Noi italiani videogiochiamo tanto. Ve ne avevamo parlato qualche tempo fa, quando il più recente rapporto di IIDEA, prendendo come riferimento i dati del 2021, aveva suggerito che circa il 35% della popolazione tra i 6 e i 64 anni giochi ai videogiochi per 8,7 ore alla settimana di media.
C'è però un'altra cosa che noi italiani stiamo facendo sempre di più, ed è sviluppare i nostri videogiochi. Sappiamo che l'industria è composta da due facce della stessa medaglia: chi i videogiochi li consuma, li vive, li fruisce; chi i videogiochi li rende possibili, portando quelle che sono solo delle idee a divenire realtà, a forza di ingegno e duro lavoro.
Se tanti di noi possono identificare facilmente il nostro Paese nella prima categoria, con gli anni è stato complicato vederci come fiore all'occhiello della seconda. E questo non perché non ci fossero delle realtà che proponessero dei videogame made in Italy, ma perché abbiamo faticato rispetto ad altri Paesi anche limitrofi – pensiamo alla Francia, semplicemente scavalcando le Alpi – a fare affermare le possibilità creative degli sviluppatori nostrani. A supportarle.
Ecco perché, pensando al punto di partenza, quando abbiamo riferito della calda accoglienza avuta da First Playable, siamo rimasti colpiti dai passi in avanti fatti dalla nostra industria in questi anni – anche con una pandemia di mezzo.
L'evento svoltosi a inizio luglio (qui il sito ufficiale) presso gli Arsenali Repubblicani di Pisa ha messo insieme 30 publisher, 90 studi di sviluppo italiani, rappresentando un vero e proprio punto di incontro tra i creativi italiani e l'enorme mercato internazionale.
Significa che siamo a un punto di svolta per il videogioco made in Italy, più intenzionato che mai a guardare al di là dei nostri confini per raggiungere i più ampi mercati di videogiocatori? Abbiamo avuto la possibilità di sederci a parlarne con Thalita Malagò, direttore generale di IIDEA (associazione di categoria dell'industria dei videogiochi in Italia) e con Stefania Ippoliti della Toscana Film Commission, che con il suo supporto ha reso possibile l'appuntamento di First Playable.
Della crescita del nostro mercato, di quali siano le occasioni oggi per chi vuole iniziare o chi ha già mosso i primi passi, di come inquadrare il futuro tenendo conto dei primi provvedimenti che anche l'Italia ha attuato per favorire un'industria ricca di possibilità: abbiamo parlato di questo, ma anche di tanto altro, e vogliamo raccontarvelo.
- L'importanza di internazionalizzare
- Perché i passi in avanti sono arrivati solo di recente?
- Giocare in difesa e giocare in attacco: lavorare con il videogioco in Italia
- Videogioco e cinema: l'idillio italiano
- Il supporto per chi vuole creare videogiochi in Italia, oggi
- E se sto solo muovendo i primi passi?
- Il videogioco, secondo chi lavora con il videogioco
L'importanza di internazionalizzare il videogioco italiano
Se avete seguito da vicino First Playable, avrete notato il convinto piglio internazionale dell'evento. Con molti partner arrivati dall'Europa (si parla di Regno Unito, Francia, Olanda, Spagna, Svezia, Danimarca e Polonia), media partner anglofoni e conferenze in inglese, l'appuntamento ha espresso a chiare lettere di voler parlare a un pubblico molto più ampio della sola Italia.
Quando le ho domandato perché, Thalita Malagò mi ha spiegato che internazionalizzare è di importanza fondamentale, per gli autori del videogioco Made in Italy.
«Dal momento che le nostre imprese hanno un target internazionale, noi come associazione non possiamo limitare il nostro sguardo all’Italia, perché rappresenta forse il 5% del mercato degli sviluppatori. Per cui, per noi è assolutamente importante dare una visibilità al loro lavoro a livello internazionale – sia verso i consumatori che verso i publisher che possono investire nei loro prodotti, sia verso stampa e influencer» mi ha raccontato.
