L.A. Noire, il capolavoro "sbagliato" che avrebbe meritato di più

L.A. Noire, la pecora bianca di Rockstar Games: era davvero un capolavoro? E se pure lo era, perché non fu compreso?

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Un videogioco pieno di difetti, eppure da molti visto come un capolavoro. Passato per uno sviluppo travagliato, amato dalla critica ma ignorato da un pubblico abituato a vedersi proposto ben altro dai suoi autori: ecco a voi L.A. Noire, l’ultimo esperimento di quello stato di grazia vissuto da Rockstar Games alla fine degli anni Duemila (eccolo su Amazon, sia su PS4, One e Switch). Che ne sia stato il culmine?

L.A. Noire è un capolavoro, e a più di dieci anni dall’uscita la nostra opinione non è cambiata. Però lo stesso periodo di tempo ha fatto emergere altri significati prima nascosti in questo lavoro ormai (ingiustamente) di nicchia di Rockstar Games.

Proviamo a scoprirne qualcuno e a capire come a volte “capolavoro” faccia rima con “difetti”.

L.A. Noire, o “non posso credere che l’abbiamo fatto davvero”

Gli anni tra la seconda metà dei Duemila e i primi 2010 sono stati per Rockstar Games un periodo molto fitto: assicuratisi una prosperità di fatto eterna con Vice City e San Andreas, c’era finalmente lo spazio per sperimentare senza timore di rimetterci l’azienda.

Il laboratorio che ne scaturì generò quelli che tuttora sono considerati (chi più chi meno) tra le loro invenzioni più riuscite e memorabili. È a questi anni che risalgono infatti l’irriverente ma unico Canis Canem Edit, il rivoluzionario ma incompreso Grand Theft Auto IV e soprattutto l’immortale primo Red Dead Redemption.

Col senno di poi, possiamo dire che questa ondata è stata chiusa nel 2011 proprio da L.A. Noire, progetto del Team Bondi acquisito di striscio a Sony, ambiziosissimo perché nato dall’idea semplice ma esplosiva di capovolgere ruoli e interazioni.

Dopo quasi quindici anni passati a inventare e perfezionare il genere del criminal sandbox, cosa ci poteva essere di più “ribelle” per Rockstar se non farci impersonare proprio quello che, seppur bonariamente, era da sempre “il Nemico”?

Come molti già sanno infatti, in L.A. Noire interpretiamo Cole Phelps, un irreprensibile agente di polizia che grazie al proprio talento investigativo comincerà una fulminea scalata nei ranghi del suo dipartimento.

Ci troviamo nella Los Angeles dei tardi anni Quaranta: nonostante l’America si trovi in un momento di eccezionale grazia, prestigio e prosperità, Cole capirà presto che neanche il più illimitato dei benesseri è in grado di attenuare le perversioni, le ipocrisie e le follie dell’animo umano. E che neanche il più retto e osannato dei veterani della guerra nel Pacifico ne é immune.

Poliziotto e… pedagogo?

L.A. Noire ha un gameplay molto particolare, che in questa sede non vogliamo riportare troppo onde non rovinare la sorpresa a chi non l’ha mai provato. Come già dicevamo quando abbiamo recensito il remaster qualche anno fa, uno dei motivi per cui L.A. Noire è un passo avanti rispetto agli altri sta nel suo discostarsi dallo stereotipo dell’investigatore.

Caso dopo caso, il gioco del Team Bondi scuce la maschera cinematografica e televisiva del detective come un eccentrico che vive di colpi di genio donati da una mente che somiglia a una scatola nera, presentandolo invece per quello che é davvero: una persona razionale il cui lavoro è fatto di analisi, interrogatori, indagini, lunghi ragionamenti e un bel po’ di noia.

Questo tipo di lavoro intellettuale è riconducibile alla metodologia del problem solving, ed è al suo interno che si colloca quella che in psico-pedagogia si chiama insight.

Esaminata dai due psicologi Kohler e Wertheimer, essa è la realizzazione improvvisa che porta a una profonda ristrutturazione del problema da risolvere. Con questo processo di ristrutturazione cognitiva si collegano in modo unitario elementi nell’ambiente prima scollegati.

L’insight è la fase se vogliamo più spettacolare del processo, dunque non c’è da stupirsi che sia quella più mostrata da cinema e televisione. Eppure l’insight, nonostante il suo apparente “cadere dal cielo”, è in realtà il risultato di un lungo e duro lavoro avvenuto in precedenza, senza il quale non si verificherebbe mai.

L.A. Noire: da una grande forza derivano grandi debolezze

Ma ecco qua che arriva sia la più grande forza che la più grande debolezza di L.A. Noire: egli è vittima del suo stesso realismo, e non riesce a nascondere né la ripetitività di fondo della progressione, né le noie e le lungaggini implicate nel mestiere di detective.

Le stesse fasi di spostamento in macchina per la vastissima Los Angeles o lo sventare crimini di strada paiono messe lì solo come un “contentino” per giustificare la presenza di una mappa così vasta e accurata.

Inoltre il fatto che a un certo punto della storia si cambi personaggio ma le meccaniche di indagine e interrogatorio rimangano esattamente le stesse a nostro avviso snatura un po’ le premesse della storia, in quanto scolorisce Phelps e le sue abilità investigative fino a quel momento presentateci come fuori dal comune.

