Distopico, alienante, introspettivo. Quello che ha significato The Legend of Zelda: Majora’s Mask nel panorama videoludico di inizio millennio è qualcosa di più di un semplice episodio di una saga leggendaria. E’ un titolo che ha scavato a fondo nella coscienza di milioni di videogiocatori, portando alla luce qualcosa di poco familiare. Lontano anni luce da quell’Ocarina of Time che ha saputo far innamorare molti, Majora’s Mask si piazza al suo completo opposto, trattando tematiche apocalittiche degne della migliore cinematografia moderna, immergendo il giocatore in un mondo dai colori cupi e dalle atmosfere aliene, facendogli ben presto dimenticare le lunghe e felici galoppate in sella ad Epona del precedente capitolo. Majora’s Mask è sempre Zelda, sia chiaro, ma questa volta lo è nell’animo e non nell’aspetto, riproponendo in dinamiche rivoluzionarie la poesia che da sempre ha contraddistinto questa famosa creatura del maestro Shigeru Miyamoto. Ma facciamo un respiro lungo e procediamo con ordine.
Tra rumors, corsi e ricorsi storici
Che Majora’s Mask fosse nell’aria, già lo si sapeva dal 2011. L’anno in cui Nintendo rilasciò Ocarina of Time 3D e, alle continue domande dei fan a proposito di Majora’s Mask, Eiji Aonuma rispose che un remake “non è una cosa impossibile”. A partire da questa dichiarazione i rumors si rincorsero potenti, aiutati dal trailer (poi risultato falso) pubblicato nel 2012 in cui si annunciava una versione Wii U. Ad aumentare l’hype, poi, regalando ai fans certezze giunte per vie traverse, si aggiunse il remake per Wii U di Zelda: The Wind Waker. I migliori titoli della saga erano stati restaurati per intero, all’appello ne mancava solo uno. Il terreno c’era, il pubblico in fermento pure, dunque non restava che annunciarlo pubblicamente. A riguardo ci ha pensato Satoru Iwata, proprio nell’ultimo Nintendo Direct del 5 novembre, rivelando che la nuova versione di Majora’s Mask, arricchita dall’effetto stereoscopico, sarà in vendita a partire dalla prossima primavera. Una bomba, a tutti gli effetti, che ha fatto il giro del mondo e che ha diviso i giocatori a metà: chi questo titolo lo ha amato nel profondo, e chi non è mai riuscito a digerirlo veramente.
Un’ outsider tra le leggende
Majora’s Mask nasce, fin dalla sua progettazione, come un outsider, figlio di non uno ma ben due progetti paralleli della serie Zelda e assemblato in poco tempo. La storia è semplice ma non meno affascinante. Vendute otto milioni di copie di Ocarina of Time, il game director Eiji Aonuma, su direttive di Nintendo stessa, si trovò per le mani un progetto embrionale chiamato Ura Zelda da dover pubblicare in breve termine e che aveva come scopo quello di amplificare il successo mondiale di Ocarina of Time, sedimentando il particolare genere che la saga Zelda aveva contribuito a creare. Ma Ura Zelda apparve subito monco e poco accattivante, al punto che Aonuma stesso chiese un parere a Miyamoto. Il papà di Link, ambizioso ed eclettico, mise ai voti una proposta semplice: accantonare in parte Ura Zelda e riutilizzare tutto ciò che c’era di buono in Ocarina of Time, stravolgendolo però completamente, dandogli un taglio diametralmente opposto. Il motore grafico c’era, un gameplay solido anche, ma quello che mancava era un’idea talmente affascinante da poter giustificare lo stravolgimento della saga. E’ così che un’atmosfera cupa, a tratti disturbante per chi era abituato alla luminosità dei capitoli precedenti, prese il sopravvento per quello che fu ribattezzato progetto Zelda Gaiden e che, in una folle corsa contro il tempo, diede alla luce – in neanche due anni e mezzo di sviluppo- Majora’s Mask, il titolo forse più audace di tutta l’epopea di Link e Zelda.
Quel gameplay oscuro che ti colpisce, e poi ti stupisce
Majora’s Mask è quanto di più distante da ogni altro capitolo della saga Zelda sia nell’ambientazione sia nel successo riscontrato dal pubblico. Complice una struttura in-game forse troppo matura per il target solito dei titoli Zelda, Majora’s Mask riuscì comunque a ritagliarsi una buona fetta di pubblico soprattutto in quello più maturo. Figlio di una scelta artistica ben congegnata, in Majora’s Mask le atmosfere cupe non potevano non essere che accompagnate da un gameplay a tratti opprimente.
