The Last of Us, o Ciò che resta di noi – Speciale
La storia umana di The Last of Us, e della sua natura di “figlio esistenziale”, adulto e umano, dei Naughty Dog sotto il suo travestimento di videogioco a tema zombie
Advertisement
a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Naughty Dog
- Produttore: Sony Interactive Entertainment
- Distributore: Sony
- Piattaforme: PS3
- Generi: Azione , Avventura
- Data di uscita: 14 Giugno 2013
Ormai mancano davvero pochi giorni all’arrivo di The Last of Us Part II. Il secondo capitolo della prima vera saga “adulta” di Naughty Dog si prefigge di riaprire quello che in origine era un cerchio letteralmente chiuso nel suo dolore – una storia che, ai tempi, suscitò la sensazione che lo spingersi oltre a quanto già mostrato avrebbe solo potuto peggiorare quello che c’era da dire, finendo col mostrare ciò che non si vuole vedere o sentire. Ma come mai il primo The Last of Us ha segnato così tanto il popolo videoludico tutto, sia su PlayStation 3 che su PlayStation 4? Per le sue umanità, cioè esattamente quello che vogliamo indagare qui.
Attenzione! Questo articolo contiene spoiler dal primo The Last of Us. Vi raccomandiamo di sospendere la lettura se non volete anticipazioni sulla trama del gioco.
Un mostro invisibile e un altro nascosto dall’elmetto
Diventa palese solo ultimato il viaggio, eppure The Last of Us sarebbe potuto finire direttamente al prologo. La normalità di un compleanno spezzato, un’epidemia che si diffonde a ritmi feroci, un cammino di disperazione prima in automobile e poi a piedi. Di nuovo, i primi fotogrammi del gioco dei Naughty Dog sono quasi “classici” considerando che stiamo parlando di un horror ad ambientazione pandemica. Ma proprio lì, come hanno già fatto altre serie che indagano la parte buia dell’umano, la trama tira letteralmente uno schiaffo al lettore. Joel e sua figlia Sarah vengono sorpresi da un soldato dell’esercito, che riceve l’ordine di ucciderli entrambi perché sono stati esposti alla contaminazione. L’orribile gesto gli riesce solo a metà, ma a farne le spese è proprio Sarah.
The Last of Us comincia così, con Joel costretto a veder morire sua figlia: nella disperazione che gli fa dire “non puoi farmi questo” c’è un dolore indescrivibile, nonché una delle prime volte che un videogioco lo porta su schermo. Il suo iperrealismo si imprime a fuoco nella mente del giocatore-lettore e non gli fa notare la spietatezza nascosta nei dettagli. A portare via Sarah da Joel non è stato il mostro invisibile della pandemia, ma la mano di un uomo, un soldato che potrà nascondersi sotto il tappeto del “sto solo eseguendo degli ordini”. Il peggioramento successivo di Joel ha sì le radici nella perdita della figlia, ma anche e soprattutto nella consapevolezza che se l’umanità è stata in grado di generare qualcuno che non si ferma neanche di fronte ai vinti e agli inermi, allora l’umanità non si merita proprio un bel niente.
Uomo morto che cammina
Joel muore esattamente nell’istante in cui il cuore di sua figlia Sarah cessa di battere. Negli anni successivi, in cui si adatta a vivere come contrabbandiere all’interno di una società pervasa dall’incurabile piaga del Cordyceps, non è altro che un fantasma. Un fantasma che vede l’insieme umano in maniera predatoria, in cui verrà mangiato se non è lui a mangiare per primo. E come tale si comporta, agendo con la spietatezza del leone.
In effetti, pure se in quanto mostrato di Part II lo abbiamo già visto nella veste di vecchio leone stanco e deluso, quando lo conosciamo è in bilico: al massimo delle sue facoltà fisiche e mentali, eppure già a un passo dal declino. Sono vent’anni che non può più permettersi il lusso della speranza, eppure il giocatore-lettore è portato a non volerlo accettare. Di nuovo è una regola non scritta per via del fatto che la narrazione è di suo movimento e cambiamento, quindi ci si aspetta che cambi e qualcosa si inneschi. Del resto il videogioco stesso è stato semioticamente definito come una enunciazione cinetica. Un desiderio che pare avverarsi con l’arrivo improvviso di Ellie e del suo messaggio di possibile immunità al fungo Cordyceps, la prima concreta possibilità di antidoto per un’umanità che non ce la fa più.
Comincia quindi il viaggio che è alla base della storia, distribuito attraverso quattro stagioni e degli Stati Uniti devastati. E qui, di nuovo, ecco che The Last of Us riprende con i pugni allo stomaco: oltre al soffocamento di ogni forma di empatia, essendo la richiesta d’aiuto solo una maschera per ben altre peggiori intenzioni, ogni personaggio al di fuori di Joel ed Ellie non è altro che lo specchio metaforico dei due. Ad ogni morte infatti l’inquadratura subisce un brutale taglio sul nero, un espediente che evita di mostrare cosa succede se il giocatore fallisce. È questo l’ingrato compito dei comprimari: quello di “vittime sacrificali”, per permettere a Joel ed Ellie di andare avanti e far capire al giocatore quello che il gioco non mostra sul loro conto.
