Il genere degli open world è senza alcun dubbio diventato uno dei più popolari della generazione attualmente al suo tramonto. Se già era molto presente durante l’epoca di PS3 e Xbox 360, gli ultimi sette anni hanno visto una quantità ancora più massiccia di titoli che propongono mondi sconfinati da esplorare. Il punto è: le miriadi di mondi aperti immaginati nei videogiochi riescono a offrire sempre esperienze uniche e irripetibili?
C’è stato un periodo in cui in molti commenti si dava contro a titoli caratterizzati da una progressione lineare, come se ormai fossero diventati obsoleti, tanto che persino alcuni grandi sviluppatori fecero delle dichiarazioni controverse su questo tema. Fortunatamente i giochi lineari non sono mai scomparsi e il motivo è che ancora oggi possono offrire esperienze che un qualsiasi open world non può rendere allo stesso modo; anzi, in questi anni, con produzioni come The Last of Us - Parte 2, i giochi lineari si sono addirittura molto evoluti. La popolarità del genere open world ha visto invece un fiorire di cloni basati tutti su un modello sì funzionante ai suoi albori, ma che alla lunga ha iniziato a saturare il mercato provocando una certa stanchezza di fondo, soprattutto negli utenti.
In questi ultimi anni abbiamo infatti visto molti mondi differenti, ma, se esteticamente erano tutti diversi, nel profondo erano invece molto simili, un po’ come se si pretendesse che cambiando un vestito o una pettinatura si modificasse totalmente anche la persona. L’arrivo della nuova generazione di console potrebbe però finalmente cambiare le carte in tavola: grazie alla maggior potenza di calcolo e alle nuove possibilità che queste offrono, molti limiti potranno essere superati, portando, si spera, a una nuova concezione dell’open world.
Formule stagnanti
La nascita degli open world non è di facile rintracciabilità. Già dagli anni ’80 incontriamo titoli, tra cui molti RPG come Ultima o Wasteland, che non limitavano il giocatore a un percorso predefinito, ma offrivano enormi mappe che potevano essere esplorate a piacimento. Anche il primo The Legend of Zelda, per esempio, permetteva un’esplorazione libera del mondo di gioco.
L’open world come lo intendiamo attualmente ha però un’origine più definita, che prende il nome di Grand Theft Auto III. La struttura del titolo Rockstar, uscito nel 2001, è sopravvissuta fino a oggi almeno per quanto riguarda il suo scheletro, poi ampliato e migliorato dai successivi esponenti di questo genere. Altra saga molto importante in questo senso è Assassin’s Creed, che ha gettato le basi per parecchie delle caratteristiche presenti ancora oggi in molti open world.
In quest’ultima generazione è stato piuttosto evidente quanto la formula classica di tale tipologia di giochi si sia evoluta molto poco nei suoi vent’anni d’esistenza. La ridondanza di tanti titoli simili tra loro, anche se realizzati da software house diverse, ha creato una certa stanchezza di fondo nei giocatori. Oggi, come nell’Assassin’s Creed del 2007, dovremo ancora una volta scalare una torre o qualche altro punto sopraelevato per visualizzare porzioni di mappa e i contenuti che essa nasconde. Al massimo c’è qualche variante, come gli accampamenti mongoli da liberare in Ghost of Tsushima, ma il concetto di base è sempre lo stesso. Collezionabili su collezionabili, da ricercare sparsi negli angoli del mondo, fetch quest basilari e molti altri riempitivi ancora oggi sopravvivono all’interno di svariati open world, nonostante siano trovate di game design ormai obsolete, che hanno decisamente fatto il loro tempo.
Soltanto tre titoli di questa generazione sono riusciti a distinguersi dalla massa, e probabilmente i nomi li avrete già intuiti. Il primo è The Witcher 3: Wild Hunt, in cui l'incredibile gestione della componente narrativa non solo ci offre un'epica storyline principale fatta di personaggi e dialoghi da incorniciare (cosa migliorata ulteriormente dalle due espansioni), ma riesce a implementare questa caratteristica anche nelle tante quest secondarie e persino nelle fetch quest: anche una semplice caccia al mostro, vista e rivista innumerevoli volte negli open world, può diventare una storia avvincente e particolare che a volte riserva anche delle sorprese.
