Ci sono giochi che arrivano sul mercato italiano bypassando completamente la traduzione in italiano – quantomeno dei loro testi, se non delle voci. Ne abbiamo parlato di recente e abbiamo evidenziato che uno dei motivi potrebbe risiedere proprio nella centralità del nostro mercato, che conta su meno giocatori rispetto ad altri.
Consultando mensilmente il sondaggio svolto da Steam sui suoi utenti, ad esempio, vediamo che gli utenti che usano un sistema operativo in italiano per accedere ai loro videogiochi sono solo lo 0,54% di tutti quelli della piattaforma (addirittura in calo dello -0,04% ad agosto 2024, rispetto al mese precedente).
Davanti all'italiano, nella classifica, figurano tante lingue, tra cui cinese semplificato, inglese, spagnolo, portoghese, giapponese, tedesco, francese, coreano, polacco, cinese tradizionale, turco, thailandese e ucraino. Tutti mercati che, stando a questa statistica, potrebbero permettere ai giochi di raggiungere più persone, con una traduzione nella loro lingua.
Ma è davvero tutto qui? Si tratta di una mera questione di "conta" delle persone raggiungibili, che magari non tiene conto dell'effettivo potere d'acquisto di quel mercato, o c'è di più?
Come si svolge un percorso di localizzazione di un gioco e quali aspetti hanno peso per un publisher? Dopo averne parlato qualche tempo fa con Virginia Petrarca, localizzatore di videogiochi come Triangle Strategy, abbiamo fatto una chiacchierata con Andrea Iachetti, professionista della games industry che lavora come QA Specialist e che si occupa anche e soprattutto di assicurarsi che le traduzioni di un titolo in italiano siano accurate.
E questo ci permette, ovviamente, di avere una visione ulteriormente approfondita su come si svolgono questi processi, e di dare uno sguardo a ciò di cui si tiene conto quando ne vengono messi in moto gli ingranaggi.
Non si tratta solo di tradurre
Iachetti è, con sorpresa di nessuno, un videogiocatore. Amante di Dark Souls, di Frostpunk e dei Total War, sta lavorando anche a Death Harvest come game designer – un gioco indie in realtà virtuale attualmente in produzione.
«Per quanto riguarda la mia storia, dopo aver studiato ingegneria informatica e aver iniziato la mia carriera nel mondo dei servizi informatici, un anno fa ho deciso di abbandonare tutto e provare a inseguire il mio sogno di lavorare nell’industria videoludica.
Nel settembre dell’anno scorso mi son trasferito a Varsavia e, nonostante alcune difficoltà iniziali, da dicembre lavoro come QA Specialist» mi racconta, in merito al suo percorso professionale.
Ma in costa consiste questo lavoro e che tappa è per rendere un gioco in italiano?
«Nello specifico, mi occupo di testare videogiochi durante le varie fasi della produzione per assicurarne il corretto funzionamento e la qualità, sia sotto un punto di vista prettamente funzionale sia, soprattutto, per quanto riguarda la localizzazione italiana.
Per essere più chiaro, il mio compito è quello di giocare un titolo che è già stato tradotto e assicurarmi che i vari aspetti relativi alla localizzazione siano di qualità, il che significa non solo che la traduzione sia ottima e fedele al testo originale, ma anche che le varie stringhe di testo, ad esempio, non escano dalle relative caselle e/o non si sovrappongano tra loro».
Anche questo è, in effetti, un dettaglio da non sottovalutare: avevamo già parlato con Petrarca dell'importanza di una traduzione che renda fedelmente l'opera, ma un altro aspetto importante per un buon lavoro è anche assicurarsi che quei testi non creino problemi all'interno dell'interfaccia di gioco.
Già da questo si capisce che parliamo di un processo che coinvolge diverse persone e che si svolge su più strati: significa che ha un costo e che, per questo, i publisher fanno i loro calcoli prima di decidere se darci un gioco anche in italiano oppure no.
Ma cosa è importante per un publisher?
Quando gli domando quali siano gli aspetti di peso per un publisher che sta valutando una traduzione, Iachetti mi spiega che «il tema della localizzazione in una specifica lingua è sempre delicato, ci sono molti aspetti che entrano in gioco quando un publisher sceglie se e in quali lingue tradurre un determinato titolo. Ovviamente, la ragione principale rimane sempre e comunque il costo associato».
Una notizia che non mi sorprende, quando approfondisce:
«Come si può evincere, tradurre un titolo richiede non solo l’effettiva traduzione dei testi, ma anche una fase di testing dedicata e, eventualmente, anche del tempo per correggere eventuali bug che non possono semplicemente essere corretti traducendo una determinata frase in modo differente».
E non solo – perché, se un titolo deve arrivare anche su console, ci sono ulteriori "strati" di cui occuparsi, per renderne realtà la traduzione.
Come mi spiega Iachetti:
«Inoltre, per quanto riguarda le console, esiste anche la compliance, che per determinate lingue comporta uno sforzo ulteriore in fase di testing e, eventualmente, correzione. Brevemente, per 'compliance' si intende la specifica terminologia che deve essere usata da un titolo affinché possa essere pubblicato su console.
Per dare un esempio pratico, in inglese si usa il termine ‘Button’ (parlando del gamepad) sia su PlayStation che su Xbox, mentre in italiano una utilizza 'Tasto', l’altra 'Pulsante'. Perciò, un publisher che volesse pubblicare il proprio titolo in italiano su diverse console deve accertarsi che la traduzione differisca tra le due versioni».
Un dettaglio che per noi giocatori sembra piccolissimo, ma che ovviamente dal punto di vista della produzione richiede ulteriori passaggi.