E non poteva essere altrimenti, perché «dobbiamo avere i riflettori puntati sull’Italia come Paese produttore, non solo consumatore. Abbiamo bisogno di posizionarci nella lista di chi i videogiochi li fa e non solo li compra e ci gioca». Una concezione che fino a oggi è mancata, un messaggio che non era stato fatto passare in modo vigoroso, ma di fronte a cui ora vediamo un cambiamento.
Quello che mi racconta Malagò a questo punto è uno dei concetti che mi ha colpito di più della nostra chiacchierata: un tempo era impensabile, ma oggi ci sono sviluppatori e aspiranti tali che, dall'estero, si informano in merito all'opportunità di lavorare in Italia.
Come raccontato dal direttore generale:
«In First Playable è stato divertente trovarci con alcuni sviluppatori 'veterani' e ci dicevamo come dieci anni fa avevamo lo stand Italia alle fiere internazionali e avevamo le persone che venivano lì a chiederci 'si sviluppano videogiochi in Italia?'.Quest'anno, invece, alla GDC avevamo ragazzi e ragazze che venivano a chiederci come venire a lavorare in Italia nel settore dei videogiochi, perché apprezzano il nostro stile di vita. Magari noi non siamo ancora pronti ad accogliere orde di studenti dall’estero, anche se si inizia ad avere dei collaboratori grazie al remote working, però questo è il punto per noi».
A rendere possibile questo cambiamento nella percezione del nostro mercato è stato anche l'appuntamento con eventi come First Playable, orientati al comunicare con il resto del mondo.
«Non ce lo abbiamo avuto fino a qualche anno fa perché non c’era la massa critica per poterlo fare: ogni Paese che si rispetti ha il suo o suoi a seconda dei casi. Se l’Italia vuole comparire nel radar dell'industria dei videogiochi a livello globale deve avere un suo appuntamento business, di settore» mi spiega Malagò, che mi anticipa di avere l'ambizione di far tornare l'evento anche il prossimo anno, con magari ospiti anche dall'America o dalla Cina, se le condizioni logistiche (anche della pandemia) lo permetteranno.
«First Playable per noi è un modo non soltanto per creare una vetrina, una finestra per gli sviluppatori italiani verso il mondo, ma è anche un modo per costruire la nostra community. Avere un luogo dove tutti si possono incontrare a livello italiano, parlare di business e collaborazione è comunque fondamentale. Noi dobbiamo agire all’unisono, anche se le aziende e gli studi poi agiscono in un modo in cui ognuno fa il proprio lavoro, ma è importante creare un senso di identità, di appartenenza a un settore con una visione e dei valori comuni. Questo in Italia sta cominciando a esserci in modo importante».
Perché i passi in avanti sono arrivati solo di recente?
La riflessione di Thalita Malagò mi serve un assist a porta vuota: mi domando perché in Italia tutto questo stia cominciando a esserci solo adesso, perché non sia stato possibile renderlo realtà prima.
Al di là della massa critica che non c'era, mi chiedo proprio il perché non ci fosse. Quali opportunità così diverse dalle nostre ha avuto la Francia, ad esempio, per diventare da tempo la culla di un gigante mondiale come Ubisoft, mentre in Italia ci stiamo finalmente affacciando ora su una maggiore internazionalizzazione?
