I videogiocatori sono dei violenti. E, quando non lo sono, rischiano sicuramente di diventarlo. Potremmo riassumere così il pensiero di una parte, purtroppo decisamente in vista, dei non-giocatori, che sono sempre pronti a scommettere che l’ultimo tra coloro che prendono a fucilate persone per strada, che uccidono perché sì, lo abbia fatto perché gioca troppo ai videogiochi. Si tratta di associazioni e condanne sommarie al medium che abbiamo letto per anni sui giornali e che sono ritornate alla ribalta anche qualche settimana fa, quando il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha incontrato l’industria dei videogiochi con l’intento di arginare il problema delle sparatorie fuori controllo—perché è più preoccupante il controller davanti al tuo televisore, che il fucile d’assalto nella tua armeria domestica.Non vogliamo entrare troppo nel merito della questione politica, in questo approfondimento: vogliamo solo rispondere, a chi è sempre pronto a dire che “è tutta colpa dei videogiochi”, che ogni tanto ci sono delle vicende che ci insegnano che “è tutto merito dei videogiochi”. E non parliamo solo del mero divertimento che possono offrire.
La memoria dei videogiocatori
Quei perditempo dei videogiocatori hanno dimostrato, nel corso degli anni, una grande attenzione per il valore della memoria. Con loro, lo hanno fatto anche le software house, che hanno spesso deciso di omaggiare all’interno dei loro titoli dei fan prematuramente e tragicamente scomparsi, che amavano trascorrere il loro tempo libero—perché è di questo che parliamo—nei mondi dei giochi da loro creati.
Grim Dawn e il soldato Zedlee
Un esempio che vogliamo ricordare è quello di Grim Dawn: nel 2015, vi raccontammo la storia di John Hathaway e suo padre Lee, uniti dalla passione per il gioco fin da quando, nel 2012, fece il suo debutto su Kickstarter. Come raccontato da John, Lee «non smise più di giocare dopo che attivò la sua key del gioco, ogni volta che arrivava una nuove feature cancellava tutti i suoi personaggi per ricominciare l’esperienza con i nuovi contenuti, e mi anticipava le cose più belle che potevo aspettarmi.»Purtroppo, poco dopo a Lee venne diagnosticato un cancro ai polmoni, che non lo scoraggiò dal continuare a giocare: addirittura, lasciò la partita in esecuzione per una settimana, durante un ricovero. «Gli chiesi se voleva che facessi logout» ricorda il figlio John, «lui però mi disse di no, perché voleva finire la quest che stava facendo.» Effettivamente, una volta dimesso, Lee si è dedicato a completare la quest, ma è stata l’ultima volta che ha potuto giocare a Grim Dawn. Poche settimane dopo, all’età di 64 anni, il giocatore ha perso la sua lotta contro il cancro ed ha dovuto abbandonare il suo personaggio, il soldato Zedlee, che aveva dotato di spada perché, racconta il figlio, «gli piaceva spaccare tutto.»
John ha deciso di raccontare tutto sul forum ufficiale del gioco, frequentato anche da suo padre durante i ricoveri per le terapie. «Voglio farvi sapere quanto vi sia grato, perché questo gioco è stato davvero un luminoso momento felice per mio padre» ha scritto John, firmandosi come il figlio di Zedlee. Il designer del gioco, Kamil Marczewski, ha letto il messaggio ed ha deciso che la passione di Lee per Grim Dawn doveva essere premiata con l’imperitura memoria all’interno della community: «ti ringrazio per avere condiviso con noi questa storia, è davvero di grande ispirazione sapere che il nostro lavoro può colpire così tanto una persona. Siamo felici di essere riusciti a rendere più gioiosi gli ultimi giorni di tuo padre. Come piccolo regalo, vorrei mostrarti questo» ha scritto il designer, accompagnandosi all’annuncio di un nuovo aggiornamento del gioco che avrebbe introdotto un nuovo NPC, il soldato Zedlee, che avrebbe sorvegliato per sempre Homestead, una delle aree del gioco. Ancora oggi, questo personaggio rimane all’interno del titolo in ricordo di Lee Hathaway e del suo personaggio, mentre il figlio John spesso lo mostra ai suoi figli per vivere insieme a loro il ricordo del nonno. «È stato un momento bellissimo ma molto triste» ha raccontato John, che ha anche deciso di catturare uno screenshot per impostare l’immagine del personaggio di suo padre come wallpaper del suo PC. «Ora il soldato Zedlee sorveglia anche il mio desktop, e lo farà per molto tempo.»
