Paese che vai, videogioco che trovi: la localizzazione tra target-oriented e source-oriented

Come è nata la traduzione nei videogiochi e come si differenzia?

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a cura di Pia Colucci

Redattrice

Si è creato un forte dibattito sui social ultimamente circa il mancato doppiaggio in italiano all’interno del recente titolo di Ubisoft,  Far Cry 6. Per fortuna, a differenza di altre lingue straniere, l'italiano è stato sempre tradotto nei videogiochi. Ci sembra ormai naturale giocare ad un prodotto nella nostra lingua, anche se non è stato sempre così.

In questo articolo vi parleremo della traduzione nei videogiochi che può essere fedele all'originale oppure orientata verso uno specifico target di utenza.

La traduzione dei videogiochi agli inizi: tra errori cult e imprecisioni

Negli anni ’80 tradurre un videogioco nella nostra lingua era quasi considerato utopico. Doppiarlo? Impossibile, viste le poche cifre che il mercato dei videogiochi accumulava per tutto lo stivale.

Il progetto di traduzione richiedeva investimenti che i distributori dell’epoca difficilmente sceglievano di fare; la scatola e i vecchi manuali erano localizzati in italiano, ma il gioco difficilmente veniva tradotto, soprattutto nei generi in cui c’era una gran mole di testo e dialoghi (come le avventure testuali, molto in voga all’epoca).

Tuttavia, il fenomeno della localizzazione dei testi nei videogiochi non è esclusivo del nostro Paese. La traduzione nasce tardi rispetto al debutto dei videogiochi sul mercato; aveva un ruolo marginale in quanto i titoli dell’epoca non avevano dialoghi, basti pensare a Pong.

Sul finire degli anni ’70 iniziarono a debuttare sul mercato le prime avventure testuali e grafiche, le quali presentavano trame e dialoghi che riflettevano sempre più la cultura di appartenenza di personaggi e situazioni.

Da lì nasce la necessità della traduzione. Spesso, questa non era affidata a professionisti del settore, bensì veniva eseguita, soprattutto nel Sol Levante, agli stessi sviluppatori. È proprio da questa superficialità che nascono strafalcioni diventati poi famosi a distanza di tempo, con l’avvento di internet: come non dimenticare il maccheronico “All your base are belong to us” del videogioco Zero Wing (1991).

Se ad oggi un errore simile farebbe insorgere la community dei videogiocatori, durante gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, errori di traduzione e imprecisioni erano ben tollerati in quanto il medium videoludico era un prodotto agli albori e ben lontano dalle cifre odierne. Anzi, spesso i videogiocatori andavano a caccia dell’errore, da poter raccontare ad amici e altri appassionati.

Mediocri traduzioni sono un fenomeno del passato? Non poi così lontano: quando la più nota saga dell’allora Squaresoft, Final Fantasy, raggiunse l’apice del successo grazie alle vendite del celebre settimo capitolo, nel team della software house c’era solo uno traduttore, Michael Baskett.

Baskett ha dovuto tradurre linee su linee di testo in due settimane. La traduzione di Final Fantasy VII (disponibile, come ben sapete, solo in inglese) è generalmente considerata il frutto di un lavoro frettoloso e impreciso (lampante è l'esempio, diventato poi famoso, "This guy are sick", pronunciato da Aeris), in quanto al traduttore stesso mancava un punto di vista ampio sulla complessa lore del titolo, oltre ad avere poco tempo a disposizione per eventuali revisioni.

Sempre per Squaresoft, nel 1998, fece il suo debutto Xenogears, considerato come uno dei migliori JRPG di sempre. Il titolo, nato dalla mente di Tetsuya Takahashi, fu molto modificato in fase di localizzazione per via dei contenuti presenti all’interno del titolo (sui riferimenti religiosi e filosofici, sul trauma e l’abuso, sulla natura umana e il rapporto causa-effetto).