Quello che Malagò mi spiega mi offre una visione d'insieme sul nostro mercato:
«Storicamente l’Italia non è stato un Paese con grandi player nel settore. Se pensi alla Francia, per fare un esempio di un Paese vicino, ha dato i natali a Ubisoft. L’Italia non ha mai avuto un player di questo calibro o una tradizione forte. Quello che però ha fatto scattare la scintilla per il game development è stato intorno al 2010, l’esplosione del mobile gaming: si sono abbassate le barriere di ingresso nel mercato e molti piccoli team hanno cominciato a nascere così.Quello che però abbiamo visto nel corso degli anni con grande soddisfazione è che molti team non solo esistono ancora, ma ora sono cresciuti e sono stati acquisiti da gruppi internazionali, o sono rimasti indipendenti ma portano avanti delle produzioni che hanno dietro publisher internazionali importanti. O stanno avendo riconoscimenti importanti anche al di fuori dell’Italia».
L'avvento del mobile gaming oltre dieci anni fa, insomma, ha rappresentato una porta aperta anche in direzione di un Paese – il nostro – che era purtroppo stato miope nel vedere le occasioni di lavoro rappresentate dal videogioco.
«Anche i team più piccoli e più giovani si stanno posizionando nel settore in modo diverso, con più professionalità, con maggiore attenzione al business. Te lo dico perché ad esempio in First Playable è stato molto interessante parlare con alcuni publisher che erano stati a Pisa nel 2019 e gli abbiamo chiesto 'cosa portate via da questa edizione?', e molti ci hanno detto 'la cosa bella è che nel giro di qualche anno ci sono degli studi che sono cresciuti molto', e c'erano anche una ventina di nuovi team usciti dagli acceleratori lanciati quest'anno in Italia che si sono presentati preparatissimi ad un incontro di business».
Iniziative come gli acceleratori – su cui torneremo – hanno in effetti permesso a nuovi creativi di avvicinarsi al mondo dei videogiochi per farne la loro futura professione. Lo scopo di IIDEA, mi spiega il direttore generale, è fare in modo che da questo universo in fermento nasca un'industria consapevole, con nuove opportunità di impresa.
«Ci fa piacere se i videogiochi vengono sviluppati anche a livello amatoriale, ma a noi interessa creare un’industria sul territorio che dia lavoro, che crei degli imprenditori, che diventi una delle perle dell’export del made in Italy – che per noi è fondamentale».
E vedere porte finalmente aperte per chi vuole creare i videogiochi anche in Italia, non più costretto a guardarsi intorno solo in direzione dei Paesi esteri, è già a suo modo una prima conquista memorabile:
«Spesso e volentieri vediamo ancora una resistenza nei confronti del settore, che penso però nel corso del tempo sia destinata a venir meno per una questione anagrafica e un po’ per una questione di sviluppo a livello locale.Se abbiamo un’industria che esiste, che dà lavoro a dei professionisti che hanno competenze molto alte e diversificate, se siamo in grado di produrre dei prodotti che hanno una risonanza anche all’estero, tutto questo non può che aiutare».
Dal giocare in difesa al giocare in attacco
C'è ovviamente anche un problema culturale, dietro al fatto che l'industria dei videogiochi in un Paese come il nostro non si sia sviluppata come nella già citata Francia.
Su SpazioGames.it ci siamo ritrovati a parlare, a più riprese, della difficoltà che i media italiani spesso hanno a parlare del videogioco, che viene tirato in ballo solo quando c'è da discutere dei rischi che rappresenta. È raro leggere o sentire delle sue opportunità, con il risultato che anche quelle legate al business non hanno dato frutto come avrebbero potuto.
È una visione che anche Malagò mi conferma, quando le chiedo delle difficoltà di fare questo lavoro – il voler creare un business consapevole per un'industria dei videogiochi italiana – in un Paese storicamente diffidente davanti ai nuovi media:
«Non è tuttora facile, però devo dire che ci sono stati dei cambiamenti importanti nel corso degli anni. Mi ricordo che quando ho iniziato a svolgere questo lavoro – lo dico sempre perché l’ho vissuto sulla mia pelle – per lunghi anni abbiamo giocato in difesa. Il nostro lavoro era quello di parare i colpi, di difendere l’industria da attacchi di diverso tipo.Oggi questi attacchi ci sono ancora, i pregiudizi sono ancora molti, però vediamo anche grandi aperture nei confronti del settore. Questo ci ha permesso in questi ultimi anni di giocare più in attacco, iniziando a chiedere supporto per il settore, perché in Italia cresca un’industria».