The Last of Us, o il profeta che non urla
L’epidemia in sé ha delle radici scientifiche: il Cordyceps è una varietà di funghi realmente esistente, ma gli effetti zombificatori mostrati da The Last of Us nella realtà avvengono negli insetti (formiche e altri artropodi) e non sugli umani, sui quali ha persino proprietà medicinali. Ma sono tutte informazioni facilmente rintracciabili, e forse proprio per questo non è in esse che sta la vera attenzione dell’opera Naughty Dog.
Di nuovo, il nome Joel non è una scelta casuale: è infatti ebraico (in italiano è Gioele, originariamente reso in latino come Ioel) e la sua interpretazione etimologica è stata riconosciuta come “Jahweh è Dio”. La cosa più interessante è come Gioele fosse un profeta dell’Antico Testamento, in cui a seguito di un’invasione di cavallette abbia profetizzato l’imminente arrivo del giorno di Dio, che poi procede a descrivere. La sua altro non è che una feroce invettiva, rivolta soprattutto alle popolazioni pagane che hanno diviso il popolo di Israele. Ma allo stesso tempo ambienta il luogo dove tale giudizio avverrà nella Valle di Giosafat: “Poiché sopra il mio popolo gettarono la sorte, dettero il fanciullo in cambio d’una meretrice, vendettero la figlia per avere del vino, e si son dati al bere!” (Gioiele 4:3).
Ma dove il Gioele biblico inveisce ad alta voce, Joel ha un giudizio più composto e cinico, che traspare attraverso le azioni. Egli ha appunto già giudicato l’umanità, e in tal senso il gioco, nel farcelo comandare, scarica proprio su noi giocatori la responsabilità del tutto. Lo fa per mettere il giocatore di fronte all’evidenza di una situazione estrema. Alla fine, Joel non è né un antagonista né tantomeno un protagonista, ma solo un essere umano. Un concetto che lo stesso Druckmann ha ribadito, di fatto caricando l’agire virtuale del giocatore di un’ulteriore, cinica considerazione. Se la salvezza dell’umanità comportasse la morte di una singola vita, come agiremmo? Le regole non scritte della sceneggiatura, del kolossal, della “grande narrazione” vedono il sacrificio come il simbolo più vero di eroismo e riscatto. Ma The Last of Us di nuovo ci ricorda che non è niente di tutto questo, bensì un’opera intimista e realista. E in quanto tale ci parla dell’ovvietà dolorosa: se davvero fossimo lì, non sarebbe un sacrificio che accetteremmo.
Vivere, resistere, sopravvivere
Oltre al giudizio crudele sull’umano, il gioco di Neil Druckmann e Bruce Straley è anche una profezia sul mondo che cambia e sulla futilità delle cose. Un compito che viene affidato a Ellie, povera quattordicenne nata sei anni dopo lo scoppio dell’epidemia (quindi nel 2019). Dove Joel conserva ancora il ricordo di una normalità ormai lontana, Ellie non l’ha mai conosciuta, e si stupisce di quando, nella cameretta di una casa in rovina, trova e legge il diario di quella che era una sua coetanea. Si stupisce del fatto che le preoccupazioni di quei tempi fossero appunto i sentimenti o l’abbigliamento. Può quasi sembrare fuori luogo visto il contesto, ma in realtà si tratta del fatto che l’umano ha bisogno di quello che spesso raggruppa sotto il troppo generico aggettivo “futile”. Perché gli permette appunto di vivere e non di sopravvivere.
In effetti, ciò che The Last of Us continua a evidenziare anche e soprattutto sul gameplay è il fatto di come la sopravvivenza sia la parte accettabile di egoismo. Una legge se vogliamo universale, ma lasciata solamente intendere perché appunto “non è bello” che se ne parli. E non lo è per un principio ben preciso: farlo obbligherebbe a fare “cernite” su chi o cosa reputiamo irrinunciabile, o a quanto siamo disposti a sacrificare (non solo oggetti ma financo legami e persone) pur di conservare la vita. In tal senso il Cordyceps serve a tenere fuori almeno in parte l’incubo e il tormento di questi ragionamenti, essendo incurabile. Chi si infetta arriva a desiderare la morte come atto di pietà, prima di perdere la propria umanità in animale fungino.
Joel invece non ha potuto riflettere su questi dilemmi perché ha dovuto averci a che fare direttamente per sopravvivere. La sua mentalità per certi versi pare ricondursi al perseguire un basilare familismo amorale: con questo nome si designa in sociologia una controversa teoria introdotta nel 1958 da Edward Christie Banfield. Semplificando, si tratta di una condotta societaria in cui a contare per ciascuno è il solo benessere immediato della propria famiglia nucleare, ovvero genitori e figli. Pur partendo dalle riflessioni di Tocqueville, le considerazioni di Banfield hanno avuto il loro strascico di polemiche e risposte, prime fra tutte il fatto di essere uno stereotipo e soprattutto di essere limitate e limitanti a livello contestuale.