Nonostante sia slegato da ogni altro capitolo ad eccezione di Awakening, questa volta Link non si trova ad Hyrule ma in un suo corrispettivo negativo, a Termina. Già il nome stesso del mondo fa capire il cambio di direzione della saga, riportando alla mente un confine ultimo, inarrivabile, alla cui fine si può trovare solo un baratro incolmabile. Privato di Epona e dell’Ocarina del Tempo, derubato da un misterioso Skull Kid, Link avrà solo tre giorni di tempo per salvare Termina, minacciato da una gigantesca Luna dall’aspetto feroce che sta per schiantarsi al suolo. Compare, per la prima volta in un gioco della serie Zelda, il tema apocalittico e del disfacimento di un intero mondo dal quale si deve sfuggire, pena la morte. Non vi sono, non subito per lo meno, nemici che vogliono schiavizzare il mondo, ma solo personaggi malvagi che il mondo lo vogliono letteralmente radere al suolo.
I tre giorni dati a Link si rispecchiano in tutta la loro prepotenza sul giocatore, convertendo un giorno di gioco in circa venti minuti reali, mettendolo alle strette e logorandolo psicologicamente sul piano del gameplay. Appare assurdo di come un gioco possa durare appena un’ora, ed infatti, una volta recuperata l’Ocarina, sarà possibile mandare indietro il tempo allungando quello che è di fatto il tempo a disposizione del giocatore per risolvere puzzle e uscire vittorioso dai molti dungeon disseminati. Si potrà mandare indietro il tempo sì, ma una volta fatto – a patto che la missione intrapresa non sia stata completata – i progressi in gioco svaniranno. Ecco dunque l’anima dannata del gameplay che esce fuori dallo schermo in tutta la sua complessità: il giocatore viene legato con un doppio filo allo schermo, sia mentre si districa tra i molti puzzle e nemici, sia quando guarda l’orologio. Il suo orologio.
A variare ancora più il gameplay, ecco l’utilizzo delle maschere che permette a Link di mutarsi in forme differenti, di acquisire nuove abilità, sempre a discapito della sua umanità, della sua interezza. Ventiquattro maschere differenti – di cui solo tre che ne cambiano l’aspetto- conferiscono a Link una natura diversa, quasi teatrale, che tendono a mutare radicalmente l’esperienza, rendendola di fatto più oscura e inquietante.
Non c’è nessuna Zelda da salvare in questo episodio, essa compare sì, ma solo in un rapido cameo che non fa altro che ricordarci di quanto Link sia distante da Hyrule. Dunque cambia radicalmente l’incipit dell’eroe: Link, strappato dal proprio mondo e trasferito brutalmente in un altro, non ha un’ epica missione da portare a termine ma solo la necessità di sopravvivere, e per farlo sarà costretto ad intraprendere una sorta di viaggio interiore in quella realtà parallela e distorta. A portarlo attraverso l’incubo non è un malvagio qualunque, ma una sorta di Bianconiglio totalmente atipico, lo Skull Kid, che porterà Link a testare sé stesso in un inseguimento quasi disperato al tempo in cui è immerso.
Link dovrà inabissarsi nei meandri più oscuri di sé stesso, dimenticando da dove viene, chi è stato, ritrovando nella sua forma fanciullesca un punto di partenza per poter sondare il buio più profondo, come fine ultimo quello di poter squarciare le tenebre e riportare nel mondo quella speranza che sembra essere schiacciata da un destino ineluttabile. Quel destino che, in molti momenti del gioco, è ben rappresentato dal ghigno distorto di una Luna aberrante e malvagia.
Tutto è importante, nulla è necessario
Mentre scrivo queste righe, in giro per il web infuria già la diatriba tra puristi e nostalgici. Gli uni, che vogliono che lo spirito della creatura di Miyamoto, così elitaria e di nicchia, non venga infangato, contro i secondi, che da anni richiedono a gran voce un porting degno di questo nome per far sì che in molti abbiano l’occasione di giocarci, seppur per la prima volta, perché all’epoca troppo giovani. Per quello che riguarda il sottoscritto, qualunque adattamento è lecito, anzi richiesto, se esso apporterà migliorie all’esperienza videoludica unica che questo titolo è riuscito a proporre quindici anni fa. Si pensi solamente al piccolo universo di nicchia che Majora’s Mask ha contribuito a creare nonostante esso sia partito sotto gli auspici tra i meno favorevoli su piazza.
Numeri alla mano, infatti, è uno degli Zelda che ha venduto meno in assoluto. Con i suoi tre milioni di pezzi venduti, di certo non equiparabili agli otto che all’epoca piazzò Ocarina of Time su Nintendo 64, è riuscito comunque nel suo intento, e cioè quello di incantare raccontandosi. Per merito delle sue atmosfere cupe, di un gameplay innovativo e alienante, e di una difficoltà che ha reso il titolo non accessibile ai più, Majora’s Mask ha fatto parlare molto di sé e lo sta facendo tutt’ora.
Fiduciosi dell’ottima conversione per 3DS di Ocarina of Time, e sperando vivamente in un porting stereoscopico degno di questo nome, il mio augurio per questa nuova edizione è che essa rimanga quanto più fedele all’originale cercando di non disperdere quelle tinte così fosche e negative che hanno contribuito a renderlo, in un modo totalmente inaspettato, così indimenticabile.