E, con "grandi aperture", si intendono anche quelle istituzionali, che hanno portato a misure come il tax credit per i videogiochi, simile a quello che già esisteva per il cinema, con la legge cinema del 2016.
«Poi lasciamo stare che ci sono voluti diversi anni per l’implementazione, ma quest’anno è stato finalmente attuato e ha assegnato i primi fondi» ha aggiunto Malagò.
Videogioco e cinema: l'idillio italiano
Visto il riferimento al tax credit sul cinema, e visto che First Playable è stato reso possibile anche e soprattutto grazie alla Toscana Film Commission, ho trovato interessante questo incontro tra la realtà videoludica e quella della settima arte.
Mentre videogioco e cinema si intersecano sempre di più, tra franchise cross-mediali e linguaggi sottoposti a palese rimediazione, mi sono chiesta come sia scattato l'idillio tra IIDEA e la Toscana Film Commission.
A tal proposito, mi risponde Stefania Ippoliti, che mi spiega:
«I toscani sono molto legati alla storia e alle tradizioni ma, per fortuna, anche curiosi e attenti alle nuove cose e i videogiochi sono un’espressione affascinante del racconto per immagini coniugato al gioco e all’intrattenimento. Abbiamo potuto apprezzare la creatività che gli sviluppatori italiani sanno mettere nel realizzare queste produzioni e nel superare le difficoltà tecniche che si trovano ad affrontare.Ci ha sorpreso positivamente la cura dedicata al contesto, agli scenari e la sensibilità che in alcuni videogiochi serve per affrontare certi temi e sviluppare certi racconti. Tenere insieme tutto questo è un’espressione culturale contemporanea, potente: impossibile non appassionarsi».
Se da un lato c'è il fascino esercitato dai videogiochi, dall'altro c'è anche la pura questione logistica: «ci siamo detti che forse i tempi fossero maturi per un’operazione contraria: andiamo sempre all’estero, potremmo invece portare in Italia i publisher internazionali. Li portiamo qui da noi, diamo una vetrina agli sviluppatori italiani e accogliamo i publisher internazionali anche con la bellezza del nostro Paese» aggiunge Malagò.
«Per fare tutto questo, l’associazione non poteva riuscirci da sola: anche a livello di costi e di organizzazione, un evento di questo tipo richiede un impegno importante. Per questo abbiamo fatto un pitch e siamo andati a bussare alle porte di diverse istituzioni che lavoravano sui territori e Toscana Film Commission ci ha accolto a braccia aperte e ci ha dato la disponibilità a supportarci e ospitarci in una regione così iconica per il nostro Paese».
Già nel 2019, in effetti, c'era stato l'appuntamento presso le Manifatture Digitali Cinema di Pisa. La pandemia, però, ha congelato ogni altro discorso, fino a questo 2022.
«È un amore nato così, con la Toscana. Poi loro si sono avvicinati di più al settore: ospitando questo evento hanno avuto la possibilità di entrare più da vicino, conoscere gli sviluppatori, capire come funziona. Di fatto, sono una delle istituzioni italiane che ha dimostrato maggiormente di supportare il settore. Da un lato spero che la collaborazione con loro si sviluppi in modo sempre più importante, dall’altro spero che altre realtà istituzionali si accorgano di come si può collaborare in modo virtuoso tra il settore privato dei videogiochi e il settore pubblico, per far crescere una perla della nostra industria, culturale e creativa».
