Non è mai facile, scrivere articoli personali su una testata giornalistica frequentata da un pubblico enorme come quello di SpazioGames. Scrivere articoli personali significa aprire una porta, e aprire una porta significa in qualche modo rendersi vulnerabili. Per questo motivo, non poteva esserci riflessione più appropriata, per farlo, di questa, dove non sono rimasti fianchi deboli da colpire. O, almeno, non più di quanto siano stati colpiti nell'ultima trentina d'anni.
Per capire cosa intenda dire, però, dovrò raccontarvi una storia – suona quasi solenne, come se non fosse una delle cose che più amo fare, raccontare storie. E, come ogni storia che si rispetti, ve la narrerò partendo dal principio.
Vattene a giocare con le bambine
Il primo videogioco che vidi in vita mia mi spaventò a morte. Avevo a malapena quattro anni e il proverbiale #miocugggino, che aveva dalla sua uno strumento visionario come un personal computer, stava giocando a Doom. Sangue pixelloso e demoni sembravano spuntare da ogni dove, il pericolo era tangibile e gli scenari ben poco vivaci e attraenti, per una bambina di quell'età che osservava lo schermo.
Andò meglio qualche mese dopo, quando sul Commodore 64 le cose si fecero ben più allegre. Lo stesso cugino consentì a me e mio fratello di scoprire Bubble Bobble, insieme a un campionario di giochi variopinti e vivaci, da caricare ciascuno con il proprio nastro. Ero (ovviamente) la più giovane della cricca e non mi accorsi mai, se non molto più tardi, di un'altra cosa: ero anche l'unica fanciulla.
Mentre il mondo cresceva con il Game Boy – che non si chiamava boy mica per caso, ma che guardava a uno specifico target circoscritto a partire dal genere – il Commodore 64 scroccato al cugino gentile venne sostituito da console da battaglia prima, da una Atari XE e dall'originale PlayStation poi. E fu lì che maturò quella consapevolezza sulla quale non mi ero mai interrogata: se alla mia famiglia poco importava – «ecco una PlayStation, giocateci insieme e non litigate» – agli altri faceva strano che mi piacessero i videogiochi. E curiosamente "gli altri" non erano mai i miei coetanei.
Complice il fatto che certi schemi si approprino della mente umana – e no, non il contrario – solo quando si supera una certa età, a nessuno dei miei compagni di scuola delle elementari turbava il fatto che Stefania parlasse con loro di FIFA 99 e Metal Gear Solid. Li turbava ancora meno, poi, che Stefania comprasse le riviste ufficiali e scambiasse con loro i dischi demo, o che si sedesse con loro a parlare di quali demo avesse scoperto e ritenesse da non perdere, o di cosa avesse fatto con quel C4 e quelle Claymore nei corridoi di Shadow Moses. Turbava, invece, una delle mie insegnanti.
E così, quasi venticinque anni dopo, mi ricordo precisamente di un momento di ricreazione in cui, mentre ero intenta a scambiare figurine dei calciatori con i miei compagni di scuola – sì, un'altra delle mie stranezze, giusto? – una delle maestre mi prese per un braccio invitandomi ad alzarmi e mi fece accomodare altrove. Le sue parole, sento ancora la voce precisa, furono «Stefania, vai a giocare con le bambine».
Ricordo ancora nitidamente il senso di disagio. Conoscevo ovviamente tutte le mie compagne e ci parlavo quotidianamente, anche perché da bambina ero un gran chiacchierona, ma in quel momento non dissi niente. Con loro non avevo demo di cui discutere. Easter egg su Metal Gear o Syphon Filter da raccontare. E figuriamoci se avevo figurine dei calciatori da scambiare. Fu la prima volta, in assoluto, in cui pensai che il fatto che ci fossero solo maschietti con cui parlare dei miei hobby significasse «in me c'è qualcosa che non va».
