Gli sviluppatori italiani commentano il First Playable Fund – Speciale
Abbiamo chiesto agli sviluppatori come funziona il fondo incluso nel Decreto Rilancio e cosa ne pensano, passando per la definizione delle varie fasi della creazione di un videogioco
a cura di Paolo Sirio
Con il Decreto Rilancio in Gazzetta Ufficiale, il First Playable Fund può finalmente dirsi realtà. Come abbiamo avuto modo di apprezzare nell’intervista a Thalita Malagò, Direttore Generale di IIDEA – l’associazione che rappresenta gli sviluppatori e gli editori di videogiochi in Italia –, pubblicata contestualmente all’ufficializzazione del Decreto, si tratta di uno strumento che fornisce un aiuto misurato ma concreto allo sviluppo del gaming nel nostro paese, e costituisce con la sua sola esistenza un riconoscimento importante al settore come industria capace di generare occupazione e profitto.
A corollario di un lungo lavoro che abbiamo condotto con tutti i player dietro questa tappa fondamentale per la crescita dei videogiochi nel Belpaese, ci siamo confrontati con numerosi sviluppatori italiani per capire cosa ne pensino, come valutino le misure intraprese e dove altro ancora interverrebbero per colmare le lacune dell’industry nostrana. Abbiamo anche posto alcune domande su cosa sia un prototipo, l’oggetto del finanziamento statale, cosa ci sia prima e cosa dopo tale step, e chiesto se un simile riconoscimento sia eccessivamente tardivo per ridurre il gap il più possibile con le altre realtà europee.
Tra gli sviluppatori che abbiamo contattato individualmente troverete, qui elencati in ordine sparso: Carlo Ivo Alimo Bianchi, Founder e Creative Director presso Storm in a Teacup; Mauro Fanelli, CEO e Creative Director presso MixedBag, rappresentante developer e Vice Presidente di IIDEA; Valerio Di Donato, CEO di 34BigThings; Chris Darril, Co-Founder e Creative Director di Darril Arts e Remothered Srl; Luca Marchetti, CEO di Studio Evil; Alberto Belli, CEO di Gamera Interactive; Michele Giannone, Co-Founder, PR e Business Developer di Invader Studios. Quello che segue è il resoconto, infarcito di immagini in-game dei titoli dei team coinvolti, del nostro confronto avvenuto la scorsa settimana.
Come è nato First Playable Fund
Il First Playable Fund, il cui testo abbiamo menzionato più volte in questi giorni perché ha fatto un certo effetto vedere dipinto a parole finalmente all’altezza del mezzo e dello sforzo produttivo richiesto per attivarlo, è frutto di un lavoro congiunto del legislatore e di IIDEA, l’Italian Interactive Digital Entertainment Association, attraverso molteplici figure più o meno note al grande pubblico.
Una di queste è Mauro Fanelli, interessato dalla vicenda nella duplice veste di CEO e Creative Director di MixedBag (Forma.8) e rappresentante developer presso l’associazione. Fanelli ci ha spiegato che «come associazione abbiamo in primis proposto e promosso il fondo presso il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) e siamo stati coinvolti nel processo decisionale. I colleghi di IIDEA hanno fatto un ottimo lavoro e un ringraziamento particolare va ad Adriano Bizzoco che ha seguito in prima linea l’intero processo».
Ha avuto modo di «lavorare direttamente sulla proposta (…) dando i miei feedback in merito alla dotazione e agli stanziamenti. Dal mio punto di vista era molto importante che il fondo fosse equilibrato e in grado di finanziare sia le produzioni più piccole (da qui una soglia di accesso molto bassa, €10.000), sia i prototipi più strutturati (un taglio massimo da €200.000, quindi prototipi da €400.000)».
L’associazione ha avuto il compito di rapportarsi con le istituzioni ma, come raccontato da Luca Marchetti di Studio Evil (Super Cane Magic ZERO), «si è divisa in gruppi di lavoro e noi non eravamo in questo gruppo di lavoro specifico», per cui i fronti aperti sono molteplici in questa fase e i soci si occupano direttamente di quello in cui si sentono più adatti.
È bene sottolineare che, come ci ha spiegato Alberto Belli di Gamera Interactive (Unit 4), questo lavoro è stato portato avanti da un’associazione, IIDEA, che «rappresenta unicamente i suoi associati e non l’industria italiana dei videogiochi nella sua interezza». Ciò non vuol dire però che Belli non riconosca il valore di quanto fatto, dal momento che «ciò detto, bene così finché si tratta di operazioni teoricamente utili per tutti».
