Perché dobbiamo parlare bene dei videogiochi?

Parliamo un po' di critica, pubblico, Cyberpunk 2077, bias cognitivi e doppi standard applicati ai videogiochi e non altrove.

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a cura di Valentino Cinefra

Staff Writer

Borderlands, il film di Eli Roth uscito qualche settimana fa, è un disastro completo. Al punto che il 30 agosto, a meno di un mese dall’uscita in sala, sarà acquistabile sulle piattaforme digitali e arriverà in streaming, probabilmente, per cercare di tamponare il flop a livello economico con entrate extra.

Anche Concord è un disastro. Lo shooter di PlayStation lanciato da pochissimo sul mercato ha trovato un pubblico a dir poco freddo nei suoi confronti. Nonostante le parole altisonanti di Herman Hulst nel raccontarlo, alla fine questo potrebbe essere l’ennesimo live service game a tentare, forse, la via della formula free to play.

Citofonare Foamstars per suggerimenti, parlando di altri casi di titoli lanciati sul mercato e scomparsi rapidamente.

In questi giorni ho registrato una curiosa, ma non troppo, differenza tra le reazioni al lancio di questi due prodotti del mondo dall’intrattenimento: nessuno ha difeso Borderlands.

Se per Concord si è arrivati a invocare tra il pubblico e la critica (che mestizia!) il caro e vecchio “lasciateli lavorare”, per il film di Eli Roth nessuno si è lanciato in difese a spada tratta. Anzi, il trend è stato completamente contrario, laddove pubblico e critica sono saliti con agile mossa sul carrozzone delle facili critiche.

In generale, al di là di una sempre minore frangia di paladini delle major, è sempre più difficile trovare orde di difensori di serie TV, film, fumetti e altri prodotti di intrattenimento che “vanno male”. E, anche quando qualcuno li difende, perché è assolutamente normale farlo in certi termini, nella stragrande maggioranza dei casi si rimane sempre sul tema della qualità dei prodotti.

«Ci sono sviluppatori che lavorano e che rovinate se parlate male di Concord», è una delle frasi che ho visto e ascoltato più spesso, in queste settimane, ed è un problema. Nemmeno da poco.

Anche il mercato dei videogiochi è un disastro

A pochi giorni dall’inizio di quest’anno, il numero di licenziamenti nel mondo dei videogiochi era già arrivato quasi a quello della totalità del 2023.

Il trend è continuato in maniera implacabile per tutto l’anno, e continuerà senz’altro, coinvolgendo piccole realtà come grandi colossi che tagliano personale con un ritmo di una volta ogni due mesi, a volte.

Il mercato dei videogiochi è arrivato a questo momento storico perché non c’è stato un management adeguato alla situazione.

Dopo anni in cui il settore è stato una nicchia dell’intrattenimento, i videogiochi sono entrati timidamente nel momento in cui guadagnano “più di musica e cinema messi insieme” (quante volte abbiamo sentito questa frase?), per poi ritrovarsi una iniezione glicemica per via del lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19.

Tutti gli investimenti fatti per inseguire il tiepido miraggio per cui tutti volevano dei videogiochi, ma solo perché chiusi in casa, non si sono trasformati in progetti in grado di durare più di qualche anno.

Ora siamo in un momento in cui escono dei lavori pensati per arrivare sul mercato anni fa, quando tutti stavano a casa e avevano bisogno di qualcosa da fare. Se non fosse che, non volendo nemmeno tirare in ballo una crisi economica generalizzata e un potere d’acquisto sempre più inesistente, adesso a molte di quella gente dei videogiochi non interessa più.

Questo è il vero mercato dei videogiochi. Una nicchia, magari più grande di prima, ma sempre una nicchia.

Proprio per questo motivo non ci possiamo permettere il pressapochismo di dire che tutti i videogiochi sono belli perché ci sono delle persone che ci lavorano.

Non ci possiamo permettere il pressapochismo di dire che tutti i videogiochi sono belli.

