Una vita da fifona

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a cura di Hara_G

Mi trovo un po’ a disagio a parlare in prima persona quando scrivo gli articoli, ma il tema di oggi non riesco a trattarlo senza la lente personale dell’esperienza. Una scelta che tutto sommato si confà perfettamente all’argomento cardine di questo speciale, ovvero i videogiochi survival horror, i quali spesso ricorrono alla visuale in prima persona per garantire al giocatore un’immersione totale.
Seguendo dunque questo ragionamento, vi parlerò della mia paura nei confronti di un genere tanto amato quanto – per l’appunto – terrificante, e di come sono riuscita a sconfiggerla (più o meno) grazie al potere dell’amicizia. 
L’augurio è quello di regalare a voi lettori qualche sorriso, di riportarvi alla mente i vostri ricordi conditi di salti dalla sedia, ansia crescente nel petto, e sguardi furtivi al di là delle vostre spalle, nel buio più totale.
Tutto iniziò con Silent Hill. Avevo acquisito un certo coraggio nell’affrontare contesti macabri e mostruosi grazie a MediEvil, per cui nella mia mente da bambina di 10 anni ero pronta a passare allo step successivo. D’altronde era già nato in me una sorta di amore nei confronti di Konami grazie a Metal Gear Solid (vai a sapere come sarebbe andata a finire dopo), quindi mi sentivo pronta a provare un nuovo tipo di avventura.
Quanta ingenuità.
Tornata da scuola, avvolta dalla luce del pomeriggio, conobbi Harry e la figlia Cheryl. Vidi il loro incidente d’auto, e subito entrai in fibrillazione per ritrovare la bambina. Già capii che qualcosa non andava quando, nei panni di Harry, mi intrufolai in un cunicolo illuminato dalla sola luce del mio accendino. La sedia a rotelle per terra, con la ruota che misteriosamente girava lentamente, fu un ulteriore campanello d’allarme, che lì per lì mi bloccò. Tuttavia decisi di avanzare, a piccoli passi, cercando di setacciare ogni angolo per garantire la mia sicurezza. Poi mi ritrovai in quel campo circondato da inferriate e cadaveri crocifissi, e venni assalita da tanti piccoli bambini striscianti con uno dei sottofondi musicali più inquietanti della mia giovane vita.
Mi alzai dalla sedia, con gli occhi sbarrati, e spensi la PlayStation. Il giorno seguente diedi il gioco a un mio amico, e non lo rividi mai più.
 
Continuai a crescere, videoludicamente parlando, giostrandomi tra generi sempre meno disparati, e definendo sempre di più i miei gusti: lasciai i giochi sportivi, i picchiaduro, e soprattutto i survival horror. Silent Hill mi aveva traumatizzato abbastanza da capire che il suo genere non faceva affatto per me e per il mio cuore. Eppure, addentrandomi sempre di più nel mondo della stampa specializzata, mi rendevo conto che i miei gusti personali stavano creando una sorta di vuoto nella mia conoscenza videoludica. Anche perché, diciamocelo chiaro: il genere survival horror è affascinante perché tramite la suspense e i millantati jumpscare, riesce a raccontare storie ricche di fascino. E per me, che mi basavo (e mi baso tutt’ora) sulla componente narrativa di un gioco, voleva dire perdere una parte importante del videogioco inteso come medium. 
Fu così che, in età ormai universitaria, l’amicizia mi venne incontro: con i miei più cari compagni gamer incominciammo a dedicare una sera alla settimana per giocare insieme a certi capisaldi che per un motivo o per un altro avevamo perduto. L’organizzazione era molto semplice:  junk food, birra, uno degli amici seduto al centro col joypad, mentre io e l’altro amico seduti accanto a dispensare consigli o urla. Urla perché il primo titolo che decidemmo di recuperare fu (il compianto) Dead Space. Il lavoro di Visceral Games era ormai sul mercato da un paio di annetti, ma la sua essenza rimaneva tremendamente terrificante. D’altronde, sapere di essere dispersi nello spazio, a bordo della USG Ishimura nei panni di un povero ingegnere noto come Isaac Clark, non era un pensiero confortante per iniziare l’avventura. A tutto ciò si aggiungeva la presenza dei Necromorfi, una fusione tra corpo umano ed essenza di morte, et voilà, la fifa era perfettamente servita. Insieme ai miei compagni siamo caduti nel vizio (come tutti, ammettetelo) di calpestare qualsiasi cadavere steso per terra e di camminare con il mirino puntato ad altezza testa o gambe. Al di là della tensione costante, questa prima esperienza mi ha permesso di vivere un’ebbrezza che nessun altro genere mi aveva dato. O meglio, che solo Silent Hill, tanti anni fa mi aveva dato. E la cosa più bella è stata quella di avere accanto delle persone con cui condividere i risvolti della trama, l’atmosfera macabra, la tensione durante la camminate nelle sale buie della Ishimura e, soprattutto, la collaborazione per superare le parti più ostiche.