Ma, attenzione, perché questo non significa affatto che il videogioco voglia cercare in Italia una sorta di ala protettrice sotto il cinema, da sempre stimato e riconosciuto come arte nobile. Come mi ha spiegato Malagò:
«Quello che ci tengo a sottolineare è che per noi è assolutamente fondamentale che il videogioco abbia una legittimazione in sé, non in quanto uno strumento che può servire ad amplificare la visibilità di un film o di altri prodotti. È importante lavorare sulla legittimazione del videogioco in quanto tale».
Il riferimento è al fatto che anche l'industria italiana sta vedendo, oltretutto, l'arrivo di grandi IP del cinema (ma anche dell'intrattenimento in genere) nel mondo videoludico: pensiamo all'annuncio di Nacon Studio Milan con Terminator, che rappresenta una grande occasione per il team ma che non deve portare – così come gli altri tie-in – a immaginare il videogioco come un medium-megafono che non abbia un suo linguaggio e delle sue colonne portanti, anche in termini di proprietà intellettuali.
«Penso che il videogioco possa andare ancora oltre ed esplorare linguaggi e contaminazioni sorprendenti. Quello che sanno fare gli sviluppatori di videogiochi può essere prezioso in molti campi, oltre a quello cinematografico. Cultura, talento, tecnica e innovazione: tutti ingredienti di cui l’arte si nutre» ha aggiunto Ippoliti.
Il supporto per chi vuole creare videogiochi in Italia, oggi
Si è parlato tanto delle prime misure adottate ufficialmente dall'Italia per provare a supportare l'imprenditoria del videogioco. Pensiamo al recente First Playable Fund, ad esempio, ma anche al tax credit.
Mi sono domandata quale sia, oggi, la situazione per chi vuole orientarsi nel nostro Paese, sia tra chi ha una realtà che sta muovendo i primissimi passi, sia tra chi non ha ancora nemmeno idea di quali questi primi passi possano essere.
Thalita Malagò mi ha fornito un quadro completo che condivido con voi, affinché possa essere utile ai futuri talenti del videogioco che leggono SpazioGames.it.
Il tax credit per i videogiochi in Italia
«Il tax credit intanto è diventato operativo in Italia nel 2021 con una dotazione finanziaria di 5 milioni di euro e un limite per azienda di 1 milione di euro. Si è trattato di un inizio, da qualche parte bisogna iniziare e lo abbiamo fatto così. Già per quest’anno è stata aumentata la dotazione finanziaria, passando dai 5 agli 11 milioni di euro, che comunque sono un investimento importante per il nostro settore in quanto il tax credit copre il 25% dei costi di produzione e quindi significa che si possono attirare investimenti nella produzione pari a 44 milioni di euro, che non sono pochi».
Snocciolandomi quei numeri, Malagò ha un'espressione a metà tra la soddisfazione e la voglia di fare. Si vede che ritiene positiva l'esistenza del tax credit per cui ha lungamente lottato, ma sa anche che c'è bisogno di più risorse.
Me lo conferma a parole subito dopo:
«Quello che abbiamo chiesto in questo momento è di agire, se possibile nel breve termine, nel limite per azienda, portandolo da 1 milione di euro a 2, in modo da dare la possibilità alle aziende di partecipare al tax credit per produzioni più ambiziose.È ovvio che il nostro obiettivo sia quello di far crescere l’industria in quantità di imprese ma anche in qualità di produzioni, nel loro impatto. Se vogliamo avere produzioni importanti, è ovvio che dovrà essere più importante il supporto».
Sarà importante, per il futuro, anche aumentare la dotazione finanziaria per favorire la nascita dei progetti. La Francia, ad esempio, ha una dotazione di 70 milioni per il suo tax credit e IIDEA si augura che per l'Italia possa esserci a sua volta una crescita.
«Al di là delle nostre richieste penso sia importante che le aziende poi, una volta ricevuta questa misura, siano in grado di portare al nostro Governo dei risultati con quello che è stato fatto. Se queste misure vengono utilizzate, e vengono utilizzate bene, arriva una maggiore spinta, perché sono misure che possono essere migliorate».