«Per queste ragioni, i publisher valutano con cautela ogni lingua basandosi sulla community videoludica e rapportando i costi alle previsioni di vendita, quando selezionano le lingue per la localizzazione. E, purtroppo, il mercato italofono è piuttosto limitato comparato ad altri» aggiunge il QA Specialist, per fornirmi un quadro più completo.
Tra i fattori c'è, inoltre, anche quello delle community, con quelle di lingua italiana che non sono così popolose e attive come quelle che parlano altri idiomi:
«Addizionalmente, il fatto che le community italiane siano molto meno presenti sia online che agli eventi dal vivo – basti pensare al mondo degli eSport – non aiuta la causa.
E in ultimo, anche il fatto che l’Italia come Paese non sia, al momento, territorio fertile per quanto riguarda la nascita e presenza di studios sul territorio gioca il suo ruolo».
Lavori in coordinazione
Posto quindi che sono diversi gli aspetti di cui un'etichetta tiene conto per valutare a quali mercati dedicare una traduzione, come dicevamo anche la procedura da svolgere una volta che si è deciso di avere un gioco in italiano – o in qualsiasi altra lingua che non sia quella di partenza – è strutturata su più tappe.
«I processi di traduzione sono piuttosto lineari, sebbene poi ogni studio/publisher li gestisca differentemente in base alle proprie esigenze. Ovviamente il tutto comincia dalla traduzione vera e propria, che solitamente viene fatta partendo dalla sceneggiatura e non sul titolo» mi spiega Iachetti e, come dicevo, di questo avevamo parlato approfonditamente in una precedente intervista con un professionista.
Messi giù i testi, si passa all'implementazione all'interno del gioco:
«Dopo questa prima fase, la traduzione viene implementata nel titolo e a quel punto arriva sul mio tavolo – o meglio, sul mio computer – e inizia la fase di LQA (Linguistic Quality Assurance). Questa fase, a seconda della mole del titolo solitamente, può durare pochi giorni oppure diversi mesi.
In questa fase il mio lavoro è giocare il titolo cercando di trovare traduzioni scorrette o problematiche legate ad esse, come ad esempio frasi troppo lunghe.
In questa fase, inoltre, c’è anche un confronto tra le varie lingue. È importante cercare di mantenere una consistenza anche tra le varie traduzioni. Nel mio caso, spesso e volentieri c’è un confronto molto aperto soprattutto tra le varie lingue neolatine, dato che condividiamo una buona parte del vocabolario».
Quando domando il perché dei confronti tra più lingue, che richiedono quindi anche una coordinazione orizzontale tra i lavori, Andrea mi spiega che «viene fatto soprattutto per quei termini che in inglese hanno un significato molto ampio e che può essere reso in diversi modi in italiano. Ad esempio un 'dungeon' può essere un sotterraneo, un labirinto ma anche delle segrete, ma può anche rimanere 'dungeon' in italiano».
E, a volte, si torna fino agli sviluppatori per individuare la miglior traduzione – o, quantomeno, quella che renda meglio ciò che si voleva intendere nel testo originale: «per non calpestare l’intenzione di chi il gioco l’ha creato e prodotto, può essere necessario aspettare una risposta dagli sviluppatori per essere sicuri di rimanere allineati con la loro intenzione. Questo capita spesso, ad esempio, quando si deve scegliere se tradurre o meno un determinato termine».
Tanti mattoncini da incastrare
Appare ulteriormente chiaro come un'opera di traduzione di un videogioco sia un processo di incastro di tanti mattoncini diversi. È interessante, in particolar modo, il fattore community segnalato da Iachetti, poiché effettivamente aiuta a contestualizzare il nostro mercato.
Andando a dare un'occhiata alle classifiche, sempre diffuse da IIDEA, su cosa i videogiocatori italiani comprano, realisticamente una produzione AA o più piccola (che sono quelle che di solito si prendono il "rischio" di non avere nemmeno i testi in italiano) non può davvero aspettarsi di fare gola a quei 13 milioni di utenti: i giochi più venduti in Italia in tutto il 2023 sono stati EA Sports FC 24, Hogwarts Legacy e FIFA 23, seguiti da GTA V e Call of Duty: Modern Warfare III. Uno spaccato molto molto chiaro, con il calcistico di EA che addirittura ha due posizioni sul podio, di quali siano le community davvero nutrite e in quali casse finiscano i soldi degli italiani.
Questo, unito ai dati su Steam che sono sotto gli occhi di tutti (il catalogo di Valve ha 130 milioni di utenti mensili attivi, il che significa che gli utenti italiani attivi sono circa 700mila, ossia lo 0,54% di cui parlavamo in apertura) rende più difficoltoso avere tutte le piccole o medie produzioni anche in italiano.
E questo significa che se un gioco non è in italiano ci sono potenziali acquirenti che non possono giocarci. Questo restituisce a un publisher numeri più bassi di quelli auspicabili – poiché il gioco non viene davvero comprato dagli italiani interessati, ma dagli italiani interessati che si sentono a loro agio con l'inglese.
E così, con quei numeri, il publisher decide ulteriormente che una traduzione – su un mercato dove i numeri sono poco significativi rispetto ad altri, e dove le community sono ben diverse rispetto a quelle di altri Paesi – non vale quello che costa.
Si rimane in uno stallo scomodo per tutti, dove o il consumatore si prende il "rischio" di comprare un gioco che magari non capisce o il publisher si prende quello di investire, anche solo piccole cifre per un lavoro dignitoso, per provare ad aprirsi a chi l'inglese non lo parla.
Vedremo se e come in futuro il mercato italiano riuscirà a farsi sentire di più, in questo senso, e se possiamo aspettarci cambiamenti importanti nelle decisioni delle etichette dai giochi AA in giù.