Voglio dire, come poteva non essere così? Avevo visto la solennità e l'urgenza con cui la maestra – la mia maestra preferita, oltretutto – mi aveva sottratta ai miei amichetti, come qualcosa dimenticato fuori posto. I bambini lo capiscono subito, quando gli adulti vogliono dirgli che hanno fatto qualcosa di sbagliato. Ma cosa puoi capire se invece non hai fatto niente di sbagliato?
Si chiama viaggio dell'eroe, mica dell'eroina
Se è vero che la memoria dei bambini è una macchina fotografica dove le cose rimangono incise a vita, è anche vero che non ti soffermi a pensare eccessivamente alle cose. Morale della favola: terminato l'intervallo durante il quale ero stata in qualche modo confinata, messa in punizione, seduta su una sedia di fronte a coetanee alle quali non avevo niente da dire, tornai esattamente a fare quello che avevo sempre fatto – chiacchierare di videogiochi, figurine e tutte quelle altre cose strane che non si addicono a una signorina, perché a quanto pare non sappiamo bene chi, non sappiamo bene quando e non sappiamo bene perché ha sancito così.
La sintesi, insomma, è presto fatta: a quanto avevo capito i miei hobby erano strani per una bambina, ma non me ne fregò abbastanza – ed evviva la testardaggine – da pormi il problema e fare qualcosa per cambiarli. Perché avrei dovuto? A me piacevano quelli. Il tarlo di fare qualcosa di sbagliato rimase a lungo, però, e anche i contenuti dei giochi a cui giocavo puntavano in quella direzione.
Il mondo dei videogame era pieno di Duke Nukem. Gabe Logan era preso dal salvare il mondo, Crash Bandicoot doveva farlo ciclicamente a ogni ritorno del dottor Cortex, i mondi meravigliosi (e pericolosi) di Final Fantasy erano visti dagli occhi di Cloud, Squall e Gidan, e perfino Solid Snake era indiscutibilmente un fanciullo.
C'era l'eccezione di Lara Croft, certo, da analizzare nel contesto: l'eroina di Eidos diede vita al cosiddetto Lara Phenomenon, dove a reggere la storia era una protagonista femminile, che aveva però anche la doppia accezione di pin-up. In sintesi, Lara era una donna indipendente, esplosiva e bellissima, che però non venne immaginata per dare una rappresentazione a quelle strane come Stefania, ma per essere una testimonial che avesse un appeal sul giocatore più classico. Immaginate quando vedete una splendida modella su un cartellone pubblicitario e vi ci cade l'occhio: il concetto è lo stesso.
Per farla breve, quindi, il videogioco non era ancora abbastanza maturo da provare a proporre delle protagoniste che fossero qualcosa di più di (carismatici?) corpi ammiccanti, mentre gli eroi nei loro viaggi erano puntualmente accompagnati da personaggi femminili, questo sì, che erano sempre delle comprimarie. Se alcuni proponevano il sempreverde modello della damigella in pericolo da romanzo cavalleresco – un template narrativo ben più antico del videogioco – altri sceglievano quasi uno schema à la James Bond, con l'eroe colonna portante che nella sua avventura intrecciava la sua vicenda a quella di un'aiutante, non necessariamente in modo romantico. Pensate a Meryl Silverburgh (Metal Gear Solid), pensate a Lian Xing (Syphon Filter), pensate a Rinoa, Garnet, Aerith, Tifa (Final Fantasy), pensate perfino a Coco (Crash Bandicoot): protagonista giocabile maschile e personaggio femminile di spalla.
Quello che leggiamo, guardiamo, viviamo, giochiamo quando siamo particolarmente giovani – ma anche dopo – ha un effetto sulla nostra forma mentis. Sicuramente, lo ebbe sulla mia: il template eroe + comprimaria divenne così assodato, tra tutte le esperienze che giocai da bambina, che quando cominciai a scrivere un romanzo pensai di volere raccontare la storia di una protagonista. Subito dopo, però, mi dissi che «non è così che si fa», e che mi serviva un protagonista maschile, a cui affiancare poi una spalla femminile. Mi sembrava scontato che fosse il modo giusto di fare le cose, perché le avevo viste sempre venire fatte così. E, ancora una volta, l'industria dei videogiochi che tanto amavo era troppo immatura per dirmi l'opposto.