Un fondo per i team di sviluppo alle prime armi
L'idea del tax credit, mi spiega Malagò, è però appetibile soprattutto per chi ha già un'azienda strutturata. Secondo IIDEA, sarebbe utile per l'Italia avere anche delle misure di supporto che sostengano anche team più piccoli e alle prime armi, come era stato il First Playable Fund.
«Introdotto dal decreto rilancio nel 2020, che era stato previsto come un fondo a fondo perduto per lo sviluppo di prototipi. È una misura per cui, quando è stata aperta la sessione, nel giro di due ore erano state inviate così tante domande da arrivare a coprire tutti i fondi disponibili» mi racconta il direttore, sottolineando quindi quanto alta sia la domanda per questo tipo di sostegno.
Il punto, però, è che ad oggi non è stata resa strutturale:
«Questa misura non è stata ancora resa strutturale, in questo momento, e ci stiamo battendo affinché lo sia: per far crescere un settore hai bisogno di un mix di misure. In Francia, ad esempio, oltre ad un tax credit con una dotazione di 70 milioni di euro, hanno un fondo prototipi con una dotazione finanziaria di 4-5 milioni di euro su base annua. La cifra non è lontana da quella che avevamo in Italia, ma va resa stabile, strutturale. Ci stiamo battendo per questo».
E ci sarebbero, secondo Malagò, anche altre possibilità. Nel cinema, ad esempio, esistono dei fondi per le co-produzioni tra diversi Paesi. Una misura del genere potrebbe aiutare gli sviluppatori italiani a creare opere a quattro mani (per così dire) con dei colleghi stranieri, imparando l'uno dall'altro.
Bisognerebbe «cercare di capire se sarà possibile dare vita a co-produzioni tra sviluppatori di diversi Paesi. Nel cinema ad esempio li abbiamo, dei fondi per le co-produzioni tra diversi Paesi: sarebbe interessante capire se si può fare la stessa cosa anche per i videogiochi» ragiona Malagò, introducendo un tema che ha discusso anche durante First Playable lo scorso luglio.
E se sto solo muovendo i primissimi passi?
Se è vero che l'Italia si è mossa in termini di sostegni finanziari, nella speranza che renda anche il First Playable Fund una costante, lo è anche che ci sono molte più opportunità, oggi, anche in termini di orientamento e formazione.
Quando le domando cosa voglia dire a chi si avvicina a questo lavoro, Malagò non esita:
«Per quanto riguarda chi vuole entrare nel settore, quello che dico è che siete molto fortunati se volete entrarci oggi, perché le condizioni sono molto più facili rispetto ad anni addietro, nel farlo in Italia. Nel passato, chi voleva sviluppare videogiochi in Italia aveva poche possibilità e andava fondamentalmente all’estero».
Oggi, invece, ci sono opportunità direttamente in Italia, sia in termini di vera e propria formazione – con numerosi corsi di studio, anche accademici o da privati, che permettono di apprendere i mestieri del videogioco.
Come spiega anche Malagò, è importante «valutare bene il proprio percorso di studi, perché oggi ci sono sia università pubbliche che scuole private che offrono una formazione specializzata per lo sviluppo di videogiochi. Valutate quindi le offerte formative, parlate magari con chi ha già frequentato quelle scuole: ci sono tutti i modi, valutate anche che opportunità professionalità hanno avuto dopo, quali sono gli studi con cui hanno potuto interfacciarsi».
Il suo secondo consiglio è legato direttamente a IIDEA. Da poco, l'associazione ha lanciato Press Start, un'iniziativa pensata proprio per gli studenti che intendono avvicinarsi al videogioco.
L'idea è quella di rendere questo un appuntamento che possa fornire ai giovani le risposte di cui hanno bisogno per orientarsi nel mondo del lavoro: che competenze sono previste per i diversi ruoli nell'industria videoludica? Come ci si candida per una posizione? Quali sono le differenze tra i diversi sbocchi professionali del settore?
