La febbre del Far West – parte 2

Avatar

a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Bentornati a La Febbre del Far West, la retrospettiva sui videogiochi a tema Western. Nella prima puntata abbiamo ripercorso le ideali origini del “western videoludico moderno”, partendo dagli immancabili cabinati e passando per i primi, ambiziosi tentativi di free-roaming (i quali curiosamente non furono Rockstar). Allo stesso modo, quel breve percorso ci ha permesso di capire come mai il West, rispetto ad altre ambientazioni e generi, sia stato relativamente poco calcato nel medium videoludico. Questo perché non basta inanellare cowboy, saloon, pistolettate, pellerossa e treni in corsa per chiamarlo “western”. Bisogna autenticamente avere qualcosa da dire che vada oltre lo stereotipo. E in somma parte, è esattamente quello che alla fine è riuscita a fare Rockstar. In questa seconda e ultima parte della retrospettiva parleremo proprio di lei, che partendo da PlayStation 2 è riuscita a far reinnamorare un’intera generazione di un genere fino a poco tempo prima considerato “da nonni”. Ci è riuscita abbandonando qualunque idealismo e facendo scontrare gli stereotipi con la realtà. Una realtà dura accettare, in quanto non poteva che mettere il mondo di fronte a una dolorosa evidenza: il West era morente.
Red Dead Revolver: il Nonno
Il coinvolgimento di Rockstar nel western videoludico accade un po’ per caso. A inizio anni Duemila gli Angel Studios, sviluppatori sussidiari della Capcom, stanno lavorando a un videogioco a tema western. I lavori procedevano e dopo due anni il progetto acquisisce il titolo Red Dead Revolver. Contemporaneamente la Capcom tiene particolarmente al progetto, tanto da presentarlo all’E3 del 2002 e avere una grossa influenza nell’estetica e nello sviluppo. Forse proprio a causa di questa eccessiva ingerenza lo sviluppo viene interrotto poco tempo dopo. Sembra finita, ma qualcosa si smuove negli affari tra publisher: Angel Studios viene acquisita da Rockstar Games. Il fatto di essere sotto l’egida statunitense è l’occasione per gli Angel, che ritirano fuori il progetto e riescono a far colpo addirittura su Dan Houser. Il vicepresidente e co-fondatore di Rockstar acquista in blocco la proprietà intellettuale da Capcom. Limata la componente più smaccatamente arcade, Angel Studios e Rockstar riescono a finire il tutto in appena due anni. Il Red Dead Revolver che arriva nei negozi nel 2004 è infatti un prodotto molto orientato all’azione, diviso in missioni che vedono lo spietato cacciatore di taglie Red Harlow cercare vendetta per la propria famiglia. Il periodo storico va dal 1876 al 1885, un decennio simbolico in quanto “dorato” per il West e il suo mito. Comunque, Rockstar non si lascia traviare dall’idealismo e costruisce un West composto da persone dure e spietate. Il tributo esplicito è quello agli spaghetti-western, tanto da riprenderne anche le colonne sonore e un filtro che rende le immagini “granulose”. La narrazione si aiuta grazie alla recitazione vocale e alle tecnologie di motion capture (di cui la casa di New York era già ai tempi un passo avanti a tutti). Ma oltre alle radici molto “arcade” vi sono anche velleità di mondo aperto, come si evince dalle cittadine da esplorare e i margini di personalizzazione per Red. Il gioco viene fortunatamente ben accolto sia da critica che pubblico, arrivando negli anni quasi al milione di copie.
Ma la cosa veramente importante non è tanto il successo o le copie. Red Dead Revolver è importante perché fa capire a Rockstar che un mondo aperto con a tema il Vecchio West è qualcosa di fattibile. Specialmente se si continua a lavorare sulla tecnologia: Red Dead Revolver gira sull’Angel Game Engine, motore grafico proprietario appunto degli Angel Studios. Dopo anni di RenderWare la casa di New York ha finalmente una tecnologia proprietaria, su cui lavorerà fino a farlo diventare il Rockstar Advanced Game Engine (RAGE). Questo altro non è che il motore su cui verranno costruiti non solo Red Dead Redemption, ma anche GTA IV, Max Payne 3 e il magniloquente GTA V, cosa che rende Revolver “nonno” di tutta la produzione Rockstar contemporanea.
Red Dead Redemption: l’Amato
Arriviamo quindi al famigerato 2010. Grand Theft Auto IV è uscito riscuotendo pareri controversi, specialmente sulla stabilità del codice e sulla poca scalabilità del RAGE nella versione PC. Nonostante questo è un successo e la sua tecnologia è la creta di base per modellare altri mondi e altre possibilità. Nel corso dello sviluppo di Red Dead Revolver la Angel Games si è rinominata Rockstar San Diego. Mentre la sesta generazione di console andava in pensione si erano mantenuti occupati con Midnight Club, ma l’amore per il West non li abbandona. Fin dal 2005 sviluppano un’ambizione segreta, coadiuvati dallo stesso Dan Houser che perde le nottate assieme ai suoi collaboratori per limare il RAGE. Ma gli sforzi vengono ripagati: Rockstar spende per Red Dead Redemption qualcosa come 100 milioni di dollari, e il risultato finale è uno dei migliori videogiochi di tutti i tempi.
