The Last Guardian

Avatar

a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

Le opere di Fumito Ueda sono una preziosa rarità, destinate a essere sempre meno presenti nel mercato moderno: fiabe incantate, cristallizzate nel tempo, che mai invecchiano e che si rivolgono in special modo a quel gruppo di accoliti dalla grande sensibilità che è disposto ad accettare dei compromessi, pur di accogliere a braccia aperte i lavori di un autore unico e inimitabile. 
Simbiosi
Giocare a un suo titolo significa abbandonare la nostra realtà e perdersi in quella fantastica e crepuscolare in cui veniamo immersi, dentro una natura incontaminata, quieta e onnisciente, dove antiche costruzioni fuori scala che paiono millenarie puntano verso un cielo immacolato e mostrano baratri offuscati da una bruma densa e misteriosa, in grado di farvi sentire delle nullità incapaci di controllare il vostro iniquo destino. La fuga da un castello dai meandri sconfinati, mano nella mano insieme a una ragazza fragile e indifesa; il sacrificio d’amore e la lotta disperata contro dei colossi sempiterni, per tenere ancora viva la speranza di riavere indietro la propria amata; la candida storia di amicizia e amore incondizionato tra un bambino e un’enorme bestia, uniti dalla necessità di un mutuo soccorso fatto sguardi, comprensione e non di parole: sono istantanee dalla potenza immaginifica impareggiabile, che delineano con chiarezza una volontà d’intenti che è l’anima più nobile di tutto il processo creativo. Processo che nel caso di The Last Guardian è stato lungo, faticoso e molto problematico, presentando a più riprese il rischio sempre così pressante di una cancellazione che pendeva sulla sua testa e sulle speranze dei fan. Le conseguenze di questa gestazione tribolata sono tutte visibili all’interno di The Last Guardian, che mostra il fianco a difetti evidenti e fastidiosi, pur mantenendo intatta la sua aura magica ed evocativa. Un’aura che è però meno luminosa rispetto a quella che avrebbe potuto rischiarare le coscienze dei giocatori di quasi una decade fa, ben diversi da quelli che rappresentano oggi il mercato.
Col ricordo ancora fresco delle bellezze di Shadow of the Colossus, gli estimatori di Ueda accolsero con gioia l’annuncio del fu “Project Trico“,che si preparava a debuttare su PS3. Poi, col passare del tempo, tutto andò storto e il rischio di un clamoroso vaporware stava quasi per prendere forma: ci furono dei problemi legati alla difficoltà di programmazione sulla vecchia console Sony, i tempi di sviluppo si dilatarono, i rapporti tra lo sviluppatore e la produzione conobbero degl’improvvisi attriti, arrivarono delle importanti defezioni e il progetto si arenò, con buona pace di chi su PS3 non riuscì mai a giocarlo. 
Fuori dal tempo
L’idea era però ancora valida, Sony voleva puntarci e Ueda, nonostante tutto, è riuscito a consegnarci il frutto della sua visione e delle proprie idee, nate osservando il comportamento del suo gatto. Il risultato è proprio quella bestia che vedete trafitta dalle lance all’inizio del gioco, ferita, incatenata e bisognosa di attenzioni. Come Trico, The Last Guardian mostra le proprie cicatrici dall’inizio alla fine; incespica, talvolta avanza con incedere insicuro, cade vittima di una telecamera bizzosa e confusionaria che non sa quasi mai stare al proprio posto, e ha la goffaggine di un’animale corpulento, stolido e disobbediente. Lo testimonia il sistema di controllo impacciato e impreciso, inglorioso retaggio di un’altra generazione, che ha bisogno di diversi input per convogliare nella creatura la volontà del giocatore. 
Come Trico, però, The Last Guardian sa anche volare lontano, mostrandoci l’altra faccia del videogioco, un volto di cui stiamo progressivamente disconoscendo i tratti più dolci e aggraziati. Sono i lineamenti familiari del passato, le cui rughe parlano di consuetudini perdute, semplicità, spensieratezza, sentimenti autentici e la minaccia sempre strisciante di un male che deve esistere per stabilire i giusti equilibri. The Last Guardian parla di tutto ciò tramite un minimalismo della scrittura davvero ammirevole, che non necessità di complesse sceneggiature perché sa usare bene gli strumenti del medium a cui appartiene. Buona parte della narrazione avviene costringendo il giocatore a farsi delle domande; gli ambienti di gioco comunicano, suggeriscono, spiegano in silenzio, e talvolta tuonano per reclamare la loro presenza, trasmettendo un senso di antichità e di storia fatto di informazioni, suggestioni e teorie, che il giocatore assimila per osmosi e poi interpreta.
Ci sono tanti misteri e sentimenti e spazio da riempire con l’immaginazione e le idee personali, cosa che apprezzo tantissimo. È per me una fonte di ispirazione riguardo a cosa può essere raccontato senza dialoghi e a come arricchire gli ambienti di gioco concentrandosi sulle emozioni.“, ha dichiarato Tim Schafer a proposito di The Last Guardian, che come per uno sventurato nomen omen si ritrova a essere l’ultimo custode di una diversità che bisogna davvero preservare.
Leggi altri articoli