È stato il primo assaggio di “next-gen” degli anni Duemila, il tentativo più audace del compiere il paradosso del “fotorealismo fantasy”. Un intero continente da esplorare che fosse veramente “vivo”, i cui abitanti vivessero ognuno una “vita virtuale” che prescindeva dalle azioni del giocatore. Un mondo aperto, arioso e pieno di segreti da scoprire, in cui qualunque personaggio avrebbe potuto fare potenzialmente ogni cosa. Questo è stato, nel 2006, The Elder Scrolls IV: Oblivion. Ma non solo: è stato uno dei videogiochi che con più forza ha gridato al grande pubblico che il fantasy non era solo elfi e anelli magici, ma una metafora del mondo e della storia umana. Una rappresentazione veramente “realistica” (The Witcher sarebbe arrivato solo un anno dopo) e per i tempi anche “simulativa”. In occasione del dodicesimo anniversario dall’uscita di Oblivion, vogliamo riaccompagnarvi nelle lussureggianti foreste di Cyrodill per rivivere uno dei videogiochi di ruolo più influenti della settima generazione.
Quando il fantasy superò gli FPS
L’idea di un mondo aperto, completamente esplorabile e senza praticamente limiti era già stata ampiamente esplorata con i precedenti Elder Scrolls, con Morrowind che ne aveva rappresentato il maggior esponente fino a quel momento. L’obiettivo di Bethesda era quindi un’altra: prendere il concetto della “libertà fantasy” e portarlo fuori dalla nicchia del giocatore di ruolo. Un’ambizione che faceva coppia con un’altra ugualmente mostruosa: dargli una grafica e un’estetica all’avanguardia, ai tempi era rappresentata dagli FPS. Il mondo videoludico degli anni Duemila era stato infatti sconvolto da Doom III e Half-Life 2, che avevano fissato con prepotenza nuovi standard tecnici. La risposta a entrambi questi quesiti arriva sempre dal Construction Set, il tool di programmazione che come da tradizione viene distribuito anche all’utenza per permettere loro di creare mod. La grafica viene creata tramite un avanzato sistema procedurale, volto soprattutto alla creazione della vegetazione e della fauna; il continente di Cyrodill è infatti ricoperto da foreste. La “vita” viene invece creata con la prima versione della Radiant AI, le routine di intelligenza artificiale che, oltre a dare a ciascun personaggio abitudini quotidiane e ritmo circadiano, gli permettono anche una relativa indipendenza. È rimasto famoso l’aneddoto dei programmatori che hanno dovuto addirittura limitare libertà come borseggiare il giocatore, per timore che nel furto si portassero via oggetti chiave per il completamento di qualche missione. Allo stesso modo i personaggi del gioco sono, forse per la prima volta in assoluto nella videoludica di ruolo, tutti unici: oltre alle abitudini ciascuno ha lineamenti individuali e un proprio “carattere”, tra l’altro manipolabile tramite un minigioco dell’oratoria. L’editor dei volti (lo stesso da usare per il proprio personaggio) era di una profondità mai vista per quei tempi, ai limiti dell’autoritratto.
“Ho visto i cancelli di Oblivion”…
La storia di The Elder Scrolls IV è ambientata a Cyrodill, provincia centrale dell’impero di Tamriel, negli ultimi giorni della Terza Era. Come molte altre volte, il giocatore inizia da prigioniero, il cui fato cambierà improvvisamente quando la sua cella irromperà nientemeno che l’imperatore Uriel Septim. Accompagnato dalle Lame (Blades), egli sta fuggendo da terribili assassini Mitica Alba, un gruppo di perversi adoratori di Oblivion, il terrificante piano dell’esistenza dominato dai Daedra. Nello specifico i Mitica Alba adorano il signore della distruzione Mehrunes Dagon, e vogliono la vita dell’imperatore affinché i Fuochi di Drago della città imperiale si spengano e il mondo di Oblivion possa invadere quello umano. Il nostro eroe, prima improvvisato poi consapevole, dovrà pertanto trovare e aiutare il figlio perduto di Septim (doppiato da Sean Bean, il Boromir de Il Signore degli Anelli) nella sua lotta contro l’Oblivion.
O almeno, questa è la premessa. Ciò che più stupì di Oblivion era appunto come tutto questo fosse un compito ai limiti della “scusante”, il modo per aprire al giocatore un mondo dove la quest principale è una componente se vogliamo anche minimale rispetto al resto. Cyrodill è infatti piena di quest secondarie e segreti da scoprire, dalle quattro gilde principali (Guerrieri, Maghi, Ladri e Confraternita Oscura) alle missioni dei singoli insediamenti e a quelle delle regioni selvagge. Perché, anche dopo dodici anni, è sorprendente l’atmosfera che si respira a Cyrodill. Le musiche morbide di Jeremy Soule aprono a foreste apparentemente sconfinate, i campi e i dolci pendii sono di un verde lussureggiante e la neve crocchia sotto i piedi. Ancora più sorprendente la costruzione stessa delle regioni selvatiche: le nove città del regno sono chiaramente visibili anche dall’esterno delle loro mura, con anche i medesimi edifici che vedremo una volta entrati. In totale logica del contrasto a tutta questa abbondanza visiva è invece costruito l’Oblivion: ambientazioni dal cielo rosso sangue piene di lava, devastazione e costruzioni di aspetto perverso e contorto, accessibili tramite cancelli infuocati e che vomitano Daedra minori. Il nostro mestiere di Campione di Cyrodill ci imporrà di entrare e chiudere questi cancelli verso l’inferno, tramite la rimozione di un’apposita pietra-sigillo.
