PS4 First - dietro il mito delle esclusive

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a cura di Paolo Sirio

Il mantra della generazione corrente di console è stato uno: esclusive. Che abbiano avuto un impatto o meno sulle vendite delle piattaforme che le hanno ospitate, indubbiamente le esclusive sono state adoperate come termometro dello stato di questa o quella console, più che altro nel tentativo di dare una spiegazione ad un fenomeno inspiegabile, quale le vendite di PS4, se non con il puro fascino del marchio PlayStation. Ma, soprattutto per quanto riguarda quelle provenienti da sviluppatori e publisher non appartenenti alle e rispettive scuderie first-party, è da considerarsi decaduta l’abitudine di Sony e Microsoft di finanziare la realizzazione di prodotti presso team esterni, specie dopo fiaschi come Scalebound e il rimpolpo dei Microsoft Studios sulla scia dei Worldwide Studios della casa nipponica. Mentre resiste in Nintendo, dunque, questo costume sta sparendo lentamente ma quello delle esclusive a tempo permane: come mai, e cos’è che cambia al punto da spingere una casa a proporre un titolo prima su PS4? 

Le ragioni sono molteplici e variano da caso a caso ma, con l’esperienza che abbiamo acquisito in questa generazione di console, possiamo tirare delle linee generali per spiegarci come mai quella dell’esclusiva a tempo sia una trovata ancora, e forse mai come adesso, in voga. Premesso che anche in questo caso il modello di business che prevedeva un platform holder come publisher e un gioco portato per un anno sulla sua console sta progressivamente sparendo, dopo la lama a doppio taglio che ha ferito Rise of the Tomb Raider, ci sono un paio di circostanze in cui l’editore o lo sviluppatore di turno sceglie di riservare una finestra temporale esclusiva alla piattaforma più venduta, ovvero PlayStation 4. Questo capita per fattori differenti, come dicevamo, e qui proviamo a buttarci un occhio per comprendere meglio il fenomeno.
Partiamo dalle produzioni orientali. I dati di vendita parlano chiaro: nonostante un timido interesse per Xbox One X, il Giappone ha deciso di ignorare del tutto gli sforzi di Microsoft sul territorio e allo stesso modo il gigante di Redmond ha optato per una ritirata strategica in vista di tempi migliori. Sono lontani i tempi di Mistwalker, Lost Odyssey, Blue Dragon e tutti gli altri, anche in quella circostanza perché l’investimento messo in campo non garantì il ritorno sperato. Software house e publisher giapponesi sono aziende che fanno i conti con budget risicati, sia per le loro realtà che per via del taglio nicchistico della propria mercanzia, e questo li spinge a guardare prima di tutto al proprio orticello, sperando di avere un successo domestico. Dopodiché – in presenza di un distributore occidentale – tentano la fortuna oltreoceano. 
Questo è il perché vediamo tanti titoli made in Japan disponibili soltanto su PS4 o PS Vita, dove la portatile di Sony è ancora assai in voga, e in tempi più recenti per Steam e Nintendo Switch, che stanno rompendo il monopolio dello sviluppo da quelle parti (complice l’apertura tecnologie economiche e di facile apprendimento come Unreal Engine e Unity). Il caso più eclatante appartenente a questo filone, ma vi assicuriamo che non è l’unico, è quello di Nier Automata, disponibile da un anno su PS4 e PC via Steam ma soltanto da fine giugno su Xbox One. Square Enix e lo stesso director Yoko Taro, non sappiamo quanto ironicamente, non credevano minimamente nelle possibilità di successo del gioco ma l’accoglienza positiva della critica occidentale, il passaparola e la sua effettiva qualità hanno portato ad un lancio “sull’altra” piattaforma più popolare dalle nostre parti, ossia quella di Microsoft. Una rarità che solo case affermate come Square o SEGA possono permettersi e stanno progressivamente abbracciando, forse per via dei tanti viaggi a Tokyo e dintorni di Phil Spencer.
Altro filone è quello riconducibile a produzioni riguardanti vecchie glorie e mascotte. Prendendo ad esempio Crash Bandicoot N. Sane Trilogy, è evidente la volontà di Activision, forse sottovalutando la portata delle richieste da parte della community dei videogiocatori, di monetizzare l’effetto nostalgia specificamente dell’utenza PlayStation, e al contempo di alzare il fattore della desiderabilità per i giocatori in possesso di altre piattaforme. È così che il marsupiale ha potuto “parlare” alla pancia dei suoi primissimi fruitori, spingendo su una sorta di corporativismo che ha generato vendite al pari, se non superiori, a quelle di un’esclusiva first-party vera e propria, sebbene il lancio multi-formato fosse nell’aria praticamente da subito.
L’approccio scelto per Spyro: Reignited Trilogy è stato diverso proprio in considerazione del successo probabilmente inaspettato del revival di Crash Bandicoot, forte anche dell’idea che tanti possessori dell’originale PSX oggi sono “boxari” e pure loro possono premiare iniziative di remaster così spinte da un punto di vista tecnologico. Saremo curiosi di consultare i dati di vendita della N. Sane Trilogy su PC, Xbox One e Nintendo Switch, e soprattutto di vedere se questa strada diversa scelta per il draghetto viola sarà in grado di replicare, con le proporzioni dovute alle differenti popolarità dei franchise, perlomeno parzialmente la cassa di risonanza acquisita un anno fa.
Infine, la questione dei DLC è l’ultima per cui resta in piedi un accordo di natura commerciale tra publisher e platform holder. Prendendo ad esempio ancora Activision, sono noti i casi di Call of Duty e Destiny, per i quali i contenuti aggiuntivi arrivano prima (e spesso molto, molto a lungo) su PlayStation 4 che sulle altre piattaforme. Il discorso è comunque ben più ampio rispetto alla logica del finanziamento dello sviluppo di un contenuto, fattore non in ballo quando si parla di questo tipo di add-on, e riguarda partnership che si estendono dal fattore pubblicitario – il logo prima dell’inizio di un nuovo trailer, e via discorrendo – alla sponsorizzazione di tornei esports dedicati in stile Call of Duty League.
Si tratta di un percorso intavolato da e con Microsoft durante la generazione di Xbox 360 e PS3 ma pian piano abbandonato (per CoD e FIFA) in virtù di scelte di business concentrate, finalmente, sulla formazione di una struttura interna di sviluppatori. Per Sony, che ha già questo genere di struttura stabilita e produttiva ai massimi livelli sia in termini di pura manodopera che creativamente, un investimento del genere ha più senso ma difficilmente riserverà qualche altro tipo di sorpresa nel prossimo futuro.

Il concetto di esclusiva third-party prezzolata è ormai alle spalle, dunque, in un’industria che da un lato anela a farsi sempre più inclusiva sulla spinta degli indie (leggi: cross-play) e delle tematiche sociali, dall’altro ha bisogno di avere un numero maggiore di sbocchi per rientrare delle spese di sviluppo e promozione più alti che in origine per via dei valori produttivi cresciuti a dismisura con l’avvento delle console HD. Restano alcuni sporadici casi che, come abbiamo potuto vedere, sono più volti a compiacere le proprie nicchie (grandi o piccole che siano) che legati ad accordi commerciali dimostratisi poco efficaci all’inizio di questa generazione. Un’evoluzione in positivo in cui speriamo potrebbe provenire da Oriente, con l’aumento della popolarità dell’IP nipponiche, ma realisticamente non ci aspettiamo scossoni nello schema ormai consolidato per la prossima generazione.

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