The Legend of Zelda: Breath of the Wild, in una generazione in cui gli open world presentano la cosiddetta “lista della spesa” di cose da fare al loro interno, ha invece risvegliato nei giocatori il piacere della scoperta e dell’esplorazione fine a sé stessa. La magia del restare affascinati dalla scoperta casuale di una grotta piena di tesori o di un paesaggio inaspettato riesce a trasmetterla solo il titolo Nintendo.
Infine, Red Dead Redemption 2 ci ha fatto immergere in un mondo western più vivo che mai, grazie a un approccio nuovo alla routine dei PNG e alla gestione unica degli eventi casuali, senza dimenticare la splendida storia principale, in grado di catturare il giocatore come poche per l’elevata qualità del racconto.
Non è un caso dunque se questi tre titoli sono considerati tra i capolavori dell'attuale generazione ormai al tramonto. Ma se questi vengono ricordati per le loro eccellenze, non bisogna dimenticare quanti altri invece non siano riusciti a distinguersi dalla massa di prodotti tutti simili tra loro.
Un mondo di compromessi
Creare un open world non è affatto operazione facile, anzi, siamo certi che siano tra i titoli più difficili da programmare nel panorama videoludico. Basti pensare ai numerosi bug che molti di loro hanno avuto al day one, motivo per cui anche l’atteso Cyberpunk 2077 è stato rinviato ben quattro volte, proprio per correggere tutti gli eventuali problemi presenti al lancio. Gli open world barattano la libertà data al giocatore con molti compromessi, non sempre evidenti. I principali sono quelli tecnici, che tendono a rendere più semplice possibile il mondo di gioco, per quanto riguarda sia i dettagli tecnici che quelli legati alle varie meccaniche di gameplay, così da evitare di "appesantire" troppo il comparto tecnico.
Non a caso, ad esempio, spesso vediamo molti PNG uguali tra loro o realizzati con dettagli di gran lunga inferiori rispetto ai personaggi principali, il tutto per evitare tempi di caricamento biblici. Nel recente confronto sui tempi di caricamento tra PS4 e PS5 si è visto come un salvataggio caricato di Red Dead Redemption 2 abbia impiegato su PS4 oltre un minuto e 20 secondi in totale, cosa che certo ricorderanno bene i giocatori del capolavoro di Rockstar.
Anche le storie principali paradossalmente sono più semplici e lineari, nonostante la libertà concessa in altri aspetti del gioco. Queste infatti devono adattarsi a un mondo pre-costruito che pone diversi limiti a cosa si può fare e cosa non si può, mostrando frequentemente una struttura basilare nelle quest. Inoltre la narrazione, nella maggior parte dei casi, non può permettersi di essere troppo complessa, in modo che anche chi decida di abbandonare la quest principale in favore dell’esplorazione o di altri contenuti riesca poi a riprendere il filo del discorso facilmente.
Probabilmente però quello che ci fa percepire come uguali la maggior parte degli open world esistenti è legato al modo con cui vengono gestite le meccaniche e i contenuti extra. Elementi come i vari punti d’interesse da scoprire sulla mappa, fetch quest in cui uccidere un determinato numero di mostri o trovare un determinato numero di oggetti, centinaia di collezionabili da trovare o semplici missioni risolvibili con un banale combattimento, sono alla base di molti open world indipendentemente dalla loro ambientazione e dal loro stile.
Questi contenuti, seppur considerati secondari, rappresentano comunque una fetta importante dell’esperienza di gioco complessiva, dato che sono quelli che ci spingono a esplorare maggiormente il mondo di gioco, che altrimenti si ridurrebbe a un enorme spazio magari bello da vedere, ma estremamente vuoto. Nel genere questi contenuti sono dunque importanti almeno quanto la storyline principale, ma al momento si nota davvero poca fantasia nella varietà proposta. Potrà cambiare infatti la presentazione da gioco a gioco, ma una fetch quest o un collezionabile sono sempre uguali, indipendentemente da come vengono proposti.
