A cura di Paolo Davide “Mascalzone” Lumia
Venerdì scorso Blizzard Entertainment ha dato inizio ai festeggiamenti per celebrare i dieci anni d’esistenza del suo MMORPG World of Warcraft, il videogioco che forse più di ogni altro ha segnato questa decade. Grazie a un successo su scala planetaria che sembra non avere fine come il suo continuo sviluppo, giunto ormai alla quinta espansione. Ne analizziamo la genesi tra fasti, problematiche e polemiche.
L’avvento di un gioco epocaleQuando World of Warcraft venne rilasciato nel novembre del 2004 negli Stati Uniti e a febbraio 2005 in Europa, quello dei MMORPG era un panorama ancora in piena evoluzione che stava conoscendo la sua prima maturità con titoli di ampio successo quali Dark Age of Camelot, EverQuest, Anarchy Online, Asheron’s Call e altri, tutti usciti a cavallo della fine del millennio e tutti più o meno diretta conseguenza del primo gioco di massa della storia, quell’Ultima Online che, secondo molti appassionati, resta tutt’oggi insuperato dal punto di vista della profondità del gameplay offerto ai giocatori. UO rimase anche l’unico MMO ambientato in una saga ben conosciuta ai giocatori di RPG, quella creata da Richard “Lord British” Garriott e la sua Origin Systems, mentre gli altri citati erano stati realizzati da software house allo startup, catapultatesi in un settore in rapida crescita nel pieno del boom della new economy. In quegli anni si assistette a una vera e propria esplosione dei titoli massivi che portò, nell’arco di solo una manciata di anni, alla creazione di videogiochi pensati per persistere nel tempo e nei cuori degli appassionati. E così è stato, dato che non solo UO ma pure tutti gli altri titoli menzionati sono ancora ben presenti nel panorama videoludico. Quello che allora non si poteva immagine è che la discesa di Blizzard nei MMORPG non solo avrebbe prima lentamente e poi sempre più inesorabilmente focalizzato questo boom in un’univoca direzione ma, in ultima istanza, lo avrebbe anche del tutto fagocitato. Per arrivare alla situazione attuale nella quale WoW è rimasto, indiscutibilmente, l’unico videogame che riesce a far digerire il canone mensile a uno spropositato numero di giocatori.
WoW non ha creato un genere, lo ha massificatoÈ bene partire da una considerazione prima di illustrare le ragioni tramite le quali WoW è divenuto ciò che conosciamo oggi, ovvero il primo MMORPG veramente mainstream della storia. La stessa considerazione che fa anche giungere alla conclusione che probabilmente sarà anche l’ultimo, almeno per i MMORPG intesi così come ha imposto di farceli conoscere. Uso il termine imposto perché per molti questo titolo è ormai sinonimo stesso di quest’acronimo. Mentre all’inizio ovviamente così non era. Quando Blizzard lanciò World of Warcraft si trovò infatti ad affrontare una sfida tutt’altro che di poco conto. Non tanto quella di riuscire a fare breccia tra chi già giocava giochi del genere, cosa in cui del resto è solo parzialmente riuscita, ma soprattutto quella che voleva rendere questa tipologia di prodotti, per natura decisamente “hardcore” per complessità e mastodontcità del gameplay e quindi in termini di ore da dedicargli, appetibile al panorama dei videogiocatori nel suo insieme. Quantomeno di quelli che utilizzano mouse e tastiera, come del resto è sempre stato nel DNA della software house di Irvine, almeno sino alla recentissima versione console di un altro suo grandissimo successo che credo non ci sia bisogno di nominare. È questo l’obiettivo che è stato centrato in pieno, andando persino oltre le previsioni degli stessi creatori. Partendo da un RTS, per quanto apprezzatissimo, non era facile. Due sono stati i principali punti di partenza attraverso cui questo conseguimento è stato ottenuto: l’ambientazione in grado da sola di suscitare l’interesse e la curiosità di praticamente tutti gli amanti del fantasy (tanto che nel 2016 arriverà addirittura il film) e la grande maestria di Blizzard nel realizzare un videogioco che avesse da subito tutte le caratteristiche dei più aguerriti rivali contestualizzandole in un sistema che garantisse maggiore immediatezza, in modo da poter rendere WoW la piattaforma di riferimento per coloro che volevano avvicinarsi al genere e coloro che già vi si erano ben inseriti e invitavano i propri amici a giocare con loro. Cosa che, per inciso, sino a una decina d’anni fa si poteva fare solo coi MMORPG. Da un lato quindi c’era un gioco ricco di fascino e di cose da scoprire, dall’altro migliaia di giocatori che, grazie a entusiasmo e coinvolgimento, riuscirono a contagiarne altri.
