Videogiochi Senza Frontiere: la guerra è solo un gioco

Avatar

a cura di Daniele Spelta

Redattore

Cosa sia stato Giochi Senza Frontiere, è inutile stare qua a spiegarlo, anche perché tanto è già stato scritto nel primo appuntamento di questa rubrica: per chi è cresciuto negli anni ‘90 – nella loro seconda incarnazione, presumibilmente quella più conosciuta dalla “nostra” generazione – equivale alle calde serate estive passate su un appiccicoso divano, con gli occhi fissi su un tubo catodico nel quale passavano improbabili prove in ancor più improbabili sceneggiature e costumi, in cui si sfidavano le nazioni europee, rappresentate di volta in volta da varie città. Una sorta di Olimpiade parallela limitata al solo vecchio continente (salvo rarissime eccezioni), ma con giochi, staffette e regole più assurde. Rispetto a quelle che tanti ricordi evocano nella nostra memoria, le prime edizioni – che vanno dal ‘66 all’82 – avevano qualche differenza nel regolamento e nelle prove, gli arbitri erano Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi, ma il vero solco che divide i due periodi è il contesto storico: negli anni ‘90 il muro di Berlino stava per crollare o era appena caduto, si andava verso un’Europa unita anche monetariamente e i rapporti fra i paesi erano molto più distesi. La Storia era totalmente differente nei decenni precedenti, le ferite della Seconda Guerra Mondiale non erano del tutto rimarginate, si viveva nel costante terrore nucleare – altro che Metal Gear – e la Guerra Fredda divideva il mondo tra buoni (?) e cattivi (?): basti pensare che solo la parte occidentale della Germania partecipava ai giochi e i paesi del blocco sovietico erano completamente interdetti dalla manifestazione. 
It’s a Knockout!
Ma perché questa rievocazione storica? La risposta è Games Without Frontiers, canzone scritta da Peter Gabriel – la vera mente geniale dei Genesis – e uscita sull’omonimo album nel 1980, la cui fonte d’ispirazione è più che evidente, confermata anche dal verso “It’s a Knockout” ripetuto più volte e che altro non è che il nome con cui venivano trasmessi i Giochi Senza Frontiere oltre Manica. Se le tenzoni a suon di costruzioni di spugna e gavettoni erano l’esaltazione della pacifica, serena e spensierata competizione fra i paesi europei, l’atmosfera che trasuda dal testo scritto da Peter Gabriel è diametralmente opposta, in un continuo rincorrersi di frasi piuttosto criptiche, nomi che all’apparenza dicono poco e che solo nel finale della prima strofa lasciano intuire quale sia la metafora che si celi dietro di essi. “Adolf builts a bonfire, Enrico plays with it” non lascia molti dubbi su chi siano Adolf ed Enrico, il primo, dittatore di una Germania social-nazionalista causa principale della Seconda Guerra Mondiale, il secondo, un premio Nobel italiano, suo malgrado divenuto famoso soprattutto per l’utilizzo sconsiderato delle proprie scoperte sul nucleare. Quello che colpisce come un pugno allo stomaco è l’ossimoro creato dalle note allegre e dal fischiettio che accompagna il ritornello e un testo che fa di Games Without Frontiers una tra le più aspre critiche alla guerra per come la conosciamo noi, un infelice balletto diretto da nazioni miopi e bramose di inviare la propria prole al confine. Il vero capolavoro creato dal cantante-autore inglese è però il video che accompagna e rende ancora più significativa l’opera. Ne esistono due versioni: quella trasmessa allora via televisione era una versione edulcorata, le cui scene più significative sono state sostituite con dei pezzi raccogliticci, evidente frutto di una censura e che nulla hanno a che fare con le lapidarie parole ripetute da Peter Gabriel. Rispetto alla versione originale mancano infatti i segmenti in cui, attorno ad un tavolo stracolmo di ogni cibo, siedono dei bambini vestiti oltremodo eleganti, decisamente ridicoli e esagerati, mentre al centro, con un effetto oggi un po’ pacchiano, passano immagini di guerra, a cui si alternano alcune gare olimpiche, prove di Giochi Senza Frontiere, simulazioni di un attacco nucleare e tetri carri allegorici di un’America imperialista. 
