Una delle definizioni che sentiamo venire usate più spesso, per il videogioco, è quella che lo vede come una fuga dalla realtà. Parliamo di una sorta di porta aperta verso l'escapismo, con l'esperienza di gioco che deve astrarci dalla realtà, farci vestire i panni di qualcun altro per qualche ora, e poi restituirci al mondo reale – possibilmente portando con noi qualcosa, che sia l'intrattenimento di cui abbiamo goduto, il significato che abbiamo tratto dalla vicenda o quello che abbiamo appreso sulle nostre abilità misurandoci con il gioco.
Il videogame, insomma, è visto come una forma di evasione in cui essere qualcun altro per un periodo di tempo che siamo noi a decidere, chiamati a compiere imprese che nella vita da questa parte dello schermo non ci sarebbero possibile. Qualche mese fa, ad esempio, il nostro Paolo Sirio vi raccontò del momento in cui si rese conto di aver fatto, nella dimensione videoludica, qualcosa che nella realtà semplicemente non riuscirebbe, perché lo troverebbe molto spaventoso.
Sappiamo, in sintesi, che i videogiochi ci fanno misurare con eroi che hanno caratteristiche specifiche (che vedremo tra un attimo), che possono ispirarci perché sono in qualche modo migliori di noi: affrontano viaggi dai quali escono cresciuti, che sono significativi. Ma vi siete mai chiesti se, invece, non sia così? Vi siete mai domandati se nei videogiochi, anziché l'astrazione, la fuga della realtà, l'immedesimazione in qualcuno diverso da noi, in realtà ci attragga invece la ricerca della parte imperfetta di noi stessi?
La voglia di essere qualcun altro
Avevamo già visto, qualche tempo fa, in che modo i videogiochi ci portino dentro i loro mondi: come spiegato da James Paul Gee in What video games can teach us about learning and literature (McMillan, 2003), quando viviamo un'esperienza di gioco ci sono tre livelli che si sovrappongono.
Come riassunto dal professor Stefano Triberti e del professor Luca Argenton in Psicologia dei Videogiochi (Apogeo, 2013), quando giochiamo ai videogiochi:
[...] l'esperienza del mondo virtuale tramite un personaggio coinvolge innanzitutto l'identità reale (quella della persona seduta davanti al dispositivo) e l'identità virtuale (le caratteristiche del personaggio che si muove nel videogioco); tra di esse, sussiste una terza identità detta proiettiva che consiste delle rappresentazioni, dei significati e dei caratteri selezionati che dall'identità reale vengono trasportati in quella fittizia.
In sintesi, quando giochiamo a un videogioco si crea un'identità di mezzo che coinvolge sia la persona giocante, sia le caratteristiche che sappiamo essere proprie del nostro alter ego sullo schermo. Quando gioco a The Last of Us - Part II non sono solo Ellie e non sono solo Stefania: sono una Ellie influenzata da una serie di caratteri e significati che Stefania trasla dalla sua persona a quella della protagonista del gioco.
Questo significa che con i videogiochi noi abbiamo davvero la possibilità di essere, per un po', qualcun altro – in modo sano, si intende, perché come in ogni attività ludica siamo noi a decidere quando interromperla e quando spezzare "la proiezione" che ci aveva resi un po' Ellie e un po' Stefania.
L'esempio che ho voluto citare non è affatto casuale perché, senza voler fare spoiler a chi non ha giocato il titolo per PlayStation 4, si tratta di uno dei casi in cui la ricerca di qualcuno di cui vestire i panni in un videogioco si allontana dal paradigma classico, per consentirci – invece – di metterci faccia a faccia non con la fuga dalla realtà, ma con delle verità sul nostro essere imperfetti. Un modo per farci sentire più umani e più compresi, e il tutto attraverso i videogiochi.
La peculiarità dell'eroe: eccellere in qualcosa
Quando i videogiochi hanno cominciato a strizzare sempre di più l'occhio alla narrazione, hanno ereditato soprattutto gli schemi del cinema – un'arte che è ugualmente fatta di motion pictures, immagini che si muovono, e che essendo più "anziana" aveva trovato gli stilemi della sua dimensione narrativa.