Vivere per sempre in un mondo online
Quello del soldato Zedlee non è l’unico caso in cui la comunità di un videogioco e gli sviluppatori si sono voluti stringere intorno ad un giocatore scomparso: accadde qualcosa di simile anche in Fallout 4, quando il DLC Nuka World introdusse un personaggio ispirato ad Evan, giocatore ventiquattrenne scomparso prematuramente dopo una malattia. La sua storia venne rivelata dal fratello, conosciuto su Reddit come NoohjXLVII, che ha avuto le attenzioni di Bethesda Game Studios ed un ricordo imperituro per Evan all’interno di quello che è stato uno dei suoi videogiochi più amati.
È accaduto qualcosa di praticamente identico anche in The Elder Scrolls V: Skyrim, con però l’intervento dei modder e non direttamente degli sviluppatori: il giocatore lastrogu3 ha raccontato che, quando sente la mancanza di suo fratello minore prematuramente defunto, carica il suo salvataggio in Skyrim. Il fratello maggiore non tocca il controller per non spostare il personaggio e per non alterare niente del file lasciato dal fratello minore, scomparso nel 2013. «Non muovo il suo personaggio e non salvo, non faccio niente, perché altrimenti non sarebbe più il suo personaggio» ha raccontato, «il suo personaggio è congelato nel tempo, proprio come lo è stato il mio fratellino.» La storia ha commosso la comunità dei modder di Skyrim che hanno deciso di omaggiare la passione del ragazzo scomparso, Taylor, inserendo nel gioco un altare nell’esatto punto in cui il suo personaggio si trovava nel momento del suo ultimo salvataggio. Chi scarica la mod, può raggiungere questo punto per ricordare Taylor e il suo amore per il gioco di ruolo firmato da Bethesda.
Altro caso particolarmente conosciuto è anche quello di World of Warcraft che, tra i suoi contenuti, omaggia in diversi modi lo scomparso attore Robin Williams, che era un grandissimo fan del gioco: si va dalla lampada del genio da lui interpretato ad un personaggio vestito come Mrs. Doubtfire, a rendere imperituro il ricordo dell’artista anche nel cuore e nella mente di chi tutti i giorni dedica il suo tempo libero al mondo di WoW.
Le gare di solidarietà dei videogiocatori
Vivendolo tutti i giorni da vicino, possiamo affermare con sufficiente sicurezza che difficilmente altri media tendono a creare comunità coese (e a volte anche in contrasto tra fazioni diverse, purtroppo), tanto quanto i videogiochi. Come già dimostrato dagli esempi citati nel paragrafo precedente, non si tratta solo di condividere del divertimento, ma di condividere dell’esperienze, di conoscere persone con le quali interagire e che in qualche modo possono anche diventare parte della nostra vita grazie ad una mutua passione per il gaming. Il videogioco può allora anche essere un potente mezzo di socializzazione, sebbene sia spesso accusato di essere “isolante”, ed è in grado di formare dei gruppi che a volte non si limitano alla virtualità e che sono in grado di collaborare per il bene della comunità. A tal proposito, vale la pena ricordare alcune delle gare di solidarietà lanciate proprio dal mondo dei videogiochi, partite sia dagli sviluppatori che dagli utenti.
Le raccolte fondi per XboxAddict e per il lead designer di Anthem
Di recente, vi abbiamo purtroppo raccontato sulle nostre pagine della scomparsa di XboxAddict, giocatore molto popolare nella community del mondo Xbox: dopo la sua morte nello scorso mese di aprile in seguito ad una malattia, non solo gli altri membri della comunità ma anche Phil Spencer, leader della divisione Xbox, hanno voluto commemorare ed omaggiare Matthew sulle loro pagine social, ricordando anche alcuni momenti di gioco trascorsi insieme a lui. A ciò si affianca il fatto che gli altri videogiocatori abbiano deciso di lanciare una raccolta fondi da destinare alla famiglia di Matthew, composta da sua moglie e dai suoi tre figli, per aiutarli a superare questo difficilissimo momento. Esatto: persone praticamente sconosciute e lontane, che condividevano con Matt l’amore per i videogiochi, hanno deciso di donare i loro soldi alla sua famiglia per aiutarla, in nome della passione comune per questo medium. Con buona pace di chi passa le giornate a sostenere che videogiocare sia in qualche modo sinonimo di un disagio.