Richard Honeywood fu l’unico sviluppatore a capo del progetto di traduzione di Xenogears che oggi ricorda come «un vero inferno». Honeywood era molto vicino all’idea che oggi abbiamo di localizzazione: per lui la traduzione non avveniva solo nel testo bensì era un fenomeno complesso che andava a mediare tra le differenze culturali, in quel caso tra il Giappone e i Paesi occidentali.

Questa “mediazione” comportava, stando a Honeywood, una totale riscrittura dei dialoghi, modifica della grafica, animazioni e suoni.

In Chocobo Racing, uscito su PlayStation sempre in quegli anni, raffigura una pista chiamata, nella traduzione inglese, “Gingerbread” – un chiaro riferimento alla fiaba di Hansel & Gretel. Nella versione originale la pista è chiamata “Hungry Land” ed è casa di due personaggi del folklore giapponese molto conosciuti dai bambini, Momotaro e Kiji.

La modifica di queste differenze culturali può sembrarci ovvia, ma non fu presa sul serio dagli sviluppatori di Chocobo Racing a seguito delle richieste di Honeywood, dichiarando che discostarsi dall’originale poteva essere frustrante, se non addirittura esilarante.

Localizzazione target-oriented o source-oriented?

Secondo quanto dicono due studiosi, O’Hagan e Mangiron, i videogiochi tradotti devono sottostare al ESRB (Entertainment Software Rating Board) o PEGI (Pan European Game Information) i quali suddividono il target di consumatori per fasce d’età. Spesso, per esigenze di marketing, il lavoro di traduzione deve rientrare in questo target: si vanno ad eliminare riferimenti sessuali, parolacce o bestemmie. Alcuni Paesi applicano la censura anche su riferimenti storici e geopolitici (nella realtà europea, la Germania è il paese più severo a riguardo).

Nelle localizzazioni ufficiali bisogna dare, al consumatore, la sensazione che il videogioco sia un prodotto della cultura d’arrivo della versione localizzata. Ai localizzatori viene data molta libertà e questi, tramite la tecnica della compensazione, devono modificare qualsiasi riferimento culturale (battute, citazioni, accenti) che non funzionerebbe nella versione finale.

Questa tecnica, chiamata transcreazione, è una delle più diffuse nell’ambito videoludico, soprattutto nei JRPG.

Honeywood, dopo aver lasciato Square, è approdato in Level-5, diventando capo del progetto di traduzione di Ni No Kuni: La Minaccia della Strega Cinerea.Il titolo presenta uno dei personaggi, Lucciconio, che si mostra, in tutta la sua travolgente simpatia, con un marcato accento romanesco.

Questa scelta è nata dal fatto che nella versione inglese il mostriciattolo con la lanterna ha un accento gallese e, in quella originale giapponese, l’accento di Osaka, della regione del Kansai. Si tratta di un dialetto più marcato e rumoroso rispetto a quello della zona di Tokyo. Ed è proprio alla città del Kansai che si rifà la sotto-trama di Lucciconio in Ni No Kuni.

La terra natìa di Lucciconio prende ispirazione proprio dal quartiere più noto di Osaka, Dotonbori, ricco di locali e ristoranti dalle insegne stravaganti. Due abitanti della Foresta Delle Fate intrattengono il pubblico in una stand-up comedy che in realtà ricalca proprio le dinamiche del cabaret giapponese: il manzai. Nel manzai ci sono due attori, il primo ha una personalità severa e chiusa, il secondo ha una personalità più infantile, più incline alle dimenticanze; il duo, negli sketch, si scambia battute velocissime, irriverenti, create su giochi di parole, fraintendimenti, omonimie e così via.

Il perché proprio il manzai e perché nella terra natìa delle fate come Lucciconio si parla il dialetto del Kansai è dato dal fatto che questo cabaret tradizionale nipponico nasca proprio nella città di Osaka. Una particolarità che può essere colta solo dai giapponesi o dagli amanti della cultura del Sol Levante, un riferimento culturale che irrimediabilmente si perde in fase di traduzione. Honeywood ha trovato proprio la parte del “manzai” come quella più difficile da adattare e tradurre.

