Quando, un po' di mesi fa, abbiamo chiesto ai nostri lettori quale dei titoli di FromSoftware portano più nel cuore, la risposta è stata netta e molto interessante: nonostante il successo e l'onnipresenza di Elden Ring, il più vecchio Bloodborne ha sconfitto ogni tentativo di concorrenza, raccogliendo ben il 35% delle preferenze (il Senzaluce si fermò al 24%).
Non è una risultato piovuto dal cielo: a ogni passo che Hidetaka Miyazaki muove, i nostri lettori invocano un ritorno di Bloodborne. Mentre PlayStation rimasterizza tutto il rimasterizzabile, i giocatori chiedono un aggiornamento next-gen di Bloodborne per portarlo ai 60 fps, o un porting su PC – dove incasserebbe verosimilmente molto bene.
Tuttavia, niente si muove e le richieste continuano a galleggiare nel mito: secondo il veterano di PlayStation, Shuhei Yoshida, per volontà di Miyazaki – che vorrebbe dedicarsi lui stessa a una rimasterizzazione, ma è troppo impegnato per avere tempo di seguirla.
Nel frattempo, dal debutto di Bloodborne sono ufficialmente trascorsi dieci anni. E anche il fatto che in questo articolo a guardare indietro, al lascito di questo gioco e alle radici che ha fatto germogliare, sia una persona di solito tutt'altro che affascinata dai giochi sfidanti, è uno spunto da tenere in considerazione. Perché Bloodborne è entrato nel cuore delle persone, al punto da conquistare anche quelle che con i giochi sfidanti non è che ci vadano proprio a nozze?
Una stagione d'oro
Bloodborne debuttò in una stagione d'oro, quella del 2015, dove ad accompagnarlo sugli scaffali ci furono nomi come The Witcher 3, Metal Gear Solid V, il primo Life is Strange e Batman: Arkham Knight, per citarne alcuni.
Eppure, riuscì comunque a farsi notare: l'accoglienza della critica fu molto calda (la media fu sopra i 90/100, come testimoniano ancora oggi gli aggregatori), e i dati più recenti parlano di quasi 8 milioni di copie piazzate. Considerando che parliamo di un gioco non esattamente pensato per essere "accessibile", i numeri sono ragguardevoli. Lo diventano ancora di più se valutiamo anche quanto è cresciuto capillarmente il mercato negli ultimi dieci anni, con Bloodborne che è invece rimasto ancorato a PS4.
Il suo essere confinato, ancora oggi, alla vecchia generazione di Sony – e in pratica giocabile sulla nuova solo mediante retrocompatibilità – in un certo senso ha alimentato le chiacchiere che lo rendono ancora d'attualità: praticamente, non passa giorno in cui non ci sia un tributo fan-made che prova a ricreare il gioco a 60 fps, che non ci siano invocazioni da parte degli appassionati di una re-release o magari anche un seguito. Invece, Bloodborne rimane lì, bellissimo e sonnecchiante, sulla sua console di un'era geologica fa, a farsi desiderare.
Qualcuno diceva che l'attesa del piacere è essa stessa il piacere, ed è un po' vero anche per il capolavoro di From: magari, quando (se, più che altro) avremo davvero una re-release del gioco, si finirà per parlarne addirittura di meno, rispetto al tormentone odierno che prega Miyazaki o chi per lui di riesumare il Cacciatore e farci riandare in cerca di echi del Sangue.
Ma Bloodborne non galleggia solo nel mito del "ridatecelo": quel mito è frutto dell'amore che c'era già prima, che poi nel suo confino su PS4 ha trovato una cassa di risonanza che lo porta a finire, dieci anni dopo, nella cronaca e nell'attualità videoludica.
E ci sono molti buoni motivi che hanno portato alla nascita di quell'amore: come l'equilibrio, l'atmosfera e le pensate in termini di gameplay che lo hanno reso qualcosa di unico anche rispetto ai precedenti Demon's Souls e Dark Souls.
Sul filo del rasoio
Vi ho già confidato che non ho una grande passione per i giochi sfidanti, più che altro perché non è la sfida a intrattenermi, quando mi tuffo in un videogioco. Eppure, con Bloodborne sono riuscita ad arrivare fino ai titoli di coda. Se dovessi identificare un motivo specifico, direi che è stato il suo equilibrio. Ossia il suo bilanciamento.
L'incubo di Yharnam aveva un grande dono: lasciarti addosso sia la sensazione che qualsiasi nemico potesse ararti senza troppi patemi, sia quella di essere a un millimetro, un passo solo o una singola schivata col tempismo giusto, dal farcela e vincere.
L'idea di essere sempre sul filo del rasoio, ma di un rasoio mai ingiusto, che sa come punirti ma che ti dà la possibilità di vincere – se ti alleni abbastanza, se non ti fai prendere dalla foga, se stai attento alle schivate, se metti insieme la build giusta – fu magnetica.
Ho il ricordo nitido di un Bloodborne che sapeva essere punitivo, ma mai disonesto: quando un boss mi eliminava e correvo a provare a risfidarlo, nella mia testa mi dicevo «è perché mi sono sbilanciata troppo, devo aspettare». Mentre ci pensavo, sentendomi onnipotente con la soluzione ormai in tasca, magari venivo uccisa da un nemico qualsiasi nella mappa – perdendo anche gli echi del sangue che avevo lasciato a terra contro il boss.