Stiamo parlando di quelli che tecnicamente sarebbero errori di design, in quanto con tale disciplina si impara ad alterare contesti, meccaniche e situazioni in modo da renderle avvincenti da giocare e accettabili nell’ambito della sospensione dell’incredulità; ma in L.A. Noire sono difetti talmente enormi e palesi da lasciar pensare che sia tutto voluto.

Se così fosse, con L.A. Noire ci ritroveremmo davanti a una ribellione diretta e sincera a quel game design ormai piegato al solo intrattenimento violento nei modi e nei contenuti.

Tutto in L.A. Noire invita a un gusto senza fretta, a sessioni relativamente piccole e a modo loro autoconclusive, quasi fossero i “giallini”, le detective stories che la Mondadori pubblica da più di 90 anni e il cui nome è ormai proverbiale qui in Italia.

Il gioco propone i suoi 26 casi (21 di trama principale, 5 di contenuti aggiuntivi) con un’impostazione da serial televisivo, tra i nomi presentati come titoli di film alla suddivisione tra i vari incarichi (Pattuglia, Traffico, Omicidi, Narcotici e Incendi dolosi) quasi fossero le stagioni di uno dei tanti telefilm polizieschi che ciclicamente spopolano in televisione.

Technicolor videogaming

In L.A. Noire il tributo al cinema è evidente, ma si rende raffinato nell’accurata scelta dei cromatismi, che spaziano dall’ovvio bianco e nero fino a una resa dei colori particolarmente satura. Una scelta voluta forse per omaggiare il Technicolor, la celeberrima tecnologia per girare pellicole a colori e che – guarda caso – era il procedimento più diffuso negli Stati Uniti proprio negli anni in cui L.A. Noire si ambienta.

L’aspirazione al cinema si espande poi verso orizzonti praticamente metavideoludici: nonostante il “secondo piano” nel gameplay, la ricostruzione della Los Angeles degli anni Quaranta si arroga la ribalta e assurge a protagonista silenziosa, foriera di dettagli decifrabili solo alla conoscenza tacita di chi è statunitense.

La stessa industria del cinema, nell’inquietante indagine che fa da fil rouge della sezione Traffico, viene denudata nei suoi aspetti meno edificanti: mentre all’esterno si vende come fabbrica di sogni, all’interno mastica e poi sputa le menti (nonché i corpi) di chi sogna una vita da star.

Rompere le regole

Chi ha giocato L.A. Noire fino in fondo già conosce sviluppi e fine della parabola di Cole Phelps. Meno noto è il suo percorso commerciale: il gioco venne valutato positivamente dalla critica, sebbene se pochi, specialmente su settima gen, gridassero al capolavoro. Nel 2011 il gioco arrivò a piazzare cinque milioni di copie, a cui se ne aggiunsero altri due milioni e mezzo con la remaster sei anni dopo.

A conti fatti forse è già una fortuna che sia uscita la riedizione su PS4 e Xbox One, che di fatto gli ha permesso di sopravvivere due generazioni grazie al supporto in retrocompatibilità di PlayStation 5 e Xbox Series X.

Se presi da soli sono bei risultati, ma paragonati a quello che il medesimo editore aveva fatto in quegli anni (nonché quello che farà dopo, pensate a GTA V) sono numeri un po’ bassi. Tuttora il pubblico che ha avuto la fortuna (o la pazienza) di giocarlo lo riconosce come uno dei pargoli di Rockstar più sottovalutati.

Certo non è l’unico – ma la delusione con lui è se possibile ancor più grande perché non era né un rischio calcolato (Red Dead Redemption) né un esperimento una tantum (Canis Canem Edit) né una parte di un franchise già consolidato e quindi facilmente offuscabile qualora andasse male (GTA IV).

Tra creatività, rievocazione, tecnologia e trama L.A. Noire aveva tutte le carte in regola per diventare un kolossal in odore di rivoluzione: ha centrato solo uno di questi due bersagli.

Conclusione: guardie e ladri

Se siete arrivati fino a questo punto dell’articolo, vi sarete già resi conto che qualcosa sembra non tornare: non abbiamo infatti risposto alla domanda sul perché abbiamo definito L.A. Noire come “sbagliato”.

L.A. Noire è un capolavoro perché, oggi come ieri, smonta i miti e tenta una strada nuova e tutta sua, con un guizzo d’autore e una tecnologia che su certi aspetti sono d’avanguardia ancora oggi. La naturalezza con cui questo videogioco riesce a fondere poliziesco, investigazione, musica, atmosfera e recitazione è una di quelle cose che si vedono poche volte nell’arco di una vita.

E forse uno dei motivi per cui non fu (e in parte ancora non è) riconosciuto come tale dall’opinione pubblica è che ancora troppo avanti per l’epoca in cui viviamo.

In qualche modo, con L.A. Noire si è ripetuto quel fatto straordinario di Vice City: per le strade virtuali di L.A. Noire c’è un’epoca intera, quella dell’America rampante, prospera (ma anche ipocrita e repressiva) del secondo dopoguerra.

E allo stesso tempo, queste sue abilità eccezionali in un ambito estremamente ristretto si pagano accettando e sopportando ospiti (difetti) molto scomodi, come la ripetitività di fondo della progressione, la tecnica zoppicante, le sequenze di azione infilate a forza.

Doveva essere solo un “altro titolo stile Rockstar” e con questa bugia bianca l’hanno venduto: in questo senso, è un titolo “sbagliato”, troppo diverso, troppo con i paraocchi e svogliato quando non fa quello che gli piace. Ma quando invece lo vedete all’opera su quello che sa far meglio… allora reggetevi forte e sperate di non cadere.

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