«Il nostro obiettivo vorrebbe essere quello di fornire degli strumenti pratici per orientarsi all’interno del settore, capire quali sono le diverse professioni, come diventare un programmatore, un game designer, un 2D o 3D artist e tutte le varie professioni, ed entrare così in contatto con le aziende. È la prima volta che viene fatto in Italia e penso sia molto utile per rispondere a tante domande» mi spiega il direttore generale.
Alla formazione e all'orientamento si affianca anche la realtà degli acceleratori, che stanno dando una grande mano agli aspiranti autori di videogiochi nostrani. Ciascuno con le proprie peculiarità, permettono agli sviluppatori in erba di toccare davvero con mano il futuro della loro professione:
«Oggi in Italia esistono tre acceleratori che hanno annunciato già una seconda edizione. Sono Bologna Game Farm, Cinecittà Game Hub e Quick Load. Ne abbiamo parlato in First Playable, sono dei programmi di accelerazione differenti: in alcuni casi offrono dei fondi e in altri offrono formazione specializzata e accesso a network di publisher e investitori e via dicendo. Questa è una opportunità incredibile per chi inizia, perché fino a qualche anno fa in Italia questo tipo di possibilità non c’era».
A dimostrazione del fatto che si tratti di una possibilità davvero recente, per un mercato come il nostro, Malagò mi racconta di aver sorriso con gioia quando, durante First Playable, alcuni team di giovani sviluppatori domandavano «per quale acceleratore faccio application?», sottolineando come si sia passati addirittura al poter scegliere tra diverse soluzioni, partendo da una situazione in cui invece avere un supporto di questo tipo era un puro miraggio.
«C’è ancora tantissimo spazio per ampliare l’offerta, ma già avere tre realtà che da Nord al Centro – perché purtroppo al Sud non siamo ancora arrivati, ma ci stiamo lavorando – che danno questa opportunità è comunque un inizio. È un inizio dove ho dei cuscinetti che chi ha iniziato prima di me non aveva, né in termini di fondi né in termini di supporto per apprendere la parte di business development, che poi è quella che manca qui in Italia» aggiunge.
«Abbiamo bravissimi tecnici, bravissimi creativi e artisti, quello che manca è la capacità di sviluppare un business, anche in ottica internazionale. Se io fossi un team giovane in Italia oggi cercherei di fare questo, per farmi supportare da professionisti italiani e internazionali che ci sono passati prima di me e possono darmi supporto, o per avere un po’ di fondi per iniziare. Le condizioni sono molto più favorevoli rispetto a qualche anno fa».
Infine, a tutte queste possibilità, si aggiunge un consiglio che sembra quasi scontato, ma che non lo è: fare gruppo, conoscere altre persone, entrare nel network degli sviluppatori di videogiochi per farsi conoscere ma soprattutto per conoscere.
«Ai team più giovani dico anche di partecipare agli eventi, sia italiani che stranieri» raccomanda Thalita Malagò. «Far parte della community del settore è fondamentale, non lavorate come navicelle isolate nello spazio, cercate di entrare e conoscere altre persone anche per scambiare esperienze, perché è fondamentale».
Tra gli eventi, tenete d'occhio anche le game jam, che permettono di lavorare insieme a dei prototipi di videogiochi che possono avere peso quando vi presentate per un posto di lavoro presso una software house:
«Ci sono anche le Game Jam: c’è la Global Game Jam che si svolge a gennaio in diverse sedi, come Milano, Torino, Roma, Catania, e abbiamo avuto un crescendo per le sue location. È sempre stato un evento che ha prodotto degli ottimi risultati, molti team si sono formati anche grazie alla Global Game Jam. Spero che riescano a tornare in presenza dall’anno prossimo!»