Sono situazioni che, per rimanere nei "meme" videoludici, ti farebbero normalmente lanciare via il pad. Mi è capitato di staccare e dirmi «basta, non voglio vederlo mai più». E di tornarci dopo un paio di ore perché avevo voglia di giocarci, perché sapevo di avere torto: il nemico qualsiasi mi aveva uccisa perché ero stata avventata, mentre correvo a sfidare di nuovo il boss che mi aveva uccisa perché mi ero sbilanciata. Una matrioska di imperfezioni fatali ed eccesso di fiducia.
La capacità di Bloodborne di farti capire il tuo errore nel gameplay, e contemporaneamente di stimolarti a fare di meglio – perfino al costo di invocare qualcuno ad aiutarti, se proprio non ce la fai e questa sfida non si incastra con come hai costruito il tuo personaggio – è uno degli aspetti che mi lasciò maggiormente meravigliata e che fatico a trovare in altri giochi.
Spesso i giochi punitivi sono estremamente punitivi, senza appello. E quelli poco sfidanti sono... beh, davvero poco sfidanti. Bloodborne, quando lo recuperai nel 2021 (qualcuno di voi ricorderà che lo feci in live su SpazioGames, con tutto il vostro supporto!) riusciva a risultarmi sia sfidante che magnetico.
E già questo può essere un buon riassunto del suo successo e della sua capacità di marchiarsi a fuoco nell'immaginario dei videogiocatori: se fa innamorare e fa tornare perfino chi non è mai andato d'accordo con quel genere di gioco, cosa può fare al cuore di tutti gli altri?
Oscura, suggestiva seduzione
Altri due elementi che sono rimasti tatuati nel cuore dei giocatori sono l'atmosfera del mondo di gioco e le sue trovate di gameplay.
Con contaminazioni da Dracula, vampiresche, suggestioni da Lovecraft e quello stilo gotico-vittoriano, la direzione artistica e la caratterizzazione del mondo di gioco colpirono nel segno in tutto e per tutto.
Non scambieresti Bloodborne con nessun altro gioco, nemmeno da un singolo screenshot: è riconoscibile. Tratteggia un mondo oscuro, orripilante eppure seducente, un orrore dilettevole nel quale ti cali e che, in tutte le sue ermetiche suggestioni, è diventato qualcosa a sé. Quante volte, negli ultimi dieci anni, avete visto un gioco a tinte oscure, dalla palette prevalentemente fredda e gli spuntoni gotici, e vi siete detti «ah, sì, ha qualcosa di Bloodborne»?
Trattandosi di un videogioco, l'ingegno si espresse anche nel gameplay: pur costruendo sulle fondamenta dei successi precedenti, Bloodborne era più spregiudicato, incoraggiava in un certo senso quegli sbilanciamenti che spesso mi fregavano e mi portavano a mendicare i miei echi del sangue appena persi.
Via lo scudo, sulla mano debole sfoggi un'arma da fuoco. Sei scoperto, ma può essere un vantaggio: usala al momento giusto per aprirti un varco e rompere la guardia dei nemici.
Un approccio che ti spinge ad attaccare, a scoprirti, osare, ad avventurarti. E proprio questo, l'avventurarsi, in un mondo come quello di Yharnam era ciò che ti faceva tornare.
Perché quando ti avventurarvi ti trovavi sul filo di quel rasoio di bilanciamento, sempre vicino a tagliarti, eppure mai davvero sconfitto. E quando ti avventuravi ti trovavi calato in un mondo dove nessun dettaglio era trascurato – da una certa distesa di fiori nel Sogno del Cacciatore ai grovigli di serpenti che ti facevano perdere dieci anni di vita (vita reale, intendo, ndr).
E avventurarti significava muoverti in un gameplay che, controller alla mano, non ti lasciava più andare via. Anche se eri scarsa, come me. Anche se quel boss ti aveva già uccisa dieci volte. Come me.
Ma Bloodborne aveva l'enorme merito non solo di tirarti dentro, ma soprattutto di farti tornare e infine farti restare, di rendere casa un posto inospitale e ostile come Yharnam, di cui finivi per conoscere tutto.
Non è un caso che abbia fatto scuola: ci sono tanti piccoli progetti che si ispirano alle suggestioni di Bloodborne. E, al singolo colpo d'occhio, non è un segreto che anche l'amato Lies of P abbia costruito il suo successo non solo sulla qualità messa in campo dagli autori, ma anche sulla voglia di Bloodborne rimasta immutata nei videogiocatori.
Videogiocatori per ora devono accontentarsi di soffiare dieci candeline su quella torta, e di sfruttare la retrocompatibilità per tornare a Yharnam. Che, dieci anni dopo, rimane casa. Anche se ne abbiamo prese tante, per le sue strade. Ma quanto è stato bello quando, un passetto alla volta, siamo riusciti anche a darle?
Buon compleanno, Bloodborne. Non fai proprio per me e probabilmente è anche per questo che invece sei stato così speciale.
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