Un riconoscimento importante…
Al di là del valore economico, indubbiamente di primo interesse nella valutazione della sua efficacia, il First Playable Fund rappresenta un riconoscimento importante per un’industria che, come quella dei videogiochi, stenta da anni a decollare in Italia nonostante la crescita esponenziale del consumo di gaming e delle qualità degli sviluppatori, su più livelli, nel nostro paese.
La relazione illustrativa del Decreto Rilancio parla del videogioco come «opera complessa, che richiede un’ampia gamma di profili professionali altamente specializzati», e questa definizione rende Marchetti «molto felice» perché «è una cosa che tutti gli addetti ai lavori sanno perfettamente ma non è vero lo stesso per il pubblico».
Sulla stessa lunghezza d’onda è Michele Giannone di Invader Studios (Daymare 1998), che in quanto «affermazione che giunge solo ora in via ufficiale» la valuta «assolutamente tardiva». C’è del buono, però, nel fatto che siamo «testimoni da anni di una prolungata lentezza, e perché no anche ‘osteggiamento’, nel conferire al settore un’importanza e valenza socialmente costruttiva» e che adesso ci ritroviamo invece a parlare di «piccole grandi vittorie ottenute dall’industry nel nostro paese» – lo slogan, evidentemente, è “meglio tardi che mai”.
Chris Darril di Darril Arts e Remothered Srl (Remothered: Tormented Fathers) aggiunge con una certa amarezza che «così come per la cultura, l’istruzione e la sanità, per anni si è giocato al bricolage, poi, una volta rese note le ripercussioni di questa inattesa pandemia, si è corso ai ripari. Chi si occupa dei videogiochi in Italia viene un po’ visto come degli invisibili ghost writer. (…) Per lo Stato, per le mentalità retrograde che vedono i videogiochi come mero passatempo, siamo ancora dei fantasmi».
«Siamo nel 2020 e nel mezzo di una pandemia, per il prossimo passo ci vorrà un’invasione aliena, immagino…», scherza Carlo Ivo Alimo Bianchi di Storm in a Teacup (Close to the Sun). «Non sono fra quelli che pretendono leggi ad hoc sui videogiochi, penso che sarebbe importante per questo paese, nel suo complesso, un’impostazione fiscale e burocratica più agevole per fare impresa per tutti e ci rendesse più competitivi».
«Se il riconoscimento è reale, lo sistematizzassero», aggiunge poi battendo su un punto a nostro avviso davvero fondamentale. «Ti faccio solo un esempio: sai in che settore contrattuale ricade lo sviluppo di videogiochi con i suoi “profili professionali altamente specializzati”? Se hai certezze comunicacele, perché non lo sappiamo nemmeno noi. Ad oggi una categoria riconosciuta non c’è, ti ritrovi che chi fa videogiochi rientra nella stessa organizzazione dei contratti dei metalmeccanici, che forse hanno esigenze e situazioni un po’ diverse da un programmatore o un 3D Artist».
… ma tardivo, e non (sempre) per colpa delle istituzioni
Un aspetto che ci ha colpito particolarmente delle discussioni con i diversi sviluppatori è che ciascuno di loro ha una grande consapevolezza dello stato in cui versa il gaming, lato produttivo, nel nostro paese, e che questa condizione ha per forza di cose un impatto notevole sulla qualità del supporto istituzionale.
«Il mercato dei videogiochi in Italia è sempre stato importante e in crescita», puntualizza Belli. «Gli italiani consumano videogiochi e quello è sempre stato fuori discussione. Il problema è svilupparli, i videogiochi, in Italia e siamo nel paradosso per cui per diventare interessanti a livello governativo ed ottenere aiuti, si dovrebbe ricevere un aiuto che è quello che non arriva. Lo Stato non può aspettare dei risultati che non possono arrivare senza il suo aiuto, per mettere in moto la macchina».
Gli fa eco Marchetti, secondo cui «per quello che riguarda la produzione siamo un settore ancora irrilevante. Siamo pochi, produciamo una fetta assolutamente risibile del PIL e per quanto ci siano enormi potenzialità non destiamo ancora l’interesse che vorremmo», il che comporta, almeno in parte, le carenze in termini di sostegno istituzionale di cui sentiamo spesso parlare. «E non c’è molto da fare se non crescere con le nostre forze e diventare rilevanti. Per innescare pian piano un volano che ci aiuti a crescere sempre più in fretta».
