Nell'incessante e sempre accorato dibattito sullo stato evolutivo dei JRPG, si impone con sempre maggiore insistenza una domanda tanto legittima quanto complessa: cosa significa, oggi, prendere il testimone di Final Fantasy?
La risposta, inevitabilmente, non è univoca, poiché la serie di Square Enix è tanto un contenitore identitario quanto un corpus in perenne metamorfosi.
Nata sotto i vincoli tecnici degli 8-bit, cresciuta in simbiosi con l’espansione narrativa del medium, e infine riconfigurata come spettacolo multimediale postmoderno votato all'azione, la saga Final Fantasy non si presta facilmente a essere ridotta a una formula.
Eppure, è proprio a partire da questa tensione tra continuità e reinvenzione che si può provare a comprendere meglio il caso di Clair Obscur: Expedition 33, titolo francese che, ancora prima della sua uscita, si era già caricato di un peso simbolico inatteso, fin dall'annuncio: quello di aspirare, consapevolmente o meno, al ruolo di successore spirituale di Final Fantasy.
E l'accoglienza avuta sembra parlare proprio di una missione riuscita.
Uno sguardo al futuro e uno al passato
Il primo nodo da affrontare riguarda l’origine e la natura dell’opera. Clair Obscur: Expedition 33 non è un gioco giapponese. È sviluppato da Sandfall Interactive, studio emergente con sede a Montpellier, formato in buona parte da ex sviluppatori Ubisoft.
Questa distanza geografico-culturale, lungi dall’essere un dato neutro, entra in tensione con l’idea stessa di “JRPG”, genere che, pur non più definibile esclusivamente attraverso la sua geografia, resta profondamente codificato da una tradizione estetica e meccanica nipponica.
Tuttavia, proprio in questa tensione si inscrive il progetto di Sandfall: recuperare l’essenza di un certo modo di intendere il gioco di ruolo – in particolare quello della triade Final Fantasy VII-VIII-IX – e reinterpretarlo attraverso un linguaggio tecnico e stilistico contemporaneo, capace di dialogare tanto con la memoria collettiva quanto con i desideri ludici di una nuova generazione di giocatori.
Le interviste rilasciate dal direttore creativo Guillaume Broche non lasciano spazio a equivoci: Clair Obscur: Expedition 33 è pensato per essere al contempo un tributo e una risposta.
Se i Final Fantasy della prima epoca PlayStation si fondavano su una struttura a turni rigida, ma arricchita da sistemi paralleli (materie, junction, job system), il gioco di Sandfall introduce una forma ibrida che conserva l’ossatura dei turni ma vi innesta elementi in tempo reale – schivate, parate, contrattacchi – in un tentativo dichiarato di superare la dicotomia tra strategia e reattività.
In questo, l’influenza non è solo giapponese: si percepiscono echi da action moderni nel ritmo dei combattimenti, ma anche strutture modulari che scrutano verso altri generi. Un’eredità, dunque, che si compone per interpolazione e che non si limita all’imitazione, ma prova ad articolare un nuovo paradigma operativo.
Il risultato, a livello progettuale, è un sistema che non cerca di replicare il passato, ma di immaginarlo in una traiettoria alternativa: cosa sarebbe successo se Final Fantasy avesse mantenuto il sistema a turni, ma l’avesse evoluto in senso muscolare, interattivo, quasi performativo?
Il peso dell'eredità classica e il coraggio di reinventare
Oltre alla componente ludica, anche l’apparato estetico e narrativo si muove su un crinale sottile tra evocazione e distacco. L’ambientazione – un mondo ispirato alla Belle Époque e all’Art Nouveau, profondamente segnato da un senso di decadenza e dalla minaccia di annichilimento ciclico – rimanda alla sensibilità sincretica dei vecchi Final Fantasy, capaci di unire suggestioni medievali, cyberpunk e steampunk.
Tuttavia, il tono visivo di Clair Obscur: Expedition 33 è più coerente e unitario, quasi pittorico, con richiami visibili all’iconografia simbolista europea. Questa coerenza, che potrebbe apparire come un segno di maturità, introduce però anche un primo elemento di rottura rispetto al modello di riferimento.
Se i Final Fantasy storici si distinguevano per un certo gusto per l’eccesso, per la commistione dissonante di registri e generi, Clair Obscur: Expedition 33 sembra invece cercare una forma di eleganza e compostezza visiva che lo rende più “autoriale” ma forse meno “aperto”, meno caotico, meno radicale nella sua capacità di sorprendere.
Dal punto di vista narrativo, la storia si colloca in una tradizione apocalittica e rituale. Ogni anno, la Pittrice – entità misteriosa e crudele – cancella dalla realtà un numero progressivo di esseri umani, seguendo un ordine numerico inverso. La protagonista e i suoi compagni, membri dell’Expedition 33, sono dunque letteralmente gli ultimi della lista, incaricati di sovvertire un destino inscritto nel numero stesso del loro gruppo.
Il gioco lavora dunque su un doppio binario: da un lato la missione epica, dall’altro l’angoscia dell’estinzione, in un meccanismo che richiama tanto il fatalismo eroico di Final Fantasy X quanto l’estetica esistenziale di Nier: Automata. Va detto però che rispetto a Final Fantasy il tono appare più grave, meno disposto a mediare la tragedia con l’ironia o con la leggerezza.
Nel corso dell'avventura ci sono senza dubbio diverse tracce di quella commistione tra dramma e commedia che ha sempre caratterizzato la serie dell'ormai fu Squaresoft, ma in generale è un gioco che prende molto più sul serio se stesso, appiattendo un po' il ventaglio emotivo dell’esperienza.
Il nodo fondamentale, però, resta forse quello della visione. Final Fantasy non è solo una sequenza di giochi di ruolo; è, per molti versi, un laboratorio ideologico sul medium videoludico, capace di riflettere – spesso in modo anticipatorio – sullo statuto dell’immagine, sulla narrazione seriale, sul rapporto tra giocatore e personaggio.
Ogni iterazione della saga ha tentato, con esiti alterni, di spostare il baricentro del genere: dalla dimensione lirica del VI alla post-modernità mediatica del VII, fino al melodramma spirituale del X e al mondo aperto simbolico del XV.
La domanda da porsi, allora, è se Clair Obscur: Expedition 33 abbia davvero questa ambizione sistemica o se, al contrario, si configuri come un’opera derivativa, seppur nobile e ben costruita.
In altre parole: vuole essere un nuovo Final Fantasy o solo una dimostrazione oggettiva di come sarebbe potuto essere un gran bel Final Fantasy classico trasportato nell'era moderna?
A oggi, è impossibile dare una risposta definitiva, perché al di là dei giudizi critici sarà sempre la risposta del pubblico a decretare il possibile successo del progetto. Tuttavia, ciò che emerge è la volontà di costruire un gioco che non si limiti a citare, ma che metabolizzi le sue fonti, proponendo un’alternativa credibile.
Essendoci riuscito senza cadere nella trappola della reverenza – ovvero senza trasformarsi in un simulacro nostalgico – Clair Obscur: Expedition 33 si è effettivamente ritagliato un posto nel discorso critico sul futuro dei JRPG. Non come clone, ma come eco. Non come erede legittimo, ma come discendente spurio, e proprio per questo interessante.
In fondo, le grandi serie non hanno bisogno di cloni: hanno bisogno di voci nuove che sappiano tradirle con intelligenza. E se Clair Obscur: Expedition 33 riuscirà a essere compreso e accolto come valoroso atto di tradimento produttivo, allora forse, e solo allora, sarà davvero degno di portare sulle spalle un pezzo di quell’eredità.