Tutto ha una fine. Così di solito deve essere, specialmente per quanto riguarda una storia. Quante serie, film o anche videogiochi hanno pagato il prezzo di non aver messo quel punto finale quando dovevano farlo, trasformandolo invece in un punto e a capo che ha rovinato anche quanto fatto di buono in precedenza? Troppe.
Avevamo di recente parlato di come a inizio anno c’era stata una vera e propria moria di giochi live service, creati per durare anni e anni senza mai vedere una fine, ma che la fine l’hanno invece incontrata molto presto, per mancanza di idee e interesse generale dei giocatori.
Questa tendenza a prolungare un videogioco oltre la sua naturale conclusione, però è purtroppo ormai radicata anche in titoli che in teoria una conclusione dovrebbero averla; pensate a quanti giochi ricevono DLC e nuove modalità, come il New Game Plus, mesi o persino anni dopo la loro fine naturale, quando ormai si sono visti i titoli di coda e si pensa già al prossimo titolo da giocare.
Eppure, secondo le statistiche di Achievement e Trofei vari, in gran parte dei giochi (compresi quelli di successo) meno della metà dei giocatori arriva a vedere la conclusione.
Dunque la domanda è: a cosa servono tutti questi contenuti extra e questa bulimia di ore di gioco anche nei titoli single player, se alla fine la maggior parte dei giocatori non arriva nemmeno alla fine?
Eternità artificiale
Il modo di concepire i titoli single player è cambiato enormemente rispetto al passato. Un tempo le strutture lineari – ormai ingiustamente demonizzate – erano la norma ed era proprio grazie al fatto che i giochi si potevano concentrare sulla storia o su pochi elementi di gameplay fatti bene che era possibile garantire una qualità costante per l’intera durata dell’esperienza.
Addirittura un tempo il concetto di endgame nel single player era perlopiù sconosciuto, salvo rare eccezioni. Tutta l’esperienza, compresi gli extra (come potevano esserlo le sfide con le Weapon in Final Fantasy o le parti con Hunk e Tofu in Resident Evil 2), erano ben gestiti, in modo che l’attenzione del giocatore non fosse troppo sviata dal cuore del titolo.
Ovviamente non voglio fare un discorso inutilmente nostalgico del tipo “non ci sono più i videogiochi di una volta”: i titoli attuali spesso non hanno nulla da invidiare a quelli del passato e, anzi, sono riusciti ad assimilare quanto di buono è stato fatto prima e a modernizzarlo in maniera impeccabile, come dimostra il recente remake di Resident Evil 4.
È però evidente che molte grandi produzioni abbiano un po’ perso il focus sull’esperienza in sé, con la componente narrativa sempre meno centrale in produzioni in cui dovrebbe esserlo e strutture volutamente pensate per essere annacquate da contenuti inseriti solo per aumentare il volume di ore speso dai giocatori. Basti pensare alla ricerca dei collezionabili o alle fetch quest onnipresenti in molti titoli, specialmente nei sempre più diffusi open world.
C’è però anche un’altra tendenza che mira a dare ad alcuni videogiochi un’ulteriore longevità artificiale spesso non richiesta – ed è quella legata a tutti quei contenuti che arrivano dopo il lancio, a volte dopo mesi o persino anni, e che potevano benissimo essere inseriti sin dall’inizio per dare maggior valore a un titolo.
Tutte queste aggiunte mirano a prolungare il ciclo vitale di questi giochi, ma la verità è che questo si è già esaurito da tempo, in quanto parliamo di single player. Quanta gente pensate che torni a rigiocarsi da capo tutto God of War: Ragnarok (trovate l'ultimo capitolo della saga dedicata al dio della guerra su Amazon) solo per vedere una nuova armatura aggiunta o che dopo tre anni ritorni su un titolo che ha già finito e archiviato – quando secondo alcune ricerche sui dati pubblici di Steam riguardo agli Achievement, in media un titolo è completato addirittura solo dal 14% di giocatori che lo possiedono?
Numeri che si possono verificare da soli, guardando i Trofei di PlayStation o anche gli stessi Achievement di Xbox e Steam. Questi contenuti, dunque, sono uno spreco, buttati lì dopo mesi o anni dall’uscita di un gioco: in casi come quello di Kakarot, ad esempio, tanto valeva creare un seguito, con tutte le aggiunte che sono state proposte.
Nel mondo odierno viviamo in uno stato di costante frenesia, in cui escono molti più giochi rispetto al passato – giochi che inoltre, in linea generale, sono molto più lunghi. Secondo Howlongtobeat, sito che raccoglie i tempi medi per finire un videogioco, completare Assassin’s Creed Valhalla al 100% richiede 4 volte le ore che erano necessarie per il primo Assassin’s Creed.
Purtroppo, tra il tempo che non basta mai e la triste cultura dell’hype, non c’è più il tempo di godersi un gioco; appena se ne finisce uno si passa subito a un altro come in una catena di montaggio. Anche ad avere enormi quantità di tempo libero, è difficile stare dietro a tutto quello che esce: chi è più moderato o ha poche ore da dedicare settimanalmente ai videogiochi, in un anno riesce a finire in media quattro o cinque titoli, spesso dovendo rinunciare a esperienze dalla longevità troppo esosa.