Eppure, Joel pare comportarsi proprio così: si preoccupa solo di coloro che gli stanno immediatamente vicini, e prima di Ellie a contare per lui era Tess. In questo senso Tess era appunto la compagna, mentre Ellie assume nel corso dell’avventura i tratti della figlia. Ma prima di attribuire a The Last of Us tratti sociologici che magari non ha, c’è anche da considerare che la volontà di protezione dei familiari è necessaria in termini di preservazione della specie. È quindi qualcosa di primordiale, che però è sbagliato applicare alla lettera in un contesto come quello umano, che della società non può fare a meno in quanto gli permette di crescere a livello mentale e conoscitivo. Quindi la soluzione non è distruggerla, ma cambiarla, e soprattutto non costruirla solo sulla paura.
The Last of Us, ovvero la traduzione
Anche perché, come testimoniano le ambientazioni di città coperte di vegetazione selvaggia, la natura vince sempre. Gli animali tornano a popolare i loro spazi, non più spaventati dagli umani: emblematica in tal senso la sequenza con le giraffe. Se vogliamo, questo tema è stato quasi profetico, vista la recente pandemia e le sue conseguenze. E, volendo ampliare questo concetto, la presenza degli animali è simbolo dell’enunciazione stessa, con l’ambizione del voler superare le barriere della narrativa videoludica tra gameplay e cutscene. Malgrado fosse per i tempi un passo avanti incredibile, c’è da dire che in The Last of Us la maggior parte dell’espressione passa ancora attraverso i filmati.
Certo è che senza Ellie probabilmente Atreus non sarebbe stato altrettanto “vivo” e verosimile. La concezione di Ellie come figlia è qualcosa che arriva col tempo, attraverso i simboli, uno su tutti il fatto che lei porti i vestiti di Joel durante l’inverno. La condivisione delle vesti per proteggere dal freddo è il patrimonio ultimo e più intimo dell’umano, che arriva appunto a levarsi pane e vestiario pur di dare ai figli (pure se fatti di legno, come il nostrano Geppetto) protezione – e quindi futuro. Un passaggio di consegne simbolico ma potentissimo, genialmente sottolineato nel gameplay da come il giocatore si ritrovi a comandare prima Sarah, poi Joel, poi Ellie, di nuovo Joel e infine Ellie.
Del resto è già successo che un titolo originale facesse leva sulla fecondità dei modi con cui poteva essere interpretato. In questo caso diviene quasi ironico, in quanto se The Last of Us fosse stato un film probabilmente il suo titolo sarebbe stato tradotto finendo con l’incarnare solo uno dei suoi possibili significati. Nei fatti sarebbe stato un po’ tradirlo, amplificando quello che è il difetto zero dell’operazione stessa di traduzione. Eppure Naughty Dog ha abilmente giocato anche con questo, approfittando appunto del fatto che nella videoludica i titoli delle opere vengono solo raramente tradotti (quando va bene c’è un sottotitolo).
Per lungo tempo è stato detto che The Last of Us poteva essere reso come “l’ultimo di noi” o “gli ultimi di noi”, ma col passare degli anni ci si potrebbe anche render conto che in realtà la resa migliore in italiano è “ciò che resta di noi”. Non a livello materiale, ma a livello di umanità, etica, conoscenza, amore. Joel non cambia nel corso del viaggio: semplicemente recupera l’istinto genitoriale che pensavamo disintegrato nel prologo.
Ma di nuovo, con l’ammissione a se stesso che, con Ellie, è di nuovo pronto a essere padre, allora verrà giustificato qualunque cosa farà. Tutto vero, ma di nuovo si tratta di vedere solo una faccia della medaglia: niente ci impedisce di pensare che quello di Joel non sia che un atto profondamente egoista, una “sostituzione” per cercare di superare qualcosa che appunto non si supera. Ma allo stesso tempo abbiamo ormai capito che Joel, esattamente come qualunque altro essere umano, non reggerebbe la perdita di un’altra figlia, anche solo putativa. E quindi lo “accettiamo”, facendo finta di ignorare che prima o poi i nodi verranno al pettine. E forse lo faranno proprio in Part II.
L’introspezione è difficile, a prescindere dal mezzo espressivo con cui la si racconta, e le storie che ne derivano non sono da meno. Sono opere che sembrano proprio fatte apposta per non riscuotere grande successo di pubblico. Possono essere apprezzate da piccole cellule (dentro e fuori dalla Rete), ma in linea generale non attecchiscono. Questo perché fin troppe persone si riconosceranno nei personaggi, nei caratteri, nelle loro paure e nelle loro azioni. The Last of Us è uno dei pochi ad aver dimostrato il contrario.
Sotto il cavallo di Troia dell’epidemia Cordyceps, la storia di un uomo e sua figlia porta a galla temi scomodi, che riguardano il mestiere più difficile del mondo. Naughty Dog mostra tutto ciò nella parte sì più umana, ma anche quella che non vogliamo vedere, cioè quella in cui la volontà del genitore è un egoismo più importante di qualunque altra cosa, fino alla perversione che in suo nome qualunque azione venga giustificata.