"Le donne non vendono"
Possiamo fare un balzo in tempi molto più recenti, perché la situazione è rimasta a lungo stagnante e piuttosto uguale a se stessa. Una giovane software house francese chiamata Dontnod Entertainment sta lavorando a un videogioco. Un videogioco che ha un grave colpa: ha una protagonista femminile. E questo dettaglio assurdo ha creato una serie di scombinamenti che il direttore creativo Jean-Maxime Moris non nascose.
Quando parlò ai microfoni di Penny Arcade, l'autore spiegò che il gioco venne rifiutato da alcuni publisher non per difetti di game design, non perché mosso da un'idea poco interessante, non perché graficamente non all'altezza o qualsiasi altro possibile difetto possa venirvi in mente, no: venne rimbalzato perché «non puoi avere una protagonista in un videogioco.»
Nelle parole di Moris:
Ci siamo trovati di fronte ad alcune compagnie che ci hanno detto 'beh, noi non vogliamo pubblicarlo, perché non avrà successo. Non puoi avere un personaggio femminile nei videogiochi, devono esserci personaggi maschili, è tanto semplice.'
Vorrei dire che si sia trattato di un caso isolato, ma non lo è affatto: pensate al vaso di Pandora recentemente scoperchiato in casa Ubisoft, con una strenua lotta dei creativi contro il management per proporre personaggi come Kassandra, o che ha portato Aya a stare al suo posto per fare spazio a Bayek, in Assassin's Creed Origins. Il sunto, riassunto in modo brutale ma chiaro dalla compagnia francese, è stato che le donne non vendono.
E qui entriamo in una situazione da è nato prima l'uovo o la gallina: avere tante protagoniste femminili, vedersi rappresentate, potrebbe avvicinare nuove fette di utenza femminile al medium videogioco. Ma sono un publisher, e voglio investire sul sicuro: se avere una protagonista mi fa vendere di meno, non la voglio. Se non ho una protagonista, potrei non attirare una potenziale parte di utenza femminile. Se non attiro una potenziale parte di utenza femminile, non avrò mai numeri di mercato tali da "giustificare" economicamente l'inclusione di un'eroina rispetto a un eroe.
C'è anche un'altra sfaccettatura del problema: in alcuni casi, lo "sforzo" è stato fatto, ma è stato fatto tenendo sempre rigorosamente a mente che a giocare sarebbe stato prevalentemente un pubblico maschile. Così, se Lara Croft nasceva tanto tenace quanto procace, nel reboot Tomb Raider del 2013 Crystal Dynamics inciampava per i motivi tutti sbagliati: prima proponeva una scena che sembrava alludere a uno stupro e se la rimangiava, scusandosi (scusandosi? Davvero? Di cosa? Nei videogiochi vediamo violenza di ogni tipo e non si può discutere di un tema importante come quella sessuale perché parlarne è offensivo? OFFENSIVO?), dopo spiegava di aver messo Lara in mezzo a situazioni complesse per fare in modo che il giocatore «senta di volersi prendere cura di lei.»
Cosa diavolo significa? Quando gioco a Tomb Raider non voglio prendermi cura di Lara. Non voglio assisterla, compatirla, tenerla al sicuro e proteggerla come disse Crystal Dynamics: non voglio giocare in seconda persona, io voglio essere Lara Croft, non il cavaliere senza macchia che la protegge dai guai in cui si caccia, grazie all'interazione. Questa sfumatura, per quanto sottile sembri, va a cozzare con il senso di immedesimazione del videogioco in sé – quello della proiezione, per cui noi diventiamo un tutt'uno tra la nostra identità e quella del nostro protagonista, quando siamo nei confini del cerchio magico dell'attività ludica.