La guerra è solo un gioco
La trasformazione e la banalizzazione della guerra in un gioco per bambini, in Games Without Frontiers, così come negli infiniti FPS – ma non solo – che puntualmente scalano le classifiche dei videogiochi più venduti dell’anno, veicoli volenti o nolenti di un messaggio distorto e lontano dalla realtà. Cosa ha a che fare la guerra, quella vera e che vediamo solo filtrata dalle telecamere dei TG, con le scene di inseguimenti fra aerei nemmeno fossero motorini sul GRA, esplosioni, navi che si spezzano in due e colano a picco e fraterne strette di mano a cui assistiamo ogni qual volta inseriamo il disco o lanciamo l’eseguibile dei vari Call of Duty o Battlefield, solo per citare i due massimi – leggasi più conosciuti – esponenti del genere? La risposta è molto semplice: niente. Niente ed è forse giusto così, perché non c’è nulla di eroico e di emozionante, nessuno supersquadrone della morte o eroe invincibile nei lunghi e logoranti assedi di Mossul o Raqqa, protratti per mesi tra un susseguirsi di supporti aerei e lente avanzate per la conquista di una diga, un aeroporto o un quartiere, dove la vera sfida è il controllo delle linee di rifornimento, fondamentali per non essere tagliati fuori dalla retroguardia. Eppure tali scenari li abbiamo visti da vicino, il terzo capitolo di Battlefield è proprio ambientato in Medio Oriente, ma dove sono nell’odierna Siria o Afghanistan i palazzi fatti saltare in aria con un solo colpo di lanciamissili e il successivo urlo di vittoria di uno sparuto gruppetti di soldati? Forse è giusto così, perché non avrei mai sopportato un Battlefield 1 che ricalcasse fedelmente i teatri degli scontri avvenuti nella Prima Guerra Mondiale, molto meglio una vuota spettacolarizzazione, infarcita di storie personali e protagonisti senza macchia, piuttosto che le trincee fangose, dove dormire fianco a fianco della propria maschera antigas, sempre all’erta prima dell’inevitabile attacco con il fosgene. Quali sono i rischi che si corrono coprendo di un velo mitico e circondando con un’aura di leggenda i conflitti che, seppur inscenati in un futuro più o meno lontano o in un passato storico, virtualizziamo giornalmente sui nostri PC o console? Teoricamente nessuno; se dotato di adeguati filtri cognitivi, l’utente è ben consapevole che ciò che sta vedendo e “maneggiando” non è nemmeno una rappresentazione lontana della guerra, forse una fiction interpretata da uomini che giocano a fare i soldati. Il discorso rimane valido anche per quei prodotti che si fregiano del titolo di simulatori di guerra, come Arma, dove effettivamente non si è delle macchine immortali capaci di centrare il bersaglio da N chilometri di distanza, ma che restano comunque ben lontani da ciò che vuol dire sparare un colpo nella realtà. Se ci avete provato, sapete cosa voglia dire. Nella pratica, il rischio che il confine tra ciò che fittizio e ciò che è vero si riduca ad una sottile linea è ben presente, perché la grafica tende ormai al realismo e perché è difficile rimanere impassibili davanti ad una continua escalation di proiettili e di vittorie del bene sul male. Prima di far fuori l’ennesimo terrorista nel prossimo FPS, è quindi meglio avere con sé gli unici antidoti: la conoscenza e l’informazione.
Non esiste la neutralità