Un altro caso identico è quello relativo allo sfortunato Corey Gaspur, lead designer di Anthem presso BioWare, prematuramente scomparso lo scorso mese di luglio. Dopo l’addolorato annuncio dato dalla software house, i fan della compagnia hanno lanciato una campagna di raccolta fondi con l’intento di destinare le donazioni al piccolo Cain Gaspur, figlio del lead designer, per assicurargli un futuro più roseo nonostante le difficoltà economiche seguenti la morte del padre. L’iniziativa è stata rilanciata dal celebre giornalista Geoff Keighley e, ad oggi, ha raccolto oltre $44.000 dai videogiocatori di tutto il mondo.
Da Satoru Iwata a Humble Bundle: quando videogiocare ci rende più umani
Quell’11 luglio 2015, diciamoci la verità, siamo stati male tutti. E non perché conoscessimo davvero il presidente di Nintendo Satoru Iwata, no, ma perché proprio l’essere così vicini al mondo dei videogiochi ci ha dato la sensazione che, nei limiti della sua professione, fosse così. Per chi non vive l’universo videoludico tutti i giorni, l’11 luglio 2015 è morto il presidente di Nintendo, ma per tutti gli altri è morta una persona cara, che era in qualche modo parte del nostro quotidiano. Ce lo ricordiamo benissimo, il silenzio di quel giorno anche sulle nostre pagine: fu una delle rare offerte dal web in cui i moderatori non ebbero nulla da fare in tutta la giornata, perché con Iwata avevamo perso qualcosa tutti e non ci fu spazio nemmeno per la console war.
Il mondo della Rete, quello che più di tutti consente ai videogiocatori di cancellare le distanze, venne invaso da ricordi e tributi dedicati al presidente Iwata, e ci volle pochissimo prime che nascessero le prime iniziative benefiche dedicate alla sua memoria: ricordiamo, ad esempio, la maglietta con la bandiera di Super Mario a mezz’asta, con il ricavato dalle vendite donato al 100% in beneficenza—metà per la ricerca sul cancro, metà per l’iniziativa Child’s Play che aiuta i bambini ricoverati negli ospedali a vivere meglio la loro esperienza grazie alla compagnia dei videogiochi.
Sono tanti i modi in cui la passione dei videogiocatori ha potuto fare la differenza: di recente abbiamo visto il lancio della skin che dona i fondi per la ricerca sul cancro al seno in Overwatch, ricordiamo iniziative affini anche di EA, Sony, Nintendo, Sega e Square Enix, che hanno lanciato nei loro prodotti contenuti extra che l’utente può decidere di acquistare per donare i suoi soldi ad una buona causa. Il maggior rappresentante della corrente che rende l’acquisto di qualcosa in-game o l’acquisto di un videogioco stesso un’opera di bene è il sito Humble Bundle: dal 2010, quest’ultimo propone sulle sue pagine cofanetti di titoli a prezzo ridotto, organizzati per temi, consentendovi di scegliere quanto da voi speso destinare agli sviluppatori e quanto, invece, devolvere in beneficenza tra le compagnie associate all’iniziativa. Dal 2010 ad oggi, i videogiocatori hanno donato $127 milioni in beneficenza e vogliamo riprendere le parole usate da Humble Bundle stesso, per definire questa cifra: stiamo facendo la differenza nella lotta in favore di buone cause in tutto il mondo.
Videogiocare per migliorare sé stessi
C’è una premessa che vogliamo fare e che non ci stancheremo mai di ripetere: l’eccesso è dannoso in qualsiasi cosa. Trascorrere troppe ore seduti a leggere, troppe ore davanti al televisore, troppe ore a vedere dei film, troppe ore a svolgere qualsiasi attività che sia portata all’eccesso, è controproducente per sé stessi. Purtroppo, quando è un videogioco a poter diventare dannoso, ci siamo resi conto che la demonizzazione è dietro l’angolo e che le opinioni sono estremamente più severe, come se anche ora che ci troviamo di fronte ad un’industria mastodontica per numeri ed incassi parlassimo ancora di qualcosa relegato ai bambini. Alzi la mano chi non si è mai sentito dire “ma non sei un po’ cresciuto per i videogiochi?”: una domanda che non sentirete mai nell’ottica del “non sei un po’ cresciuto per il cinema/non sei un po’ cresciuto per guardare la TV” eccetera, sebbene anche gli altri media siano spesso impregnati di immagini che dovrebbe operare la tanto temuta desensibilizzazione alla violenza.