Giannone osserva che «forse per via di un naturale ricambio generazionale nel contesto politico» questo processo sta venendo accelerato al netto dei valori che l’industria italiana è effettivamente in grado di esprimere oggi, e che «c’è anche la possibilità che si siano confrontati con altri paesi europei in cui la produzione videoludica incide sul PIL nazionale ogni anno e dà lavoro a migliaia e migliaia di persone».
«Siamo un settore che storicamente non è ben visto e cambiare questo tipo di opinioni e preconcetti richiede molto tempo e i giusti interventi», chiosa Fanelli. «Purtroppo nonostante ci siano stati team illustri di sviluppo di videogiochi italiani già a fine anni ‘80 e inizio anni ‘90, il settore non si è sviluppato in maniera esponenziale come successo, ad esempio, in Inghilterra». Per fortuna, però, «la mentalità sta cambiando e si inizia finalmente a riconoscere l’indubbio valore in termini economici e di sviluppo del nostro settore. Siamo un’importante risorsa da sfruttare, non un nemico da combattere».
Lo sforzo economico e come ci siamo arrivati
Il punto di vista degli sviluppatori è interessante anche quando si discute di una valutazione del provvedimento in sé, e nel momento in cui si prova a capire come ci si sia arrivati – per quali fasi e per quali richieste si sia passati prima di ottenere il via libera governativo per il testo così come lo conosciamo oggi.
Secondo Belli, è stato il COVID-19 il vero motore di questa iniziativa perché «in condizioni normali secondo me non sarebbe stato neanche considerato. Il paragone con l’estero resta ingeneroso anche perché in altri paesi non è stata necessaria la pandemia per strutturare operazioni di questo tipo».
«Il vero problema», riflette però il CEO dello sviluppatore dell’RPG Alaloth: Champions of the Four Kingdoms, «è che poco tempo fa, guardavamo a Francia, Inghilterra e Germania come sample da seguire. Nel mentre siamo stati doppiati da una serie di altre nazioni che sui videogiochi stanno puntando», tra cui la Romania, l’Europa dell’Est in generale, i paesi scandinavi e slavi.
Pur sottolineando che alla buonora «siamo su una buonissima strada», Marchetti afferma che «sappiamo benissimo che ci sono nazioni in cui questi meccanismi d’aiuto sono esistenti da molti anni» e che sono «spesso più ‘importanti’ in termini assoluti e sicuramente più radicati nella cultura economica della nazione». È però anche vero che «questi meccanismi arrivano quando un’industria inizia ad essere rilevante per una nazione», e su questo punto altri suoi colleghi si sono espressi in toni simili.
Darril pone l’accento sulla «condizione perenne di precariato» in cui lavorano «liberi professionisti, piccole aziende e, ovviamente, dipendenti. Questo vale, non solo per le professioni artistiche ma per tutte quelle realtà specialistiche che finiscono col subire le influenze di un sistema economico che fa acqua da tutte le parti e non tutela, né riconosce, le giovani professioni». Problematiche più profonde che vanno oltre quanto un “semplice” decreto può ragionevolmente portare a casa.
«Storicamente», è il pensiero di Bianchi, «noi ci mettiamo sempre più tempo degli altri a recepire le novità. Siamo un paese di tradizioni e abitudini, in cui l’innovazione stenta sempre ad affermarsi come volano di crescita e chi fa ricerca senza andare all’estero è praticamente un eroe. Il fondo è già qualcosa».
Sebbene potrebbe sembrare poca cosa, si tratta invece di «un fondo consistente che permette un aiuto concreto alle aziende videoludiche perché altamente specifico», commenta Valerio Di Donato di 34BigThings (Redout). «Serve a spingere la sperimentazione e supportare le aziende nella fase di pre-produzione e arrivare alla realizzazione di un prototipo o di una vertical slice».
Che la cifra stanziata sia bastevole o meno, «la nostra richiesta», spiega Fanelli, era per «una dotazione più ampia». Tuttavia, ci sono due aspetti da tenere in considerazione quando si valuta un impegno simile. «È molto difficile che la fase di concept e prototipazione riceva finanziamenti esterni: solitamente si richiede ad uno studio di sviluppo di presentare un primo prototipo giocabile insieme al pitch di un nuovo prodotto. Quindi avere risorse extra da investire in questa fase abbassa notevolmente i rischi e permette di realizzare concept e prototipi di maggior impatto, in grado di attrarre più facilmente ulteriori finanziamenti».
«In secondo luogo», prosegue, «l’industria italiana è composta da circa un centinaio di studi di sviluppo, perlopiù microimprese, che in buona parte autofinanziano la propria produzione: questo fondo offre 4 milioni di euro che prima semplicemente non esistevano e su cui oggi gli sviluppatori italiani possono contare a supporto dei propri progetti».