Fu in particolar modo quest’ultimo aspetto che ci portò a recuperare una delle pietre miliari del genere: la serie di Resident Evil. Li giocammo tutti, dal primo (in verità dallo Zero) fino al sesto deludente capitolo, dato che all’epoca il settimo era ancora un’utopia. Sei occhi al servizio di due mani per risolvere gli enigmi della villa o della centrale di polizia; per cercare disperatamente munizioni per sopravvivere a zombie contro cui l’headshot faceva male solo fino a un certo punto; per urlare insieme “NEMESIS! SCAPPA!”. Non ci importava della grafica, né della lentezza dei comandi: eravamo insieme, spinti dal desiderio comune di vivere una storia e di conoscere personaggi  divenuti leggenda nell’immaginario comune dei videogiocatori. Senza contare che molti momenti di tensione si tramutavano in risate poiché ci sentivamo forti e sicuri, sia perché eravamo insieme, sia perché fino ad allora avevamo sempre comandato personaggi armati. 
Il cambiamento fu infatti evidente quando ci cimentammo in Slender: The Eight Pages. Niente terza persona, niente armi: osservavamo l’oscura foresta attraverso gli occhi di una bambina, equipaggiata solamente con una torcia dalla durata limitata. Persino il più coraggioso del trio, colui che di solito aveva le redini del joypad o della tastiera, aveva un po’ di fifa. Lui non lo ammetterà mai, ma io lo so. Senonché, dopo aver incontrato lo spettrale Slenderman un paio di volte, consigliai di spegnere la torcia così da riservare la batteria per esplorare gli spazi aperti, visto che ci trovavamo all’interno di un piccolo corridoio bianco. Fu il consiglio più brutto di sempre: evidentemente il buio attirava Slenderman, che decise di piombare all’improvviso, nell’oscurità, e di coprire l’intero schermo del computer con il suo volto bianco, sancendo il nostro Game Over. Saltammo letteralmente tutti e tre dalla sedia urlando e imprecando, io rischiai di rompere il cellulare che tenevo in mano, e aspettammo alcuni secondi prima di riavviare la partita. 
Oggi ricordiamo questo episodio ridendo, ma quella scarica di puro terrore fu l’ennesima prova del potere immersivo che ha il genere survival horror.
Probabilmente fu per questa ragione che quando venne annunciata la demo di P.T., mettemmo da parte l’impazienza di provare la nuova opera di Hideo Kojima, e aspettammo che tutti e tre fossimo disponibili (già alcuni di noi erano fuori sede in giro per l’Italia) per giocarla insieme. Di nuovo: prima persona, nessuna arma, in più una grafica particolarmente realistica, e una sequenza di enigmi allucinanti che ci tenne incollati davanti alla televisione per tutta la sera. Devo confessarvi che il potere di internet venne in nostro soccorso solo per l’ultimo rompicapo, poiché per il resto avevamo un tale trasporto, accompagnato dalla solita ma speciale adrenalina iniziata anni prima con Dead Space, che è ciò che ha reso memorabile questi incontri, da noi rinominati come maratone.Esse sono state tante nel corso degli anni, e non incentrate esclusivamente sui surival horror. Tuttavia quelle dedicate a questo genere, di cui vi ho raccontato solo gli episodi salienti, sono quelle che ricordo con più piacere. 

Questa lunga confessione personale ha un duplice scopo: innanzitutto omaggiare un genere spesso sottovalutato. Il survival horror, a mio parere, non ha il semplice fine di spaventare, ma, quando fatto bene, di fare vivere storie che si addentrano nei lati più oscuri e macabri dell’essere umano. I cosiddetti jumpscare fini a sé stessi sono inutili, ma se vissuti perché davanti a noi vi è una creatura che in quel momento incarna le nostre paure, hanno tutto un altro fascino. A tal proposito, fa piacere notare come l’industria videoludica italiana stia diventando un’eccellenza del genere, tra cui mi viene da citare il recente Remothered: Tormented Fathers e Daymare: 1998.

In secondo luogo, non perché meno importante, voglio omaggiare il giocare insieme nel senso più puro del termine. Sarà perché ormai appartengo a una generazione vecchia di videogiocatori, ma l’avere accanto amici con i quali condividere un’esperienza intima come quella di giocare ai singleplayer, checché se ne dica, ha un significato importante, di cui a volte ci si dimentica nello sconfinato mondo del multiplayer online. I commenti post-partita, lo scambio di consigli, il passaggio di joypad perché uno dei giocatori è troppo arrabbiato dopo aver perso più volte nella stessa sequenza, sono tutti piccoli momenti speciali che valorizzano l’azione stessa del giocare.

Non mi vergogno a dire che grazie anche a tutto ciò mi sento una persona migliore, perché ho capito che bisogna sempre essere aperti ad esplorare territori sconosciuti, anche se a primo impatto non ci colpiscono.

Concludo consigliandovi di trovare un po’ di tempo da dedicare ai vostri amici e alla vostra passione se siete adulti come la sottoscritta, o di provare questo tipo di esperienza se siete giovani e vi siete trovati catapultati nell’odierno panorama videoludico.

Il videogioco può essere declinato in diversi modi, e sappiate che farlo insieme è uno dei più belli.

Parola di una fifona un po’ più coraggiosa.

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