Io odio gli articoli che si prendono la briga di difendere i videogiochi. Li odio, in genere, perché è ridicolo che ci sia bisogno di difendere un mezzo di comunicazione, e perché vengono facilmente strumentalizzati dai detrattori. «Ecco, vedi? Guarda come si sbattono per difendere il loro giochino!».
Sappiamo che in Italia ci sono ancora tanti passi in avanti da fare, nel modo di discutere, di presentare, di percepire il videogioco. Il suffisso "-gioco" nel nome del medium lo fa automaticamente declassare a "giocattolo" di poca rilevanza, ripescando dalla concezione sbagliata (chiedete a Johan Huizinga nel suo Homo Ludens) che quella ludica sia un'attività legata solo ai bambini.
Non è raro, dalle nostre parti, sentire cose come «non sei un po' troppo vecchio per i videogiochi?» e, da quando la OMS ha ammesso l'esistenza del gaming disorder (salvo poi invitare al videogioco come alleato durante la pandemia), la dipendenza da videogiochi legata all'eccesso nella loro fruizione – sappiamo cos'è una dipendenza, vero? – questa è diventata freccia all'arco di chi, per qualche motivo, vuole demonizzare il videogioco.
Niente di nuovo sotto il sole: sono stati demonizzati i fumetti, sono stati demonizzati il metal e il rock, sono demonizzati i videogiochi. Scopriremo, con calma, in che particolare girone dell'inferno bruceremo noi metallari videogiocatori in caso leggessimo anche i fumetti.
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Tuttavia, nelle scorse ore la trasmissione Geo, sull'emittente pubblica Raitre, ha proposto un approfondimento dedicato proprio alla fruizione dei videogiochi da parte di minori e al problema della dipendenza da videogiochi. A intervenire in studio in qualifica di esperto è stato il dottor Alberto Pellai, psicoterapeuta dell'età evolutiva.
Purtroppo, il dottor Pellai ha riassunto una serie di luoghi comuni legati al mondo dei videogiochi, di fatto finendo con il demonizzare il medium e con il semplificare il discorso in un modo tale da finire con il danneggiare la visione di un mercato che, dalle nostre parti, già fatica a venire sfruttato nel pieno del suo potenziale – soprattutto nel mondo del lavoro, rispetto ad altre realtà europee.
Il dottor Pellai ha spiegato, ad esempio, che potremmo considerare come dipendenza il fruire per più di due-tre ore al giorno tutti i giorni del videogioco, preferendolo ad altre attività (?), senza voler smettere anche quando ti propongono attività come gite domenicali con famiglia al completo . Ha anche sottolineato come il problema sia soprattutto per i bambini maschi, poiché è molto più difficile che le bambine sviluppino una dipendenza, dal momento che le bimbe, ma anche le donne in genere, sono più affini alle «interazioni guardandosi negli occhi», mentre gli uomini abitualmente si trovano al bar per mettersi insieme davanti a uno schermo a guardare una partita (...).
Ad avvalorare la sua tesi c'è il fatto che i suoi due figli maschi giochino ai videogiochi, mentre le femmine no – e ci sono ovviamente un milione di motivi per cui i bambini abbiano fatto queste scelte, che passano anche per se e come gli sia stato proposto l'accesso al videogioco. Un bambino potrebbe interessarsi perché magari la console è stata regalata a lui e non a sua sorella, ad esempio.
Un altro aspetto che ha scatenato delle discussioni legato all'intervento dello psicoterapeuta è la concezione che il videogioco «depotenzi» i bambini con la sua fruizione. Una visione profondamente lontana da quanto discusso da altri studiosi, come Jane McGonigal, che nel suo La realtà in gioco (Apogeo edizioni) sottolinea come l'esperienza nel mondo virtuale abbia, in realtà, un effetto tangibile in quelle da questa parte nello schermo, poiché innesca reazioni, stimoli e necessità di ingegnarsi che di virtuale non hanno nulla. Il che può essere sommato anche alla capacità di socializzare (raccomando la lettura di Game Hero (Ledizioni) della dott.ssa Viola Nicolucci e, soprattutto, della storia di Mats al suo interno).
Purtroppo l'argomentazione vista nello studio di Geo era priva di statistiche e riferimenti scientifici che sarebbe stato interessante prendere in analisi e discutere – anche e soprattutto in virtù del fatto che si parla di un'emittente del servizio pubblico. La dipendenza è un argomento ricco di sfaccettature, importante, da approfondire: semplificarlo come unico spunto nel rapporto tra minori e videogiochi non assolve allo scopo di informare.
Secondo l'esperienza dello psicoterapeuta, infine, è da raccomandarsi nei bambini l'imposizione di limiti nella fruizione di videogiochi – il che è ovviamente cosa buona e giusta. Tra questi, lo specialista consiglia al massimo un'ora al giorno di videogiochi, a cui affiancare un'ora su altri schermi, «dove però farai tante altre cose, come usufruire di una narrazione – per esempio legata a una serie TV o a un film che ti piace». Una visione che suppone che, secondo il dottor Pellai, il videogioco sia tutt'oggi privo di narrazioni, che è necessario quindi andare a ricercare su media diversi.
La sensazione, insomma, è quella di un'argomentazione che abbia messo insieme molti luoghi comuni correndo alla semplificazione: la semplificazione della dipendenza, la semplificazione di cosa sia un videogioco – ancora visto sotto la lente di un escapismo clinicamente preoccupante appropriato solo per chi non sa stare nel mondo reale.
Il risultato è che milioni di persone hanno percepito questi messaggi e, in un mercato come quello italiano, dove esponenti della politica a targhe alterne si scagliano contro un mercato di cui non capiscono le potenzialità, dove molti talenti scappano all'estero (strano, no?) e dove le persone si indignano perché ci si batte per l'istituzione di un fondo che possa dare supporto agli artigiani del videogame, questo non fa che gettare benzina su un fuoco che non dovrebbe nemmeno esserci.
Da bambina non mi alzavo dal divano finché non finivo di leggere l'ultimo libro che mi era stato comprato. Nessuno si è mai sognato di dirmi che fossi dipendente dalla lettura – ma a quanto pare solo perché avevo scelto il medium giusto, quello nobile – quello che per metodo di fruizione si poteva confondere con studio e cultura, anche se magari stavo leggendo un romanzo imbarazzante trovato in un cestone a 3.500 lire. Sono passati più di vent'anni e i rigidi preconcetti sulla videoludica sono qua, amplificati a dismisura dalla capillarità di una televisione che ha difficoltà a parlare alle nuove generazioni e che, anzi, quando ha la possibilità di farlo sembra voler rimettere "al proprio posto" ciò che loro apprezzano, anziché trovare punti di contatto, di evoluzione del dibattito.
Il più recente rapporto di IIDEA e CENSIS sul videogioco in Italia ha dimostrato che la percezione intorno a questo mezzo di comunicazione ed espressione sta cambiando – anche perché molti tra coloro che erano bambini nella prima ora del videogame oggi sono adulti e si sommano ai fruitori più giovani.
Parlare dei videogiochi anche sulla TV è un bene: i videogiochi sono ovunque. Se dobbiamo parlarne in questo modo, però, allora meglio continuare a fingere che non esistano.
Il rapporto del 2020 sul mercato videoludico in Italia ci dice che ci sono 16,7 milioni di giocatori nel nostro Paese (il 38% della popolazione). Attendiamo il giorno in cui anche la televisione, in tutta la sua rigida quadratezza, lo rileverà e discuterà del videogioco senza semplificazioni e qualunquismi.
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