Quando ho terminato di giocare The Forgotten City, avendo ancora qualche giorno di ferie, mi sono buttata su 12 Minutes. L'ho fatto a qualche mese dalle insidie e dalla brillantezza di Returnal e, proprio in questi giorni, finalmente ho potuto mettere le mani su Deathloop, recensito dal nostro Domenico Musicò.
Mentre vestivo i panni del povero Colt chiamato a «morire, morire e morire ancora», un po' come recita lo slogan del nuovo lavoro di Arkane Studios, mi sono accorta che il 2021 è l'anno del loop. Il mercato è stato letteralmente invaso da titoli che riprendono il concetto del tempo ciclico e lo traspongono in gameplay, come fece ai tempi un The Legend of Zelda: Majora's Mask o come ci siamo sentiti nel corridoio orrorifico di P.T. – o anche un po' come ci siamo sentiti nei tentativi di fuga di Zagreus in Hades, destinati a ripartire sempre dallo stesso punto, ancora, ancora e ancora.
Ma perché i videogiochi hanno trovato così insistentemente casa in un eterno ritorno ludico?
Eterni ritorni all'uguale: cultura e videogioco
Non staremo qui a filosofeggiare di Friedrich Nietzsche e della sua concezione di "eterno ritorno", ma è interessante notare come fin dall'antichità ci sia stata negli umani la convinzione che in qualche modo il tempo sia ciclico.
È una concezione che sottolineavano soprattutto alcune religioni e testi sacri – pensate ad esempio all'idea di "ruota della vita" come reincarnazione in cui si accumula sufficiente conoscenza fino ad ascendere alla salvezza.
Si tratta, certo, di una concezione in contrasto invece con la cultura cristiana, che sappiamo ritenere la vita la semplice tappa in un percorso molto più lungo dove non sono contemplate le ripetizioni. Forse, anche per questo, su larga parte del pubblico occidentale, che ha radici prevalentemente cristiane, l'idea del loop narrativo riesce a vestirsi di un certo fascino.
Il loop è usato come strumento narrativo prevalentemente dallo scorso secolo e ha terreno fertile soprattutto in Giappone, dove sono numerose le opere – soprattutto nel panorama anime – dove i cicli del tempo si fanno beffe degli umani.
C'è però un aspetto molto interessante che nei videogiochi viene affrontato in merito ai cicli di eterno ritorno, ed è la potenzialità dell'azione umana. Di solito, all'interno dei titoli i cicli si ripetono fino a quando non succede qualcosa di specifico – ed è il giocatore a dover compiere quel "qualcosa di specifico" per invertire la clessidra e guadagnare un po' di tempo prima che il riavvio avvenga.
E c'è anche un'altra concezione interessante comune all'eterno ritorno inteso dai videogiochi: a un certo punto, il protagonista sa di essere in un loop e prova a piegare questa cosa a suo vantaggio.
Again, again, again, again
Il vostro protagonista di The Forgotten City non solo sa di essere finito in un loop, ma sa precisamente anche come romperlo e farlo ripartire. Il malcapitato marito di 12 Minutes, dopo aver vissuto con panico la consapevolezza della sua condizione, addirittura in alcuni momenti invoca l'interruzione del loop e il riavvio, per poter fare tentativi diversi che lo portino a risolvere la situazione.
Colt e Julianna, in Deathloop, diventano così consapevoli del loop in cui sono incastrati che la seconda ci scherza sbeffeggiando apertamente il primo mentre è alle prese con i suoi infiniti risvegli su una spiaggia dove smaltiva una sbornia.
In sintesi, insomma, dal momento che il giocatore sa di vivere un loop, sempre più spesso gli sviluppatori scelgono di condividere questa conoscenza con il protagonista dell'esperienza.
Questo crea una sovrapposizione quasi perfetta tra giocatore e personaggio.
Molti videogiochi sono costruiti su uno scheletro da trial-and-error: fin dai tempi delle origini, al giocatore poteva venire richiesto di trovare la soluzione a un problema e, nel farlo, falliva più e più volte, fino a comprendere come incastrare i pezzi – che fossero salti, colpi da dare in sequenza o chissà cos'altro.
In sintesi, quindi, di tentativo in tentativo il giocatore maturava la conoscenza che gli permetteva di proseguire, e lo faceva in pratica accumulando morti e fallimenti. Il che è esattamente quello che succede nei giochi in loop.
In un certo senso, potremmo dire che l'idea e la tendenza di creare videogiochi concentrati su un loop, di cui il protagonista è consapevole, abbiano portato in una dimensione intradiegetica la maturazione delle conoscenze del giocatore, retaggio delle strutture trial-and-error. Prima ero io a imparare come procedere, ora è direttamente il mio protagonista, che sa cosa gli sta accadendo intorno e non è semplicemente ostaggio di un giocatore che punta all'onniscienza a sue spese.
Questo consente, se ci pensiamo, anche una proiezione più profonda, una migliore sovrapposizione, tra giocatore e avatar dall'altra parte dello schermo: se io so di dover rompere un loop, e anche il mio protagonista lo sa, è più facile entrare in sintonia ed empatizzare con il personaggio di cui lo sviluppatore sta cercando di farci vestire i panni – perché le sue frustrazioni, i suoi dubbi, le sue idee e le sue incertezze sono esattamente i miei.