Tempo addietro, conoscevo diverse persone interessate a lavorare nella creazione di videogiochi. Era un'altra epoca e tutte davano per scontato che, per raggiungere la carriera dei loro sogni, avrebbero dovuto lasciare il loro Paese.
Vedere in che modo le cose siano cambiate, nonostante i tantissimi passi in avanti ancora da fare, è emblematico. Il videogioco è una grande, straordinaria opportunità e anche l'Italia sta lentamente abbandonando le insensate resistenze a cui si è stretta fino a poco tempo fa, quando costringeva parte dei suoi talenti a cercare fortuna altrove e rinunciava alla crescita di un mercato del lavoro che rappresenta un approdo soprattutto per le generazioni più giovani.
Il videogioco, secondo chi lavora con il videogioco
L'industria dei videogiochi è fatta di persone e, nel mondo in cui davanti allo stesso schermo puoi parlare con l'Australia e con l'Islanda, senza mai spostarti né toccare nessuno, è quasi facile dimenticarlo. È il motivo per cui scelgo di chiudere l'intervista chiedendo a Malagò e Ippoliti di raccontarmi del loro rapporto del videogioco. Di cosa sia il videogioco per loro, considerando l'impegno che hanno assunto a renderlo una grande opportunità per più talenti possibili.
Ippoliti mi spiega che per il videogioco prova «curiosità e rispetto. Vengo da una generazione cresciuta nella preistoria del videogioco», sottolineando così quanto trovi affascinante l'evoluzione avuta dal nostro medium preferito in questi anni.
Malagò esita ancora meno e mi racconta di ritenere il videogioco «una missione». È un'espressione in cui tanti studiosi e professionisti del videogame si rivedono, come riconosce anche lei: «le persone che lavorano nell’ambito dei videogiochi… beh, raramente ho visto una passione, una condivisione di valori e un senso di appartenenza a un settore come ho visto nell'industria dei videogiochi. Parlo del fatto di vivere il proprio lavoro come se non fosse un lavoro, ma come se fosse una grande passione».
La sua missione rimane chiara:
«È un settore che merita una legittimazione importante che ancora non ha, per cui per me è essenzialmente questo, è lavorare per il riconoscimento di un settore che ha molto da dare e ha un valore di innovazione, creativo, artistico, sociale molto forte. La pandemia ha reso evidente questa cosa, e ha anche un grandissimo valore umano».
E il videogioco, al di là della missione di Malagò, rimane anche per lei un mezzo per socializzare e scoprire di più su sé e gli altri, di generazione in generazione.
«Noi siamo sei fratelli e io sono la più grande, il più piccolo ha quindici anni di differenza, e quando ero all'università e anche dopo usavamo World of Warcraft per giocare tutti insieme da città diverse, era bellissimo!» mi confida.
Oggi rivive questa condivisone con i suoi figli, quando mi racconta che «a casa ho un punto di osservazione privilegiato, ho due figli – uno più grande e una più piccola – che mi fanno vivere i videogiochi in un contesto familiare, del giocare insieme. I videogiochi aiutano nel capire tanti aspetti della personalità e del carattere dei miei figli: servono molto a capire com’è una persona. Mi fanno vedere degli aspetti dei miei figli che altrimenti non vedrei in un altro modo».
Ed ecco che così, quegli stessi videogiochi spesso confinati dietro l'accusa di renderci tutti più soli, gratuitamente additati come una attività da eremiti digitali, rappresentano l'esatto contrario: «videogiocare per me è sempre stato sinonimo di stare con gli altri, era un modo di stare con gli altri e non prettamente individuale. Era un modo per stare in contatto con fratelli, sorelle, amici, oggi per stare con i miei figli e conoscerli meglio».
E, nel domani che tutti ci auspichiamo, a fare da punto di incontro tra le persone potrebbero essere, finalmente, sempre più videogiochi italiani.