Alcuni dettagli che ci vengono fatti notare sono che First Playable Fund prevede uno stanziamento superiore a quello di Europa Creativa, fondo per tutti gli sviluppatori europei con «forti vincoli sulla componente narrativa dei giochi», mentre è «equivalente all’analogo fondo francese di finanziamento prototipi». Inoltre, la soglia di accesso è stata pensata come particolarmente bassa per dare l’ok a progetti più piccoli e «senza vincoli di natura culturale».
Trasparenza e timori. Perché sono «cruciali i prossimi sessanta giorni»
L’Italia viene sovente considerata un gigante burocratico difficile da scalare, e spesso uno di quelli in cui iniziative dai buoni propositi come questa si perdono per modalità di accesso e controllo poco trasparenti. Tra gli sviluppatori che abbiamo interpellato c’è chi guarda con fiducia al lavoro che si prospetta per le istituzioni in tal senso, e chi invece è per esperienza un po’ più disincantato.
Da esterno a IIDEA, ad esempio, Belli di Gamera Interactive si augura che questo fondo non sia «rivolto solo agli associati»; ancora più pratico è Darril, che avverte già sulla possibilità che sorgano «fantomatiche start-up o nuove SRL [che] potranno accedere indisturbatamente a finanziamenti mirati».
Bianchi sottolinea che «i timori che posso avere in questa fase sono legati alla possibilità che su forme di finanziamento a fondo perduto si lancino tutta una serie di soggetti che non sono sviluppatori di videogiochi e che i criteri di valutazione ricalchino in qualche modo quelli che abbiamo visto applicati per i finanziamenti europei, e quindi una valutazione della rilevanza culturale locale per prodotti che hanno un mercato di sbocco globale».
Al contrario, Marchetti è dell’idea che «la specificità del finanziamento rende abbastanza difficile farne un uso improprio» e che quindi abusi che siamo stati spesso abituati a vedere in altri settori non dovrebbero ripetersi in questo caso. «Sono un inguaribile ottimista e ho fiducia che tutto si muoverà, entro un certo margine, nella direzione corretta».
Una fiducia che potremmo pensare ispirata dalle iniziative approntate fin qui, pur susseguendosi lentamente, tra cui il supporto di Agenzia ICE, che finanzia la partecipazione delle aziende italiane alle missioni internazionali come GDC o Gamescom, di Toscana Film Commission e del programma Sensi Contemporanei per il finanziamento di First Playable, l’evento B2B promosso da IIDEA. Altri strumenti di finanziamento adoperati sono stati il credito di imposta per Ricerca e sviluppo e il Patent Box, potenti ma non rivolti specificamente ai videogiochi con tutte le limitazioni che questa genericità ha potuto per ovvie ragioni comportare finora.
Fanelli, dalla sua prospettiva “privilegiata” di rappresentante developer nell’associazione, ritiene che il decreto sia «molto chiaro» ma sa bene che «saranno cruciali i prossimi sessanta giorni, nei quali verrà emesso il decreto ministeriale che regolamenterà l’accesso al fondo»; per cui da questo punto di vista la situazione va ancora definita e nessun paletto è stato posto precisamente. «Come sviluppatore mi auguro soprattutto due cose: che le procedure di accesso siano chiare e, soprattutto, rapide».
Perché si parla di prototipo, cosa c’è prima e cosa dovrà esserci dopo
Nel Decreto Rilancio si parla esplicitamente di prototipo, che non è una fase dello sviluppo che siamo abituati a menzionare da appassionati di gaming e da stampa – specializzata sì, ma non fino al punto da toccare gli aspetti meno mediatici dell’industria. Abbiamo chiesto agli sviluppatori di cosa si tratti, cosa ci sia prima, e cosa dovrà a loro modo di vedere esserci dopo sia in termini creativi che legislativi per rendere questa misura realmente efficace.
Il primo step, da manuale, è quello del concept: «un’idea alla base del gioco», ci spiega Di Donato di 34BigThings. «Può essere qualcosa che rappresenta una meccanica, un quid tecnologico o uno stralcio di trama. Noi siamo storicamente legati alla scuola scandinava, quindi partiamo sempre da una meccanica che cerchiamo di rendere interessante, adornata dal contesto tecnologico migliore che possiamo permetterci e che incastriamo in un universo narrativo da noi creato. Il prototipo serve a ricercare e perfezionare quest’idea, renderla giocabile, provarne la componente divertente».