Videogioco e reiterazione
Se ci pensiamo, dopotutto, i videogiochi sono fondati sulla reiterazione e sulla ciclicità. Spesso ci troviamo a parlare del concetto di ripetitività nel design dei videogiochi, ma potremmo definirla un difetto solo per quanto concerne la gestione dei ritmi.
Se, ad esempio, un gioco come Skyrim non fosse bravo a concedere varietà, spaziando con intervalli intelligenti e regolari tra dungeon labirintici, villaggi da scoprire e draghi da abbattere, sentiremmo molto di più che essenzialmente non stiamo facendo altro che camminare e tenerci pronti a menare fendenti di spada.
La realtà è che, in sede di design, un videogioco si progetta proprio a partire dalla base di un loop di azioni che si ripetono. In termini tecnici si chiama core gameplay loop ed è la struttura che gli sviluppatori definiscono per identificare proprio le azioni chiave alla base dell'esperienza del gioco, quelle che si ripeteranno ancora, ancora e ancora.
Nintendo, ad esempio, è la signora nel fare design di videogiochi valorizzando i core gameplay loop: se tra le azioni di un gioco è previsto il salto, un gioco Nintendo ti fa testare il salto. Poi te lo fa testare in modo più difficile, poi ancora più difficile. Infine, forte della genialità dei suoi level designer, ecco che in qualche modo ribalta la prospettiva e ti fa notare che il salto può avere un'altra funzione – che sia premere un pulsante, afferrare un nemico in volo a cui appendersi – ma questo non cambia che tu stia sempre e solo saltando.
Un videogioco è, in pratica, l'ottimizzazione di gesti e situazioni cicliche. In altre parole, è l'ottimizzazione curata e consapevole di un loop identificato in sede di design. Un giocatore di Final Fantasy non farà altro che gironzolare e combattere per fare level up, un giocatore di Metal Gear si dividerà tra camminare di soppiatto e sparare, uno di Super Mario saltellerà o eventualmente sparerà palle di fuoco per superare i livelli.
Il lato curioso è che se prima il loop si limitava a mostrarsi lato design, il 2021 ci ha dimostrato un'industria dei videogiochi sempre più vogliosa di coinvolgere il loop sul lato narrativo, come a togliere la barriera tra progettazione e prodotto finale. E questo apre la porta anche a un'altra riflessione: il concetto di game over.
C'erano una volta i game over
Abbiamo già detto che i videogiocatori più navigati sono abituati a destreggiarsi tra tentativi di perfezionarsi, fino a raggiungere l'obiettivo prefissato in modo sempre più impeccabile. Quando non ci si riesce, di solito si sbatte il muso su una schermata di game over.
È un'icona del mondo videoludico e una sorta di motivante: il "Sei Morto" delle opere di Hidetaka Miyazaki ha minato l'orgoglio di giusto qualche milione di persone ed è una spinta a riprovare, ottimizzarsi. Ripetere, ma facendo meglio, perché nel nuovo tentativo fallito sicuramente si sarà portata a casa qualche nuova consapevolezza.
Ora, ad esempio, so che i cacciatori ostili di Bloodborne sono più veloci di me – è stupido continuare ad affrontarli in velocità e a testa bassa, devo essere lenta, chirurgica e attendista. So che non posso davvero raggiungere quella sporgenza lontana in Super Mario e magari eviterò di finire di nuovo nello strapiombo, provandoci. O magari so che – no, non ho il tempo di superare l'intero corridoio dell'Arsenal Gear in Metal Gear Solid 2 prima che quella sentinella si volti.
Prima erano consapevolezze che maturava il giocatore. Raiden non sa niente del precedente tentativo di superare le guardie, con le pudenda in mostra, fallito miseramente, ma io sì.
Il protagonista di 12 Minutes, invece, lo sa. Sa che sono così disperata che nel loop precedente ho provato ad accoltellare il poliziotto entrato in casa prima che ci aggredisse – e non è finita benissimo – e sa che c'è qualcosa di nascosto in casa, sa perfino dove. Allo stesso modo, l'eroe di The Forgotten City sa esattamente cosa sarà fatto da chi nel prossimo loop e può agire di conseguenza per generare un effetto farfalla, e Colt sa quale sarà la routine di ciascuno dei Visionari a cui deve dare la caccia.
Potremmo immaginare, allora, la corrente del loop come una nuova forma del game design per dribblare il concetto di game over: anziché sposare una schermata punitiva che porta a un riavvio da un checkpoint specifico, ecco che il riavvio è parte della storia e della messa in scena, purché si ripeta sempre dallo stesso punto. E a patto, certo, che lo scheletro del gioco venga costruito in modo tale da non penalizzare l'accesso ai suoi contenuti, con lo spawn fissato sempre alle stesse coordinate.
Che sia proprio qui, in quello che così bene ci hanno fatto vedere sviluppatori come i geniali ragazzi di Arkane, le menti brillanti di Housemarque e i talentuosi narratori di Modern Storyteller, un approccio che anche in futuro svecchierà il retaggio del game over e che creerà un ulteriore anello nella catena che lega il giocatore e il suo personaggio virtuale?
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