In questa situazione, l’idea di rigiocare il New Game Plus di un titolo o i suoi contenuti aggiornati sei mesi o un anno dopo, è impensabile e questa corsa alla longevità extra a tutti i costi per prolungare la vita di un titolo non funziona – anzi, ha il demerito di far perdere contenuti potenzialmente interessanti a quei giocatori che non hanno voglia di ritornare su un gioco ormai archiviato perché devono, giustamente, smaltire l’infinito backlog.
Un vero peccato, soprattutto perché molti di questi contenuti sono anche ben fatti o addirittura importanti, visto che talvolta aggiungono informazioni rilevanti alla storia (ne è un esempio la recente espansione Burning Shores di Horizon Forbidden West): avrebbero dunque alzato di molto la qualità di un titolo al lancio, se vi fossero stati subito inseriti, mentre spesso nel gioco iniziale troviamo riempitivi ripetitivi e poco ispirati che ne abbassano il valore.
Oggi, dunque, si vedono sempre più titoli single player che, per estendere artificialmente la propria vita, ricorrono a mezzi che sembrano più adatti a un live service; tentano così di restare sempre al centro di un’attenzione che in realtà hanno perso già da tempo.
Quando la longevità è diventata un difetto
Ultimamente, i vari publisher più importanti focalizzano molto di più l’attenzione sul tempo che viene speso in un gioco da ogni singolo utente piuttosto che sulle copie vendute, un discorso che è legato alla sempre maggior importanza che i titoli free-to-play o live service hanno a livello di mercato. Più ore un utente resta in gioco e più ci sono probabilità che diventi fidelizzato e spenda in contenuti extra come oggetti cosmetici, battle pass e via dicendo.
Se in quest’ambito il discorso può avere senso, ne ha molto meno quando si parla invece di titoli pensati per il giocatore singolo, che vengono però trattati allo stesso modo. In generale trovo sempre senza senso quando i publisher, per incensare i loro prodotti, millantano milioni e milioni di ore totali passate dai giocatori sui loro videogiochi. Passandomi l'ironia, mi ricordano un po’ l’Ingegner Cane, personaggio comico del Mai dire Gol dell’epoca d’oro, quando esclamava “Mille!” per indicare cifre casuali che facevano girare la testa senza motivo apparente.
Al di là del fatto che teoricamente un giocatore potrebbe lasciare in stand by un gioco appunto per mille ore e queste verrebbero comunque conteggiate, non ha molto senso decretare il successo di un gioco sulla base di questi valori, che in realtà non dicono nulla del gioco in sé, ma che rispondono unicamente alla logica di mostrare i “numeroni” al grande pubblico.
Anno dopo anno, creare un videogioco è sempre più costoso e per questo motivo le esperienze single player devono inventarsi nuovi modi di arrotondare, con contenuti extra dai modelli spesso simili ai live service. L’aggiunta di contenuti a distanza di tempo (anche quando sono gratuiti) è finalizzata ad attirare nuovamente l’attenzione sul proprio titolo, nella speranza di riaccendere, almeno in parte, la fiamma in alcuni giocatori.
A tal proposito (non me ne vogliate) citerò ancora una volta Assassin’s Creed Valhalla, perché è il caso più eclatante, in quanto l’epilogo del gioco è arrivato ben due anni dopo la sua uscita e dopo un’altra miriade di DLC distribuiti, tra Season Pass ed espansioni varie.
Fortunatamente non tutto è perduto; anzi, sembra che servizi come il Game Pass di Microsoft (potete acquistare un mese di abbonamento su Amazon) possano in parte sopperire a questa necessità di dilatare un titolo single player nel tempo, grazie alla maggior libertà che viene concessa agli sviluppatori, non costringendoli a doversi preoccupare eccessivamente delle copie vendute e del supporto post lancio.
Due esempi recenti sono Pentiment e Hi-Fi Rush, esperienze compatte e appaganti, dove ogni ora di gioco spesa dà delle soddisfazioni e dove, soprattutto, giunti alla fine si è consci di aver vissuto un’esperienza completa. Ci si augura che questi titoli possano rappresentare un esempio da seguire per molte altre software house, senza che necessariamente passino da un servizio come il Game Pass.
Nel mondo videoludico attuale, con sempre più uscite e sempre meno tempo da dedicare in generale alla passione per i videogiochi, una grande (e artefatta) longevità viene percepita sempre più come un difetto che come un pregio. Basti pensare a come era stata accolta lo scorso anno la dichiarazione di Techland, quando annunciò che per completare al 100% Dying Light 2 sarebbero servite 500 ore.
La reazione del pubblico è stata negativa, soprattutto perché è impensabile creare un titolo con 500 ore di contenuti interessanti e mai fini a se stessi – e questo modo di vedere la longevità è sempre più diffuso, perché da anni ormai siamo abituati a titoli che durano troppo, offrendo quantità piuttosto che qualità.
Nel mondo attuale, purtroppo, il tempo da dedicare alla passione videoludica è sempre meno e in pochi desiderano spenderlo per titoli che fanno della quantità il loro cavallo di battaglia, che offrono contenuti tagliati o posticipati finendo per rubarci quel tempo prezioso in favore di una longevità che vuole andare avanti all'infinito.
A volte, invece, basterebbe solo sapere quando inserire la parola fine al momento giusto, per rendere un’esperienza veramente eterna: una cosa che non ha niente a che vedere con il cronometro, ma che in molti hanno purtroppo dimenticato.