Guarda e impara, Dovahkiin
Ci si può letteralmente perdere nella fitta vegetazione di Cyrodill, andando da un punto a un altro della mappa semplicemente per il gusto di farlo. L’ambientazione si srotola davanti al personaggio senza soluzione di continuità, regalando panorami ancora adesso da cartolina. Si esplora guidati dalla propria curiosità, alla ricerca del paesino o di quel dungeon inesplorato in cui vivere un’avventura grande o piccola. Nei fatti ogni partita (e sessione) del mondo di Oblivion è unica e irripetibile (a parte la presenza dell’immortale Adoring Fan, così costante da essere quasi un meme). Parimenti stupisce ancora oggi l’accuratezza delle missioni e il modo in cui le storie (grandi e piccole) si fondano in un unico insieme. La componente di gioco di ruolo più “pura” è rimasta molto profonda: se Skyrim ha solo la scelta della razza come parametro veramente influenzante le prime ore di gioco, Oblivion vi aggiunge il genere, il segno di nascita e la classe iniziale. In tal senso il tutorial rimane ancora oggi notevole, in quanto il gioco dedurrà la classe più adatta al nostro stile in base alle nostre azioni durante la fuga dalla prigione. Oltre a preoccuparci degli attributi base “classici” come forza e vigore, dovremo occuparci anche delle singole abilità (tra cui atletica, acrobazia, lama, furtività e le quattro scuole degli incantesimi) il cui punteggio va da 1 a 100 e va perfezionato esercitandosi (cioè facendo azioni inerenti al tipo di specializzazione). La strada verso il 100 sarà il pretesto per un’ulteriore serie di quest, ciascuna delle quali andrà svolta per lo specifico Maestro addestratore di quell’abilità.
Il gioco ebbe inoltre due contenuti aggiuntivi: il DLC Knights of the Nine, in cui divenire un crociato attraverso un pellegrinaggio per tutta Cyrodill, e Shivering Isles, un’espansione che introduceva un’ambientazione del tutto nuova, i regni di Sheogorath, principe pazzo dei Daedra. Quest’ultimo in particolare fu un contenuto così vasto e approfondito da essere ancora ricordato come una delle migliori espansioni della settima generazione.
Guarda e impara, Campioncino
Uscendo per un momento fuori dalla nostalgia, cosa è rimasto oggi di questo quarto Elder Scrolls? Più di quanto sarebbe lecito considerando i dodici anni di età. Ancora oggi si rimane ammaliati dai paesaggi e dal livello di dettaglio di armi e armature, i cui sottili intrecci e ghirigori dimostrano grande passione, oltre che competenza.
Di converso, l’età ha fatto emergere anche dei difetti. Originario del PC, il gioco è stato pian piano pubblicato su tutte le piattaforme di settima generazione. Inizialmente pensato per essere portato solo su Xbox 360, un anno dopo venne convertito anche per PlayStation 3, tra cui in un’edizione completa anche delle espansioni. Le versioni console comunque risentirono molto dell’inesperienza di Bethesda, cosa che si traduceva in un livello di dettaglio decisamente più basso e in un gioco (specialmente su PS3) decisamente più “scattoso” e meno ottimizzato. I volti sono sì unici, ma le espressioni facciali sono fin troppo “caricate” e la costruzione dei lineamenti ne fa risaltare l’aspetto artificioso, effetto che purtroppo capita anche al vestiario e a certi minigiochi come quello dell’oratoria. Le stesse trame, da quella principale alle gilde, per quanto avvincenti finiscono per risentire della loro “genericità” e risultare spersonalizzanti per il giocatore, le cui azioni sono troppo spesso solo un “braccio” dove l’NPC è la “mente” delle missioni. Anche a livello di struttura generale il gioco è molto “stagno”, in quanto molte azioni che facciamo sono irreparabili e precludono in maniera per oggi troppo “assolutista” l’accesso a una quest piuttosto che a un’altra, rendendo impossibile vedere tutto con un solo personaggio. Ultimo “punto critico” è il fatto che la componente furtiva e criminale sia troppo rigida, così come quella degli incantesimi (legati a un tasto differente rispetto a interazione e combattimento). La sensazione restituita (volendo anche inconsapevolmente) è che Cyrodill esista solo in funzione del nostro agire, cosa vera a livello strutturale ma fastidiosa da avvertire videogiocando.
The Elder Scrolls IV: Oblivion è un videogioco, oggi come ieri, culturalmente e storicamente significativo. Ha messo alla portata di tutti un mondo alternativo, una mitologia artificiale che è metafora della storia umana e dei suoi meccanismi, permettendo a chiunque vi entrasse di essere chiunque volesse essere. Un mondo aperto completamente in streaming, i cui dettagli erano così strabordanti da fargli andare strette persino le console di settima generazione, e su alcune delle quali uscì all’inizio del loro ciclo vitale. Una Cyrodill che, nonostante l’età ne abbia fatto emergere gli inevitabili spigoli, è ancora adesso degna di attenzione, con i suoi panorami memorabili, l’esplorazione delicata e l’iconicità del fantasy più classico. Dodici anni e (quasi) non sentirli.