocano (se giocano) tutt'altro e spesso sono presi dai prodotti cui ipocritamente danno la caccia per additarli come casual o rovina del gaming.

E l'industria che fa?

L'industria dei videogiochi ha un ruolo in questo processo, non è soltanto il destinatario di logiche imposte dagli atteggiamenti dei consumatori: anzi, li alimenta con una condotta frequentemente ambigua e bellicosa nella comunicazione, e immatura se non disinteressata quando c'è da elevare il discorso da semplice prodotto commerciale ad opera dell'ingegno umano.

Lo abbiamo sottolineato quando abbiamo parlato della rimozione forzosa del PlayStation Store di PS3, PSP e PS Vita: il gaming è una macchina continuamente in moto che schiaccia tutto e tutti in vista di quello che dovremo giocare dopo – sempre più bello, sempre migliore. Il nuovo capitolo di una serie è sempre superiore a quello che l'ha preceduto, anche se è uscito solo un anno dopo, e quest'ultimo automaticamente non viene neppure più ritenuto degno di memoria: a che ti serve, appunto, adesso che ne hai la versione perfezionata?

C'è una parte di questo mondo che odia i videogiochi, almeno quelli intesi come qualcosa in più del puro biglietto da staccare per entrare in una partita, poi in un'altra, poi in un'altra ancora, e finché non farà pace con ciò che si lascerà continuamente alle spalle – con il suo passato –, per favore, non si parli di arte.

Ma non è certo questo l'unico scheletro nell'armadio dell'industry: siamo bombardati dalla retorica dell'esclusiva, un concetto chiave nella definizione del successo della piattaforma ma che estrapolato del suo senso di mercato è orrendo (perpetrandolo, ti sto letteralmente escludendo dalla possibilità di giocarlo se sei su un'altra console) perché crea l'ampia maggioranza delle divisioni da cui è afflitto il nostro pubblico.

Ancora: fino a Phil Spencer alla guida di Xbox, il gaming era pieno di innominabili e di incroci che non dovevano capitare, né pad alla mano, né sui mezzi di comunicazione. Un universo che ha sempre restituito l'idea di una guerra, la console war a tutti gli effetti, e di un clima di astio nei confronti del diverso – che sia un gioco, un'analisi “sfavorevole” alla propria bandiera, un'opinione contro un pensiero precostituito.

Che siano emerse figure così positive è un passo in avanti importante, tant'è vero che tutti gli altri (pure per gli imbarazzi della comunicazione aperta dei social) hanno cominciato a seguire a ruota e adesso, a livello mediatico, sono più comuni le pacche sulle spalle delle polemiche. Certi retaggi, però, sono duri a morire ed è l'intera cultura dei videogiochi, in tutte le sue molteplici diramazioni, a pagarne evidentemente ancora oggi le conseguenze.

In conclusione

Un settore che per decenni ha seminato tempesta è normale che si ritrovi a raccogliere zizzania, ma esprimerà davvero il suo potenziale quando si sarà liberato di questa pesantissima zavorra: nel momento esatto in cui si aprirà all'ascolto, comprenderà le visioni dell'altro e apprezzerà come, dietro il dito che puntava contro tutto e tutti, si celava (si cela: non dite più che “non esce niente quest'anno”) quello che chiedeva a gran voce.

È una questione di maturità e la speranza (sempre più flebile, a dire il vero) è che farvici sbattere la testa più e più volte – mettervi di fronte ai danni, e spesso alle figure, che fate – possa accelerare un percorso di crescita urgente per un gaming chiamato ad affrontare sfide molto più alte della prossima bandiera a cui attaccarsi.

Returnal è in uscita il 30 aprile su PS5: potete preordinarlo su Amazon al miglior prezzo in circolazione.
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