Qual è la via d'uscita, se perfino un videogioco che ha nell'unicità della sua eroina il suo selling point, corre ai ripari precisando che «sì, comunque non è che dobbiate essere Lara Croft, eh», come se questo potesse essere in qualche modo un'offesa o una mancanza verso un giocatore? Quale, se poi la protagonista di Remember Me causa polemiche anche perché ha in scena una relazione con un uomo e i potenziali publisher ti rispondono che «non puoi costringere il giocatore a baciare un altro uomo in un gioco, sarà imbarazzante»? La via d'uscita è prendersi dei rischi. Maturare. Ed è una cosa che i videogiochi hanno finalmente cominciato a fare.
I tempi sono maturi, il videogioco quasi
La storia di Assassin's Creed Odyssey è pensata con Kassandra come personaggio canonico. Due terzi dei giocatori l'hanno vissuta vestendo i panni di Alexios. Immaginate, dal punto di vista di un publisher, quanto enorme e poco remunerativo rischi di essere lo sforzo di proporre un'eroina, per di più di renderla centrale, se viene comunque preferita una controparte adattata, purché rifletta il sesso della maggior parte degli utenti. Per questo, parlavo di prendersi dei rischi. Investire è sempre un rischio, farlo su qualcosa che può essere considerando controverso, di difficile vendita, lo è ulteriormente.
Questa estate, in assenza dell'E3 e della Gamescom tradizionali, ci siamo trovati di fronte a numerosi eventi digitali per presentazioni di giochi più o meno attesi. I miei colleghi di SpazioGames sono testimoni del momento in cui, a metà tra stupore e gioia, ho sottolineato la quantità titanica di protagoniste femminili che stavano passando nei diversi trailer che si inanellavano di evento in evento. Ma perché esserne contenta? Non stai forse facendo una discriminazione al contrario – ossia, se tu sei legittimata a essere felice di giocare con una donna, perché un giocatore non dovrebbe essere felice di giocare nei panni di un uomo e scontento dell'opposto? È qui che rientra il discorso della forma mentis.
Quando sono cresciuta con i videogiochi, non ho mai dubitato che quello fosse il modo giusto di fare le cose. Le storie che viviamo, in qualche modo, ci plasmano. Immaginate una generazione cresciuta con figure di riferimento da comprimarie, da spalla, da oggetto del desiderio o da salvare da un pericolo – che da sole non si salvano, per carità del cielo, che arrivi qualcuno armato di tutto punto e i cui soli addominali pesano quanto me intera dopo un acquazzone a tirarle fuori dai pasticci, povere ingenue. Ecco, l'avete immaginato? Provateci con impegno, perché non è per niente facile mettersi questi panni e capire cosa intenda dirvi.
Adesso che ci avete passato sopra qualche minuto, immaginate di arrivare al punto attuale della vostra industria preferita. Square Enix si prende un rischio e tira fuori una trilogia (a tratti discutibile, ma ci ha provato) con protagonista soprattutto una donna soldato, Lightning. Lara Croft si umanizza un passo alla volta e io non voglio prendermene cura – che cavolo – io voglio essere badass come lo è lei. I genitori di Alan Wake e Max Payne tirano fuori uno dei migliori giochi della loro carriera e lo fanno dicendovi che per viverlo dovete vestire i panni di Jesse Faden. Non volete giocare come una donna? Ah, beh, è un problema vostro, non di Remedy né di 505 Games.