La guerra diventa glamour e di moda nei videogiochi, i conflitti vengono svuotati dei loro propri contenuti, pacchettizzati, abbelliti con ogni sorta di retorica e offerti ad un pubblico ben lieto di indossare uno spesso paio di occhiali che distorce la realtà. Ogni tanto qualcuno muore, magari la spalla del protagonista, guarda a caso negli ultimi atti della campagna, dando il là ad un banale crescendo di frasi fatte in nome della democrazia, ultimo baluardo contro un nemico di volta in volta differente, ieri l’Unione Sovietica – o l’America guardando dall’altra parte dello schermo – oggi i terroristi di ogni genere, alle volte sostituiti con i cinesi, di cui è sempre meglio non fidarsi troppo. Questa etichettatura del “noi” e del “loro” cosa rappresenta in un gioco di guerra? Che i videogiochi sono un’espressione culturale, fortunatamente oggi riconosciuta come tale, ma che come tale non può per sua natura essere neutra. Ecco quindi che si fa latrice di una visione del mondo ben precisa, tornando al punto di partenza, la stessa biasimata nella canzone Games Without Frontiers, quella di un’ideologia sciovinista che oramai ha superato i confini nazionali e si è estesa in una dicotomia tra occidente vs tutto ciò che non è/non vuole/non può essere definito con i nostri canoni di democrazia e di libero mercato. Noi siamo il bene e loro il male? Viceversa? Siamo entrambi, con metodi differenti, le due facce d’una stessa medaglia? Le sfumature sono tante, ma il fatto che i videogame possano essere usati come sottile propaganda è cosa ben nota e nemmeno troppo celata. Il caso più eclatante rimane di certo quello di America’s Army, sparatutto in prima persona finanziato dal governo americano e sviluppato sotto l’ala protettrice delle forze militari a stelle e strisce. America’s Army, la cui prima incarnazione è uscita nel 2002, non si è nascosto dietro un dito e anzi il titolo veniva proprio distribuito nei centri di arruolamento, una pubblicità vera e propria passata attraverso i colpi d’arma da fuoco digitali di un videogioco (nemmeno tanto riuscito). Un esempio analogo è quello di KumaWar, FPS creato con il supporto di veterani di guerra e specialisti e che mette in scena fatti di guerra realmente accaduti, come la morte di Osama Bin Laden o la presa di Sirte. Il connubio tra guerra e videogiochi risale agli albori del medium e, nel caso siate interessati ad approfondire l’argomento, i libri War Play: Video Games and the Future of Armed Conflict e Joystick Soldiers: The Politics of Play in Military Video Games fanno un ottimo ritratto del sodalizio, spiegando le motivazioni dietro ai tanti investimenti. A differenza del teatro e di giornali prima e della radio e della televisione in seconda battuta, il videogame non è uno strumento passivo, in cui l’utente recepisce in modo distaccato ciò che viene proposto, ma anzi lo vive in prima persona e interagisce con esso, entrando più strettamente in contatto con il messaggio, fino ad assorbirlo ed ecco il perché una certa parte industry è stata invasa dai finanziamenti provenienti dai vari enti governativi.

Nella quasi totalità dei casi, nessuno di noi – per fortuna – calcherà realmente un teatro di guerra e si troverà faccia a faccia con il vero pericolo. Eppure, se si è videogiocatori, una idea di cosa sia e di come sia fatta la guerra ce l’abbiamo, ma esclusivamente mediata dai numerosi videogiochi in cui si imbraccia un fucile in mezzo ai colpi di mortaio in qualche battaglia storica oppure si cerca di sopravvivere in uno scenario fantapolitico, nel quale il mondo moderno è stato sconquassato dal nemico di turno. Spegnere il cervello e fare una strage di zombi-nazi-demoni-terroristi è un ottimo rimedio per sfuggire anche per solo un attimo dalla routine quotidiana, ma fra l’ennesimo palazzo fatto saltare in aria e il successivo raid aereo, occorre sempre tenere a mente che ciò che si sta provando non è uno sterile passatempo, bensì il frutto di una precisa visione del mondo, un insieme di storie che, per fare intrattenimento, semplificano e creano dei netti contrasti fra il bianco e il nero, lasciando completamente sullo sfondo ogni sfumatura.

Leggi altri articoli