Negli ultimi anni c’è stata la tendenza non a pensare a nuovi contenuti più interessanti per il giocatore, ma ad aumentare quelli mediocri e ripetitivi creando solo una parvenza di varietà, in modo da ritardare il più possibile il senso di noia che, in ogni caso, inesorabilmente sopraggiunge. In questo modo si sono creati titoli bulimici, che presentano contenuti anche per un centinaio di ore, ma che in verità annacquano l’esperienza principale fornendo una longevità sovrabbondante basata sostanzialmente sul nulla. Se in parte questa “pigrizia” circa nuovi contenuti era giustificata dai limiti tecnici delle console passate, ora con la next gen è giunto il momento di cambiare registro.
Un nuovo modo di pensare gli open world
La speranza, con la nuova generazione di console, è che i compromessi inizino a calare, dando maggior spazio a nuove idee e approcci agli open world. Grazie ai tanto decantati SSD e all’effettiva diminuzione dei tempi di caricamento sarà possibile creare mondi più vari e complessi, che limitino molto meno la creatività degli sviluppatori. Ci aspettiamo di vedere dunque mondi realmente dinamici, che possano cambiare a seconda delle nostre azioni anche in maniera definitiva.
Ad esempio, se ci troviamo a combattere in un villaggio e casualmente finisse distrutto un edificio, ci aspettiamo che questo resti distrutto con le conseguenze del caso. Sarà poi possibile decidere di ricostruirlo aiutando personalmente o semplicemente risarcendo il proprietario, oppure potremo crudelmente disinteressarcene lasciando al malcapitato il problema. La libertà offerta non dovrà essere limitata soltanto all’esplorazione e all’ordine in cui iniziare a smaltire le diverse quest secondarie che troveremo sul nostro cammino, ma dovrà anche farci sentire parte di un mondo vivo dove ogni nostra azione produce delle conseguenze.
Anche l’IA dovrà essere ribilanciata in modo che agisca coerentemente con le nostre azioni, evitando magari le esilaranti reazioni delle guardie di Skyrim, quando il nostro eroico protagonista salvatore del mondo veniva trattato come il peggior criminale solo per aver preso per sbaglio un cucchiaio da un tavolo. Si potrebbe anche pensare a una maggior inclusione di storie secondarie profonde quanto quelle primarie, eliminando quasi del tutto la differenza tra quest principali e secondarie e dando maggior risalto alla lore del mondo di gioco.
Anche la qualità narrativa potrà godere di benefici legati alle nuove tecnologie: i compromessi tecnici che non permettono di sviluppare quest e trame troppo complesse verranno meno, offrendo agli sviluppatori la possibilità di creare storie più varie e profonde, dove una scelta potrebbe rendere completamente differente l’evoluzione del mondo di gioco rispetto a quello di un altro giocatore. Questo permetterebbe inoltre una maggiore rigiocabilità, che aumenterebbe anche la longevità legata più alla storia e meno a collezionabili e ad altri contenuti ripetitivi.
Questi sono tutti esempi di ambiti che probabilmente non verranno implementati sin da subito negli open world di nuova generazione e, anzi, è probabile che la vecchia formula ci accompagnerà ancora per qualche anno. L’importante è che entro questa generazione si arrivi a un cambiamento radicale, che fornisca molta più varietà e nuovi approcci a questo affascinante genere, in modo che sia veramente possibile per i giocatori vivere in tanti mondi che non si somiglino l’un l’altro.
Le tecnologie per il cambiamento ora ci sono, adesso sta alle tante talentuose software house impegnarsi nel realizzare qualcosa che superi persino l’apice della generazione appena trascorsa, apice rappresentato, come abbiamo ricordato sopra, da The Witcher 3, Red Dead Redemption 2 e The Legend of Zelda: Breath of the Wild.
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