Una saga tutta adrenalina e ipertrofia come Gears of War si guarda intorno e decide che anche giocare come Kait Diaz non è per niente male – e lo fa bene. Sapete che c'è? Che la protagonista di The Walking Dead è Clementine. C'è che realizziamo un gioco che mescola psichiatria e mitologia norrena, e mentre il solo risuonare di "norreno" vi fa venire in mente possenti figure barbute armate di ascia, voi sarete Senua. C'è che sto investendo su un open world distopico tra robot, cavalcate e frecce da scoccare, e il personaggio che ho scelto per farne una nuova icona del mondo PlayStation è una ragazza dai capelli rossi e gli occhi chiari che si chiama Aloy. C'è che perfino la Principessa Peach, la più iconica e adorabile delle damigelle in pericolo, si è scassata di Mario e Bowser che se la litigano e li pianta in asso – 'sti perdigiorno, che quarant'anni dopo ancora non hanno capito che devono lasciarmi in pace.
C'è che il gioco più chiacchierato del 2020, The Last of Us - Part II, non solo fa discutere prima della sua uscita perché passa dal farvi giocare come il roccioso Joel ai panni della letale ma esile Ellie – peraltro omosessuale, e qui andiamo proprio in scivolata e piede a martello a rovesciare il vaso di cristallo dei pregiudizi – ma lo fa ancora di più dopo. Lo fa perché racconta una storia in cui i personaggi maschili sono mezzi narrativi, sono personaggi-spalla, comprimari, e non eroi che compiono viaggi. Il viaggio lo compiono due donne, ugualmente lontane dalle pin-up dei tempi del Lara Phenomenon, che fanno cadere un altro velo: quello della femminilità come delicatezza, come compostezza, come fragilità. Un altro inquadramento che va avanti dall'alba dei tempi e che certamente non possiamo addossare meramente al videogioco.
Ellie nella sua insospettabile forza brutale e Abigail Anderson nella sua ancora più insospettabile fragilità, nascosta sotto due spalle possenti, sono due protagoniste femminili che prendono tutte le etichette e i pre-concetti sulle eroine e ne fanno un sol boccone – quasi come quel burrito in una scena del gioco.
I publisher non vogliono investire su giochi con una protagonista? No, no, investiamoci, invece, e pure parecchio, si sarà detta Sony. Se lo fanno, deve essere una bellezza da copertina? No, chi se ne frega. Bisogna vendere con l'offerta ludica, non con uno sguardo ammiccante accompagnato da un corpo curvilineo nella boxart. Con femminile intendete aggraziata, composta, in ordine ? No, noi no: questa è una storia di violenza, sangue e strascichi, per la grazia e la seta non c'è spazio, è pieno di jeans strappati da coltellate e camicie impastate di morte e decomposizione – la violenza, il sangue e gli strascichi sono terrificanti quando prendono il controllo di te come il Cordyceps, e che tu sia uomo o donna non cambia.
Pensate alla differenza, ai passi in avanti fatti, rispetto al momento in cui quella bambina pensò di voler raccontare la storia di una protagonista ma mollò la presa perché aveva imparato dal suo medium preferito che «non è così che si fa».
Pensate anche a quanti ancora sarà necessario farne, per fare in modo che non si storca più il naso di fronte a casi come quelli di Nilin, una protagonista femminile eterosessuale che si riteneva mettesse a disagio il giocatore, se avesse mostrato interesse verso gli uomini. «Se pensate una cosa del genere» commentò all'epoca il creative director di Remember Me, «allora il medium non maturerà mai. C'è un certo livello di coinvolgimento che bisogna raggiungere, ma non è che il tuo orientamento sessuale venga messo in discussione dal giocare un videogioco. Non so, è una questione assurda.»
"Avrete un posto al mio tavolo"
Così, un passetto alla volta, siamo arrivati a una generosa quantità di protagoniste, al buttarci faticosamente alle spalle l'idea delle comprimarie – e la cosa, manco a dirlo, ha generato e genera una quantità di polemiche fuori scala da parte di chi in qualche modo vede lesa la sua (maestà?) identità dal dover vestire i panni di una fanciulla. Non ricordo nemmeno più, perché persi il conto, la quantità di commenti che prima dell'uscita gridavano allo scandalo per Kait in Gears 5, o sottolineavano che «non voglio giocare come una femmina, si potrà giocare come Joel?» per The Last of Us - Part II.
