Siamo tutti entusiasti (e probabilmente a ragione) per
Red Dead Redemption II. Lo scorso 2 maggio la Rockstar ha infatti diffuso il
terzo trailer del gioco, che fungerà da prequel del
Red Dead Redemption originale. Sarà infatti ambientato nel 1899, anni in cui il western agonizzava e la storia degli Stati Uniti prendeva un’altra direzione (ne abbiamo parlato
qui). Ma se la vicenda di
John Marston prima e
Arthur Morgan poi sono state le opere che l’hanno diffuso al pubblico di oggi, è anche innegabile che il
West è sempre stato un grande feticcio del mondo videoludico. Eppure, se rapportato ad altre ambientazioni, i videogiochi che ne sfruttano l’immaginario sono sorprendentemente di meno rispetto ad altri contesti ben più abusati. Il perché, forse, è da cercare nel grande impegno creativo che il vecchio west richiede. In questa prima parte della retrospettiva dei videogiochi a tema western parleremo degli “ispiratori” di
Red Dead Redemption, ovvero coloro che per primi nel videogioco si misero a esplorare praterie e deserti del Lontano Ovest. Prima di cominciare, una premessa: per quanto numericamente inferiori ad altri contesti, il numero di videogiochi ambientati nel
West rimane comunque troppo grande per sviscerarli tutti nel dettaglio. Ne prenderemo quindi solo alcuni, atti a rappresentare simbolicamente il cammino che ha portato alla concezione moderna di “western videoludico”.
Sunset Riders: l’Antenato
Lasciati alle spalle gli esordi del medium videoludico e rappresentazioni trash e approssimative (tra cui il famigerato e controverso Custer’s Revenge di inizio anni ottanta), nel 1991 Konami pubblica in sala giochi Sunset Riders. La trama, come molte altri videogiochi dell’ultimo periodo dell’arcade “pixel con stile”, è un semplice pretesto: dei cacciatori di taglie che sconfiggono banditi via via sempre più importanti. A livello di gameplay Sunset Riders è la via sicura dello shooter a scorrimento orizzontale (Contra ma non troppo), in cui il giocatore deve farsi largo a colpi di pistola in una serie di scenari riconoscibili ma comuni nel vecchio West. Dalla cittadina con saloon e avvenenti “ballerine” alle regioni selvagge e i treni in corsa, passando per sezioni a scorrimento continuo in groppa al fidato destriero. Un videogioco semplice e accessibile, altro risultato delle sperimentazioni di design effettuate dalla Konami dalla fine degli anni Ottanta in poi. Proprio da queste ultime derivava una delle maggiori attrattive del gioco, ovvero la possibilità di consumare la caccia insieme ad altri tre giocatori, portando a quattro il numero di personaggi a schermo. Per quanto non fosse l’unico gioco a proporla (contemporanei a lui erano il tie-in dei Simpson sempre di Konami, mentre The King of Dragons della Capcom si fermava a “solo” tre) era effettivamente tra i primi a proporre un’ambientazione western dai colori sgargianti, tanto da ricordare le produzioni animate sempre di quegli anni. I quattro personaggi giocabili (Steve, Billy, Bob e Cormano) erano accordati nel loro rappresentare bonariamente gli stereotipi del vecchio west esattamente come i cattivi che combattevano. Questi andavano dal grezzo bandito al dandy raffinato, passando per il politico corrotto. Elemento ancor più caratteristico era il fatto che il gioco avesse autentiche voci registrate, con “frasi a effetto” per protagonisti e antagonisti. L’ambientazione western e la struttura generale da “Run and Gun” saranno poi riutilizzate da Konami stessa l’anno successivo per Wild West C.O.W.-Boys of Moo Mesa, tie-in della serie animata omonima sempre di inizio anni Novanta che aveva come protagonisti bovini antropomorfi.