L’emorragiaQuesta insomma la genesi di un successo arrivato, apparentemente immutato, sino ai giorni nostri. È giusto però fare una distinzione tra quella che è stata la prima lunga fase di WoW, quella della crescita continua, durata indicativamente sino alla terza espansione Wrath of the Lich King, e una seconda che è perdurata perlomeno sino al concepimento di Warlords of Draenor. Anche se è troppo presto per dire se siamo già entrati nella successiva, seppure le indicazioni in merito non manchino. La seconda fase, iniziata nel 2011, ha visto Blizzard incontrare molte difficoltà: il numero di utenti giocanti conobbe il suo picco nell’ottobre del 2010, fissandosi a 12 milioni con tanto di Guinness dei Primati. L’immediato successivo lancio di Cataclysm, ricordata come l’espansione del cambiamento (l’avvento di Deathwing sconvolse completamente diverse regioni di Azeroth) avrebbe dovuto alzare ulteriormente l’asticella. Non Successe. Ciò che invece avvenne, per la prima volta, fu un calo del numero di abbonati: dapprima assolutamente relativo, poche centinaia di migliaia di sottoscrizioni. Poi, nei due anni successivi, sempre più massiccio sino al dato di qualche mese fa, quando il gioco scese sotto i sette milioni di abbonati. La fuga di quasi la metà dei player attivi in soli due anni e mezzo (il 2014 è stato stabile, sino alla solita massiccia ondata di ritorni dovuta al lancio dell’espansione appena uscita) cui certo non ha seppe porre rimedio Mists of Pandaria, l’espansione che tra tutte meno ha entusiasmato. Le cause sono state molteplici: un’eccessiva semplificazione del gameplay orientata a rendere l’esperienza di gioco sempre più snella e diretta verso i contenuti end-game, che però non hanno saputo evolversi con la stessa rapidità minando il bilanciamento generale e mancando nell’offrire sfide che potessero entusiasmare come invece è stato alla morte di Arthas, evento da molti considerato l’epilogo di WoW. Questo dal punto di vista della storia, dato che sia Deathwing sia i Pandaren sono stati giudicati come due palliativi estemporanei che non hanno saputo aggiungere nulla a quello che è il vero motore dell’interesse verso il mondo di Azeroth, ovvero l’eterna lotta tra Orda e Alleanza. E alla lunga questo ha generato scontento tra i giocatori, sempre più convinti che il meglio questo MMORPG lo avesse già dato da tempo. Seppur con un certo ritardo, Blizzard se n’è accorta e Warlords of Draenor pone nuovamente le due fazioni e i loro personaggi al centro dell’attenzione, e di rilfesso anche i giocatori. L’intento è sicuramente quello di far riprendere WoW a crescere esattamente dal punto dove si era bloccato, anche attraverso il rinnovamento di una grafica che ormai sente il peso degli anni e l’introduzione di nuove componenti di gioco, il cui primo esempio sono le guarnigioni introdotte con l’ultima espansione, con la promessa che le prossime arriveranno con ritmo meno sincopato.
World of Warcraft è il videogioco che, pur non inventando nulla, ha fatto varcare ai MMORPG i confini del genere di nicchia diventando vero fenomeno di costume, tema di pregiudizi polemici come di studi sociologici, di crimini informatici come di accuse di ogni genere nei confronti dei suoi sviluppatori e della sua immensa community. Sicuro è che si tratta del titolo che più di ogni altro ha saputo contraddistinguere quest’era videoludica, tanto che l’always online oramai è più regola che eccezione. È il titolo che vanta i più celebri e costosi tentativi di imitazione, mai riusciti a scalfirne fama e reputazione nemmeno con l’avvento del free to play, cui non si è mai piegato. Resta da vedere se saprà rimanere artefice del proprio successo o, al contrario, diverrà carnefice di se stesso.