Va bene così, i cambiamenti sono sempre accompagnati da resistenze, a quanto pare perfino quando riguardano personaggi immaginari protagonisti di storie immaginarie, distinti da genitali immaginari, che hanno però effetti tangibili, perché semplicemente li hanno le storie.
Diceva Christopher Vogler, formulatore della teoria del Viaggio dell'Eroe – a sua volta ispirata da L'eroe dai mille volti di Joseph Campbell:
Il mondo, mai come oggi, ha bisogno delle vostre storie, perché hanno capacità di guarigione. Le storie hanno la capacità di dare alle persone un contesto, un punto di riferimento, qualcosa a cui comparare le loro vite. A volte, delle risposte ai misteri dell'esistenza. Insomma, narratori, andate là fuori a fare il vostro lavoro da sciamani — perché il mondo ha bisogno di voi.
Ed era il 2015 quando Ashley Johnson, doppiatrice di Ellie nella serie The Last of Us, portò a casa un BAFTA Award per la miglior interpretazione, legata al DLC Left Behind. Salendo sul palco, l'attrice spiegò con parole semplici e immediate perché l'avvento di personaggi come la giovane di Naughty Dog immune alla pandemia sia così importante, anche per i giocatori di domani:
Mi sento così fortunata per il fatto di aver potuto interpretare Ellie. Sono orgogliosa di aver interpretato un personaggio femminile forte, che non è sessualizzato, non è una damigella in pericolo e non è nemmeno l'opposto di tutto questo. Ellie è vulnerabile, gentile, leale. È una di quelle ragazze che probabilmente a scuola si sarebbero sentite fuori posto [indica se stessa, ndr]. A volte ha il diritto di avere paura. [...] Questo premio è per i "maschiacci", per i "disadattati", per gli "strambi", per gli emarginati e tutti quelli che non trovano un loro posto: ne avrete sempre uno alla mia tavola. Lunga vita e prosperità.
Mettete insieme le parole di Vogler sull'importanza delle storie come confronto, come unità di misura, come ispirazione, e quelle di Johnson che sottolinea l'accento posto da Naughty Dog su una rappresentazione femminile lontana dagli stereotipi (sì, anche quelli all'estremo opposto della damigella in pericolo, che "svuotano" i personaggi, rendendoli tutto meno che donne e quindi tutto meno che umani), per apprezzare i titanici passi in avanti fatti.
Per fortuna, che li abbiamo fatti. Grazie al cielo, che c'è Ellie – e grazie al cielo, pure di più, che c'è Abby. Ci saranno più videogiocatrici, in futuro, che scopriranno che hanno un loro posto nel videogioco, che non hanno niente di strano per il fatto di giocare ai videogiochi, che non devono andare «a giocare con le bambine»: quando ne dubiteranno – perché troveranno qualcuno che lo metterà in dubbio, ovvio che lo troveranno – finalmente il medium sarà lì a rispondere.
Dirà loro che questo spazio è anche tuo, queste storie sono anche tue, parlano di te e guardano anche a te, perché ci sono Ellie, Abby, Jesse, Senua, Nilin, Clementine, Aloy e tutte le loro sorelle. Non sei un'eccezione, ma parte del gioco e perfino delle storie che racconta. E quando qualcuno farà intendere alle giocatrici di domani che hanno qualcosa di sbagliato, sarà finalmente evidente che l'unica cosa sbagliata sarà stata prestare orecchio anche solo per un secondo a chi aveva da dirgli una tale fesseria.
Se volete acquistare un recente videogioco da non perdere con protagoniste femminili, vi raccomandiamo The Last of Us - Part II, Gears 5, Hellblade: Senua's Sacrifice e Control.