Gun: il Secchione
Acceleriamo leggermente, arrivando agli anni Duemila. Stavolta gli sviluppatori protagonisti sono gli ormai defunti Neversoft. Questi ragazzi californiani sono diventati famosi al grande pubblico prima per i videogiochi Tony Hawk’s e poi per aver lavorato al franchise di Guitar Hero. Sempre opera loro, nel 2000, era il mai dimenticato Spider-Man per PlayStation. Con i Tony Hawk’s come accompagnamento economico, i Neversoft trovarono tuttavia il modo di coltivare una nuova ambizione, quella del West. Il risultato fu Gun, action-adventure pubblicato nel 2005 sulle console di sesta generazione sull’allora esordiente Xbox 360, per la quale fu titolo di lancio. Forse per la prima volta in assoluto, Gun voleva rendere il West virtuale un mondo “aperto”, in cui il giocatore avrebbe potuto aggirarsi alla ricerca di missioni primarie, secondarie e collezionabili. Anche a quell’epoca il paragone con Grand Theft Auto fu inevitabile, e volendo questo fu tanto un vantaggio quanto quasi una rovina. Il free-roaming di Gun era ovviamente più ristretto rispetto ai titoli Rockstar, enfatizzandosi di più sulla trama principale, una storia di vendetta del protagonista Colton White (detto Cole). Caratteristica narrativa interessante è come praticamente tutti i personaggi principali abbiano una qualche ispirazione storica. L’amico di Cole Soapy Jennings, per esempio, è ispirato a Soapy Smith, truffatore realmente esistito all’epoca del west e ispirazione anche per Soapy Slick, il viscido strozzino della Saga di Paperon de’ Paperoni di Don Rosa. Le ambizioni della Neversoft si rifletterono anche sul coinvolgere attori famosi come Thomas Jane (ai tempi volto cinematografico del Punitore Marvel) e il massiccio Ron Perlman (comparso nel primo Pacific Rim e in Animali Fantastici). Da un punto di vista di gameplay il gioco tentava di ibridare l’azione sia in terza che in prima persona, combinando una serie di scenari e situazioni comuni nell’immaginario collettivo del West, tuttavia trattate in maniera assai meno idealistica. Il gioco su console risentì comunque di alcune rigidità nei controlli (specialmente nei menu) che lasciavano intendere inconfessate origini PC. Il paragone con GTA fu inoltre un po’ impietoso, e nonostante i buoni voti generali Gun non ricevette acclamazioni, mentre la versione per Xbox 360 fu accolta più freddamente. Il successo fu comunque abbastanza da fare un porting su PlayStation Portable intitolato Gun: Showdown, che tra l’altro annoverava anche una modalità multigiocatore.
Samurai Western: il Freak
Chiudiamo questa prima parte della retrospettiva con il titolo che di solito non ci si aspetta. Per ricordare come, accanto alle vecchie glorie e alle trame serie e seriose, con ambizioni cinematografiche e di “frontiera aperta”, c’è sempre quel compare all’apparenza svampito ma con una sua logica. Nella sesta generazione di console, proprio accanto a Gun, la parte del “divertente a modo suo” lo ha rivestito Samurai Western dell’Acquire. Il gioco è il figlioccio della serie Way of the Samurai, saga videoludica da sempre in sordina nata su PS2 è riuscita a giungere anche PlayStation 3 e poi il PC nel 2015. Basta comunque il titolo per dedurre la materia di fondo di tale spin-off: un samurai di nome Gojiro Kiryu si avventura nel selvaggio West alla ricerca di suo fratello, che scoprirà essere correlato al riccone locale Goldberg. Gojiro si dimostra il classico stereotipo del bushi giapponese: taciturno, devoto alla propria spada e senza la minima intenzione di imparare un’altra lingua oltre a quella madre. Il legame che stringerà sarà quello con il cowboy Ralph, che lo aiuterà nelle cutscene e potrà essere utilizzato da un secondo giocatore in multiplayer locale.
Abbandonata qualunque velleità adventure o finale multiplo della serie madre, Samurai Western si concentra sull’azione pura, chiassosa e allegramente splatter. Tutto è focalizzato sull’esaltante (e inverosimile) vittoria della katana contro la colt, con Gojiro che si muove alla velocità del suono tagliuzzando gli scagnozzi di Goldberg che tentano di sparargli. I livelli del gioco risentono molto di una canonica struttura “ad arena”, dove prevalere sulle orde di nemici e successivamente sul boss (da estetica esagerata e allegramente “giapponese”). In sé la trovata è esaltante e divertente, ma parimenti il gioco soffre di una durata esigua e una difficoltà poco calibrata, col risultato che certi livelli sono fin troppo facili e altri che invece obbligano a molteplici tentativi. Come se la struttura non fosse già severo di suo (i proiettili incassati sono ovviamente molto dannosi), il gioco vive anche di una tecnica non perfetta. Non mancano le volte in cui i nemici non compaiono o si incastrano in angoli irraggiungibili, al punto tale da richiedere l’intervento di un altro giocatore, che impersonando Ralph è l’unico in grado di colpire a distanza. La critica ovviamente si accorse di tutto ciò, risultando in valutazioni solo nella sufficienza. Da segnalare come l’edizione americana avesse una bella copertina opera di Kenneth Rocafort, ora disegnatore professionista.
Il western videoludico non è stato solo John Marston. Prima che arrivasse lui a mettere tutti “in riga” molteplici altri creativi avevano tentato questa strada improba. Perché il West non può e non deve fermarsi agli stereotipi, ma pretende che coloro che che si cimentano con lui (che siano singoli autori o team) ne cerchino effettivamente la sfaccettatura che per loro presenta la maggior quantità di cose da dire. Forse per questo gli sviluppatori che se ne sono occupati avevano le origini esperienze tra le più svariate. Perché il western videoludico non era solo Lucky Luke e i suoi strascichi. Appuntamento alla seconda puntata, dedicata alle origini e alla redenzione del Morto Rosso di Rockstar!