Anche al Borderlands di Eli Roth hanno lavorato delle persone, così come in quel Hi-Fi Rush che in molti hanno ignorato finché non è tornato al centro delle cronache per la chiusura del suo studio, Tango Gameworks.

Anche in Remedy Entertainment le persone hanno bisogno di stipendi, eppure le crociate non si sono viste per Alan Wake 2 che ancora fa fatica ad essere un progetto profittevole per lo studio, nonostante se la passi comunque molto bene per altri motivi.

Sarà che, forse, è fastidioso pensare di essere stati delusi da un videogioco che aspettavate così tanto e per cui avete sborsato anche dei soldi in pre-ordine?

Non abbiamo imparato niente da Cyberpunk 2077, vero?

Dopo il lancio di Cyberpunk 2077 tutti sembravano incredibilmente esperti nel vivisezionare le dinamiche di un settore che non conoscono e, se va bene, lo percepiscono in maniera laterale per sentito dire da qualcuno che ha sentito qualcun altro dire qualcosa al riguardo.

Perché sì, torniamo sempre al lancio del kolossal di CD Projekt Red, che doveva insegnarci ad essere prudenti e cauti ma ci ha portato al pressapochismo di non poter parlare “male” di un videogioco.

Finché lo fa il pubblico fa anche bene, è parte del suo DNA di parte in causa del sistema economico dover giustificare il proprio bias di acquisto e dire che Concord è bellissimo e guai a riportare le notizie dei server vuoti, perché si viene tacciati di essere voci schierate (con chi, poi, non si è ancora capito).

Il pubblico può chiudere un occhio, a patto di esserne consapevole e non cercare soddisfazione poi contro la critica cattiva che regala i votoni (a chi, ancora una volta, non è dato saperlo), ma la critica non può farlo.

Non dovrebbero farlo neanche i content creator e, in generale, chiunque abbia una voce pubblica in questo carrozzone sempre più confuso di opinioni e pensieri confusi per analisi. Tolti i contenuti sponsorizzati, ovviamente, nella speranza che non ci si dimentichi il fondamentale #adv, a rendere chiara la natura di quel contenuto.

Perché è proprio la saturazione di un mercato in cui tutto sembrava potesse e dovesse andare bene ad aver creato questa situazione pericolante.

In cui un colosso come Ubisoft ha rischiato grosso con Skull & Bones, ha già ridimensionato le sue aspettative per Star Wars Outlaws (che, ancora una volta, non era il capolavoro raccontato) e, probabilmente, con Assassin’s Creed Shadows forse non si giocherà tutto ma si giocherà molto.

Il pressapochismo dato dalla volontà di passare sopra ai problemi di una produzione, nel contesto attuale, è il danno più devastante che il mercato dei videogiochi possa ricevere.

Non dobbiamo parlare bene dei videogiochi. Dobbiamo parlare, bene, dei videogiochi.
Il quale, fino a prova contraria, è un mercato, con tutte le sue leggi. Che vi piaccia o no vince chi intercetta la tendenza giusta, chi guarda avanti e non al passato, e chi fa videogiochi meritevoli di attenzione e del potere di acquisto. Videogiochi che devono vivere nella speranza di essere interpretati per quello che sono e non per quello che vogliamo che siano.

Perché la questione è molto semplice. Che siano produzioni italiane, svedesi, fatte da due persone o un gruppo di cani antropomorfi: a volte ci sono semplicemente brutti videogiochi.

E allora bisogna raccontarli per quello che sono, e dovremmo farlo tutti. Sia che abbiamo speso €80 per il pre-ordine digitale di un videogioco da 6 su 10, sia se ci ritroviamo con il compito di fare da filtro per un marketing sempre più aggressivo e/o mellifluo da parte delle aziende che li producono.

Non dobbiamo parlare bene dei videogiochi. Dobbiamo parlare, bene, dei videogiochi.

Questa ve la regalo per i vostri contenuti. Omaggio della casa.

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