Stilemi che il cinema ha mutuato a sua volta dal modo atavico che abbiamo di raccontare delle storie, che come insegna Joseph Campbell nel suo L'eroe dei mille volti, poi ripreso anche da Chris Vogler nel suo famoso Viaggio dell'eroe, hanno sempre delle caratteristiche in comune che diamo alla nostra storia in quanto esseri umani, al di là del nostro background e dell'angolo di mondo da cui quella stessa storia provenga.
Ecco, una delle caratteristiche chiave che di solito animano la creazione del protagonista è che quel protagonista deve eccellere in qualcosa. Una caratteristica di questo tipo permette infatti al nostro personaggio di "emergere", di essere riconoscibile, di portare qualcosa di più alla storia. Solid Snake, ad esempio, è un uomo-ombra capace di infiltrarsi ovunque e di sconfiggere da solo un esercito; Geralt di Rivia è un witcher letale sopravvissuto alle prove per diventarlo; il Dovahkiin è, essenzialmente, il Sangue di Drago; Squall Leonhart è indiscutibilmente il più dotato dei SeeD del Garden di Balamb, come dimostra il fatto che divenga in breve tempo comandante; l'Agente 47 è il più infallibile dei sicari dell'Agenzia e così via.
Vestire i panni di questi personaggi ci permette di vestirci anche delle loro doti significative. Per lungo tempo i videogiochi hanno scelto questo approccio: un protagonista che sia un'eccellenza, che per quanto si trovi di fronte a numerose difficoltà che lo mettono alla prova, alla fine, come da manuale, faccia emergere e sopravvivere la parte migliore di sé.
Diventando Snake in Metal Gear Solid, Squall in Final Fantasy VIII, Geralt in The Witcher la nostra proiezione ci porta a essere significativi in quel mondo di gioco, eccellenti tanto quanto le nostre controparti ludiche. Si tratta dell'escapismo di cui parlavamo in apertura: nella vita reale, nessuno di noi è Snake, nessuno di noi è Squall e, ancora di meno (sigh), nessuno di noi è Geralt.
C'è però un'altra caratteristica chiave che si può dare al proprio protagonista, al di là del farlo eccellere in qualcosa in cui deve essere davvero molto bravo, al punto da farne un suo tratto distintivo: per farlo emergere ed entrare al centro delle attenzioni del pubblico, infatti, possiamo dargli un background particolare.
Si tratta del caso in cui, ad esempio, il nostro protagonista ha avuto esperienze estreme che magari lo hanno fatto sopravvivere per miracolo; potrebbe essere un trauma vissuto e (mal)superato, una perdita ancora da elaborare: si tratta di pietre d'inciampo esistenziali a che normalmente permettono di empatizzare con il protagonista e andare in sintonia con lui, ma che hanno comunque il fine ultimo, nel paradigma classico, di evidenziare la riuscita del suo percorso. L'eroe affronterà questa storia traendone qualcosa nonostante i suoi limiti.
Cosa succede, allora, quando questi personaggi che hanno trascorsi, traumi da affrontare, anziché alla perfezione danno spazio, e tanto, all'imperfezione? Quando questi protagonisti diventano un po' meno personaggi e un po' più persone?
Personaggi imperfetti e porte aperte
Da qualche tempo, facendo propria una maggior libertà narrativa, i videogiochi stanno dando sempre più spazio al protagonista imperfetto – che conclude il suo viaggio, a volte anche tragicamente, ma lo fa non tanto per le virtù insite in se stesso, ma nonostante se stesso. E mi sono accorta che è una cosa che cerco di continuo nelle opere mediali, ancora meglio nel videogioco.
Gli eroi perfetti e virtuosi sono di ispirazione. Gli eroi imperfetti e tutti sbagliati sono di comprensione. Proviamo a pensare di nuovo al caso di Ellie, e non solo lei, in The Last of Us - Part II, e di nuovo senza spoiler: nel corso del suo viaggio, la giovane protagonista di Naughty Dog inanella un scelta sbagliata dietro l'altra. Di perfetto non ha niente – non ha talmente niente, che la software house si è anche presa la briga di sistemare l'aspetto fisico di un po' tutti i personaggi per renderli anche in questo più realistici, fosse per una piccola gobba sul naso, per un sopracciglio spettinato e non curato o per un sorriso un po' storto.