Prima di arrivare ad una fase espositiva del progetto, il prototipo serve anche a «validare le proprie intuizioni – molto banalmente, a capire se il gioco è divertente», ci illustra invece Fanelli. Quello che segue è una lunga fase di pre-produzione, «che può essere svolta in parte anche durante la fase di prototipo».
«Quello che accade normalmente è che, data un’idea e un concept ben definito, si inizia un lavoro di pitch dell’idea ai publisher, per ottenere il supporto finanziario necessario allo sviluppo del gioco», aggiunge Luca Marchetti di Studio Evil. «Negli ultimi anni le richieste dei publisher di un prototipo molto evoluto, la cosiddetta “vertical slice” si sono fatte molto pressanti. È davvero difficile parlare seriamente con un publisher senza un prototipo che abbia molte delle caratteristiche del gioco finito».
Realizzare qualcosa di simile è un processo costoso e senza paracadute, perché non è detto che la proposta venga accettata dall’editore di turno. «Il decreto punta a ridurre il rischio per gli sviluppatori proprio in questa fase, finanziando dai €10.000 ai €200.000 euro per prototipo, al 50%,», aggiunge Marchetti, facendo poi qualche esempio concreto dell’impatto del fondo sul settore.
«Onestamente credo che la grande maggioranza degli studi piccoli e medio piccoli italiani accederanno a finanziamenti tra i €10.000 e i €50.000, che significa poi investire in un prototipo dai €20.000 ai €100.000», è il suo calcolo. «È un ottimo aiuto e in quest’ottica (facciamo una media di €30.000 a studio) potrebbero essere aiutati più di un centinaio di studi medio-piccoli».
Quanto all’organico, a livello internazionale «nelle prime fasi di concept e pre-produzione non servono tante persone, serve il core team concentrato per un periodo medio lungo di tempo. Poi si passa a una fase di produzione in cui servono tante persone al lavoro. Spesso per seguire le deadline stringenti e riuscire ad arrivare sul mercato in tempo bisogna ampliare lo studio. Poi ad un certo punto questa necessità, per molti mesi, viene meno. E si riparte da capo. Questa flessibilità del lavoro in Italia manca» sia dalla prospettiva dello studio che da quella dei lavoratori.
Una volta acquisiti questi punti iniziali si passa alla produzione vera e propria, che si articola nei vari obiettivi con cui abbiamo tutti più familiarità: alpha, beta, gold master. «Da qui il lavoro non è affatto finito: un gioco va al minimo mantenuto (supporto, bug fix, crash, analitiche, cambiamenti alla QoL…) o espanso (con contenuti aggiuntivi, gratuiti o a pagamento)», chiude Di Donato.
Su quello che servirebbe appena portata a casa la vittoria del First Playable Fund, più voci concordano nell’indicare nel cosiddetto Tax Credit come uno strumento fondamentale per uno sviluppo serio del gaming nel nostro paese. «Sicuramente il passaggio più logico sarebbe rendere finalmente operativo il Tax Credit per il settore gaming, approvato nel 2016 presso il Ministero dei Beni Culturali all’interno della legge cinema ma mai entrato in vigore», spiega Fanelli. « Si tratta di una misura molto efficace e già utilizzata con successo in altri paesi: un importante strumento per attirare nuovi investimenti, soprattutto esteri, sul nostro settore».
«Siamo al punto in cui c’è bisogno di hit importanti per fare da volano alla narrativa necessaria alla proliferazione dell’industry e delle aziende di settore», offre un altro spunto Di Donato, prima di convenire sulla normativa di cui sopra. «Questo fondo è un ottimo passo nella giusta direzione, probabilmente anche smarcare il punto sul Tax Credit al settore potrebbe aiutare molto».
In una visione forse ideale della tematica ma quantomai condivisibile, Giannone di Invader Studios ritiene che sia auspicabile anche «una sensibilizzazione dell’intero territorio al settore, partendo da infrastrutture che permettano agli studi di sviluppare senza dover richiedere supporto a società oltreconfine, per non parlare di percorsi di studi adeguati non solo relativi ad accademie private, e che partano magari già dalle scuole dell’obbligo fino ad arrivare alle università pubbliche».
Il desiderio della community dello sviluppo italiano, checché ne pensi del First Playable Fund adottato con il recente Decreto Rilancio, è che questo passo sia soltanto il primo nei confronti di un settore, pur conscio dei suoi limiti di gioventù, sempre più industria capace di generare profitti e occupazione. Citando uno degli sviluppatori che abbiamo sentito, l’auspicio è che, dopo il COVID-19, non serva un’invasione aliena per fare il prossimo passo.