La premessa, se vogliamo, è semplice ma efficace: John Marston è un ex-fuorilegge pentito, che nel 1911 si è ritirato a vita privata con la moglie Abigail e il figlio Jack. Proprio i suoi familiari vengono però presi in custodia da agenti federali degli Stati Uniti, che li rilasceranno solo se John consegnerà alla giustizia tutti i suoi ex-compari, facenti parte della Banda di Dutch Van Der Linde. John dovrà quindi tornare su una frontiera ormai morta, dove gli ideali non esistono più e si insegue solo lo spettro del guadagno. Quella di Red Dead Redemption è una storia graffiante, autentica e con poco umorismo, che si dimostra l’occasione perfetta per inscenare un vero e proprio funerale morale a un West che non ce la fa più, piegato com’è dalla politica, dalla segregazione razziale, dalla fame e dal proibizionismo. Questo si sposa a un gameplay duro come una roccia, perfetta sublimazione videoludica dello spaghetti-western. Forse per la prima volta in un gioco Rockstar dell’era moderna, per il giocatore era possibile scegliere tra la via autenticamente onorevole e quella del desperado, in un mondo aperto e dai grandi panorami evocativi e malinconici. La vicenda si sarebbe chiusa attorno a un finale amaro ma magniloquente come pochi altri. Anche la colonna sonora fu tecnologicamente innovativa: non vennero registrate delle tracce ma delle melodie, che poi il gioco armonizzava in tempo reale a seconda dell’azione a schermo. Pochissimi i difetti, tra cui delle missioni secondarie un po’ atipiche, gli eventi randomici e l’epilogo un po’ “nascosto”.
Red Dead Redemption II: l’Erede
A lungo si è pensato che Red Dead Redemption non avesse seguiti o sviluppi. Del resto, il finale del gioco non lasciava particolari sbocchi narrativi. Giustificato il motto ambiguo di “fuorilegge fino alla fine” che aveva accompagnato John e la sua crociata coatta, si sarebbero prese le mosse di suo figlio Jack Marston. Quest’ultimo avrebbe amaramente proseguito il suo viaggio alla frontiera, cercando di fare i conti con il vuoto incolmabile purtroppo lasciatogli dal padre. Era una premessa interessante ma comunque troppo vaga, in quanto insistere troppo sul tormento di Marston figlio probabilmente nel avrebbe compromesso anche la poetica. L’unico altro accenno di West da parte di Rockstar fu una corposa espansione: Red Dead Redemption Undead Nightmare. Una storia che abbandonava il dramma per far fronte a una paradossale e grottesca invasione zombie, in cui John si sarebbe dovuto ripercorrere tutta la Frontiera per trovare una cura per la sua famiglia contagiata. La vicenda era quindi conclusa, ma la speranza rimaneva. Una fiducia che, almeno una volta, è stata ricompensata. Red Dead Redemption II è infatti stato annunciato circa un anno fa, e da quel momento si sono andate susseguendo varie informazioni, che con l’avvicinarsi dell’uscita sono divenute sempre meno frammentate. Quel che sappiamo per certo è che la storia sarà ambientata nel “passato”, ovvero quando la banda di Dutch Van Der Linde era ancora coesa e a pieno regime. Una storia che quindi non riguarderà John Marston, all’epoca (siamo nel 1899) poco più che un ragazzo, ma un altro membro, tale Arthur Morgan, che dovrà relazionarsi con i suoi compari e sopravvivere su un West ancora una volta morente. Un videogioco che deve raccogliere un’eredità pesantissima, ma che ha già ricevuto grandi segni di stima, anche considerando la reputazione di Rockstar stessa. La sfida per casa Houser stavolta è diversa: più che impostare un nuovo universo, dovranno fare i conti con i vincoli indiretti del prequel, e capire quanto e come possono uscirne. Perché se i destini di Dutch e John li abbiamo già visti, è anche vero che non tutte le redenzioni sono state raccontate.

Siamo arrivati alla fine della retrospettiva sui videogiochi a tema West. Una (è proprio il caso di dirlo) cavalcata dagli anni Novanta fino a oggi, alla ricerca di una visione della Frontiera che fosse moderna e graffiante. Tale impresa è riuscita a Rockstar, che parallelamente ai suoi “soliti” Grand Theft Auto ha avuto l’ardire di fare uno dei videogiochi che, per quanto non altrettanto “ecumenico” come il loro crimine virtuale e satirico, è sicuramente uno dei più amati e ricordati della loro già ingombra bacheca dei trofei. Adesso non resta che aspettare ottobre, senza mai dimenticare chi era davvero il cowboy: niente colt e belle donne, ma praterie da attraversare e bestiame a cui badare.

Leggi altri articoli