Mi sono resa conto che nei videogiochi cerchiamo la fuga, è vero, ma cerchiamo anche e soprattutto uno specchio. Si tratta di una via narrativa che ha tantissimo potenziale, perché se già empatizziamo con personaggi che hanno trascorsi forti, o peculiarità uniche, lo facciamo ancora di più e ancora meglio con quelli che non mettono in mostra il lato bello di noi stessi, quello che dobbiamo valorizzare, ma che ci fanno sentire capiti nei nostri difetti e nelle nostre imperfezioni. Un approccio che il videogioco, sviluppando la sua maturità narrativa, sta abbracciando e al quale mi sono accorta di guardare con sempre maggior interesse.
Nei videogiochi cercavo evasione, una realtà-altra in cui immergermi, ma da qualche tempo mi sono resa conto di cercare anche rappresentazione di tutto quello che abbiamo che a noi stessi non piace, che riteniamo sbagliato o inadeguato – di quello che ci rende umani e non icone. Se la proiezione in un eroe che rientrasse in uno schema di bianco-nero già di suo permetteva di immedesimarsi, quella in personaggi grigi e sfaccettati innesca una vera e propria risonanza.
E, al di là delle preferenze personali, è anche sintomo di maturazione del mezzo di comunicazione: eroi e antagonisti dicotomici esprimono di solito una morale manifesta, quasi sulla scia delle favole tradizionali; eroi e antagonisti grigi, sfumati, lasciano aperta la porta del messaggio e dell'interpretazione. Io so chiaramente che Solid Snake ha fatto la cosa giusta rispetto a Liquid Snake, ma so chiaramente che Joel ha fatto la cosa giusta? Che l'ha fatta Ellie? L'ha fatta Abby?
Ognuno potrebbe dare la propria risposta, ed è proprio qui che il videogioco anziché una fuga diventa uno specchio: un modo interattivo, coinvolgente e unico di guardare a se stessi, e farlo sia nelle incertezze di personaggi che imparano qualcosa non grazie a se stessi ma nonostante se stessi, sia nelle porte lasciate aperte dai messaggi che incarnano.
Quello che riesci a trarre da ciò che un autore ha provato a dirti senza "spiegoni" – veicolandolo in un personaggio che magari proprio come te non sa che cosa fare, non sa se sia il buono o il cattivo, o sa di essere nel torto ma le emozioni sono più forti della volontà e lo trascinano via – parte prima di tutto da te, è un significativo che trovi in te. A volte è qualcosa che avevi bisogno di dirti.
Mi sono fatta un'idea di cosa succeda nella testa di Jesse Faden in Control e di cosa succeda nella Oldest House, che è tutta mia. So cosa penso di arcobaleni che si ribaltano ancora e ancora, col blu o senza, in Death Stranding. Sono le stesse idee che avevano pensato rispettivamente Sam Lake e Hideo Kojima? Non ne ho idea. Ma il viaggio l'ho vissuto io. È il mio. Rispecchia me stessa.
Espressione
Alla fine dei conti, mi raccontavo che nei videogiochi cercavo astrazione e invece ero a caccia di espressione. Me ne sono resa conto quando i videogiochi hanno abbracciato sempre di più la loro età adulta, anche nelle esperienze story-driven lineari, per lasciare che sia il giocatore a completare con se stesso, con la sua proiezione, quella pennellata volutamente lasciata bianca sulla tela.
L'identità del giocatore è ovunque, non solo nei titoli in cui ci si crea il proprio avatar personalizzato e magarli gli si dà il proprio nome e il proprio aspetto fisico ideale. Mi somigliano molto di più Ellie e Senua di quanto ci sia mai riuscita la mia stessa Tahva in The Elder Scrolls.
Bibliografia
- Psicologia dei videogiochi: come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento, Stefano Triberti, Luca Argenton – 2013, Maggioli Editore
- What video games can teach us about learning and literature, James Paul Gee – 2003, McMillan
- L'eroe dai mille volti, Joseph Campbell - 2016, Lindau
- Il Viaggio dell'Eroe, Chris Vogler - 2010, Dino Audino Editore
Se volete confrontarvi con un po' di personaggi imperfetti e di vicende di libera interpretazione vi raccomandiamo di recuperare giochi come The Last of Us - Parte II ed Hellblade: Senua's Sacrifice.