Eppure, ci sono studi che ci hanno dimostrato che, mettendo da parte gli eventuali eccessi che da tali vanno trattati (videogiocare per venti ore su ventiquattro non è MAI una buona idea), giocare e videogiocare possono migliorare la nostra vita e il nostro rapporto con noi stessi. Si tratta di una tematica approfondita nei suoi libri dalla game designer Jane McGonigal, secondo la quale sempre più persone dedicano il loro tempo libero ai giocare perché «i giochi ci aiutano a sentirci gratificati quando facciamo i nostri sforzi migliori» (J. McGonigal, “La Realtà in Gioco”). Ecco allora che videogiocando impariamo ad affrontare delle sfide, impariamo a gestirle e, più di ogni altra cosa, impariamo qualcosa su noi stessi, miglioriamo la nostra autostima e ci sentiamo più positivi. Giocare e videogiocare sono, nello studio della McGonigal, delle attività che fungono da spinta gentile per la vita reale: conclusa l’attività ricreativa, torniamo nel mondo reale con un atteggiamento propositivo, con una sviluppata resilienza, e potremmo essere in grado di avere un “atteggiamento di gioco”, ossia positivo, anche nella vita di tutti i giorni. Scrive McGonigal che «con atteggiamento di gioco si intende portare nella vita reale quelle forze psicologiche che mostri normalmente quando giochi, come l’ottimismo, la creatività, il coraggio, la determinazione. Significa avere la curiosità e l’apertura necessarie a tentare strategie diverse, per scoprire la migliore. Significa costruire la propria resilienza per affrontare sfide sempre più ardue con successi sempre maggiori.»
A fronte di chi seppur smentito dai fatti sostiene che i soggetti esposti alla violenza videoludica sviluppino una maggior tendenza a rendere quella stessa violenza reale, McGonigal rileva che proprio la predisposizione positiva di chi si concede al gioco e al videogioco potrebbe fare la differenza nella vita di tutti i giorni, se padroneggiata e fatta nostra anche nelle attività quotidiane. Una responsabilità che pende sulle spalle dei Millennials e della Generazione Z, che sono i nativi digitali cresciuti a pane e gaming ed hanno la possibilità di fare in modo che quanto hanno vissuto (e soprattutto imparato su loro stessi) nei mondi digitali faccia la differenza anche in quelli reali. E in bene, non in male.
Mentre la parte più sbrigativa dell’opinione pubblica continua a vedere i videogiochi come quel medium oscuro che potrebbe influenzare la sensibilità dei giovanissimi, sono innumerevoli i casi in cui videogiocare ci rende semplicemente più umani e ci spinge a tirare fuori la parte migliore di noi. Per quanto escapistico questo passatempo possa essere, con le fughe che ci consente in mondi digitali in compagnia di perfetti sconosciuti, sta effettivamente avendo effetti tangibili nelle vite di tutti noi—e, quando non si parla di un’abitudine portata a ritmi insani, li sta avendo in positivo. I videogiocatori si uniscono in gruppi coesi per ricordare chi condivideva la loro passione, raccolgono fondi per aiutare chi ha perso una persona cara, donano decine e decine di dollari in beneficenza con i loro acquisti per supportare ricerche e iniziative nei campi più vari e, passo dopo passo, migliorano anche sé stessi—a volte scoprendo perfino che l’amore per questo medium può diventare una professione. Videogiocare può avere effetti tangibili nel mondo reale che vanno al di là del divertirsi, ma non sono quelli che chi punta il dito si aspetterebbe.
E se per qualcuno è sempre colpa dei videogiochi, questo viaggio testuale voleva di cuore ricordare che ci sono decine di momenti in cui è tutto merito dei videogiochi. Ma, per saperlo, bisogna viverli.