Final Fantasy IX è un altro chiaro riferimento alla particolare scelta stilistica da parte dei localizzatori italiani. In questo caso, la traduzione italiana risulta più efficace rispetto a quella inglese poiché, grazie alla differenza dei dialetti nostrani presenti all’interno del gioco, ci si avvicina di più alle particolari sfumature della lingua giapponese.

Il giapponese usato all’interno di Final Fantasy IX ricalca il variegato mondo di Gaia, nel quale sono presenti esseri umani o antropomorfi di diversa etnia e status sociale. I compagni di Gidan (o Zidane) che incontriamo all’inizio del gioco usano un accento giapponese proprio di persone di sesso maschile, rozze e “campagnole”, estremamente diverso da quello parlato da Daga – che, in quanto principessa, utilizza un registro abbastanza formale.

Il piccolo maghetto nero Vivi, vista la sua giovane età, usa un giapponese comune tra bambini prescolari, sfumatura che nella lingua inglese si è persa, ma che è stata resa in lingua italiana, non da differenze geografiche/linguistiche, bensì da un semplice “balbettio” che in questo caso denota una profonda timidezza, tipica di una personalità acerba, insicura, non del tutto formata.

Ancora diverso è il caso di Quina Quen, personaggio antropomorfo non binario di Final Fantasy IX, che diventa di sesso femminile nella traduzione italiana. Quina non ha sesso, è un personaggio sui generis che livella mangiando le rane nella sua palude, il cui unico scopo è mangiare per salire di livello o inglobare le tecniche dei nemici dopo averli inghiottiti.

Nella localizzazione italiana gli abitanti della Palude dei Qu parlano in romanesco, nella versione originale invece i Qu, che sono degli abili esperti di cucina, parlano in un giapponese con accento cinese.

Come mai? Square non ha mai dato una risposta precisa a questa scelta, l’idea che ci siamo fatti è che, notoriamente, i cinesi sono proprietari di ristoranti tipici e non a caso, nell’immaginario comune, si guadagnano da vivere diffondendo la loro cultura culinaria in giro per il mondo.

Questi sono tipici esempi di traduzione target-oriented piuttosto che source-oriented, in quanto la fedeltà all’originale è subordinata all’esperienza di gioco. Ed è qui che nascono le discussioni dei videogiocatori: alcuni di loro preferiscono una marcata modifica all’esperienza di gioco, altri ancora preferiscono uno stile più orientato alla fonte originale piuttosto che al target di riferimento. Sicuramente, una localizzazione source-oriented favorisce una totale immersione e una maggiore comprensione di significati che gli autori vogliono dare.

Dipende dai casi, i videogiochi inseriti in un contesto fantasy, con etnie e culture create da zero, sono più "adatti" ad avere una traduzione target-oriented, nonostante gli sviluppatori siano inclini a creare situazioni o modelli vicini alla loro cultura di appartenenza.

Per fare un esempio, sia Final Fantasy X che alcune zone in Dragon Quest XI sono chiaramente ispirate alle tradizioni, costumi e stili di Okinawa, l'arcipelago di isole tropicali a sud del Giappone; riferimenti che si perdono in fase di localizzazione oppure vengono adattati al nostro contesto di appartenenza.

L'esempio lampante si trova a Porto Trinacrio in Dragon Quest XI. Il nome dell'isola di pescatori, in origine ispirata agli abitanti di Okinawa, si ispira qui alla "nostra" Sicilia: non a caso, nell'edizione italiana, gli abitanti dell'isola hanno uno spiccato accento siciliano.

Tradurre in ottica target-oriented videogiochi come Persona o Yakuza sarebbe innaturale, le opere perderebbero tutta la loro essenza culturale e peculiarità che le hanno rese famose fino ad oggi; sicuramente non avrebbero incuriosito i fruitori dell’esperienza ludica, i quali spengono le loro console e i loro PC con un bagaglio culturale più ricco, variegato, incuriosito da culture diverse ed interessanti, senza essere fermati dalle "barriere" linguistiche.

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