Sia nel cinema che nella letteratura il genere horror è capace di stregare milioni di persone affamate di emozioni forti. Un media di tipo attivo quale il videogame è potenzialmente in grado di fornire un coinvolgimento addirittura superiore, costringendo il fruitore a un tipo di interazione unica. Sviluppatori brillanti, scelte registiche azzeccate e storie coinvolgenti rendono il videogame un terreno oltremodo fertile per il genere horror.
Nascita e linee guida
Per quanto in passato fossero esistiti altri esponenti del genere, è convenzione identificare la nascita del survival horror col celebre Alone in the Dark. Vanno così a definirsi una serie di tratti distintivi che saranno poi comuni agli altri giochi di questo filone. È bene quindi chiarire che il survival horror non è precisamente una tipologia di gioco, o almeno non nel senso tradizionale del termine. All’interno di questo grande ceppo troveremo infatti titoli estremamente diversi tra loro, che vanno dagli originali adventure game in terza persona, a titoli in prima persona, fino ai più recenti action game.
In origine l’atmosfera di questi giochi era il loro tratto maggiormente distintivo, capace di instillare nel giocatore una forte dose di ansia, una tensione tipica del cinema horror. Solitamente la regia di questa tipologia di prodotti tende a giocare su elementi classici della cinematografia, quali possono essere inquadrature ricercate, l’uso per così dire strategico degli effetti audio e una sceneggiatura incalzante. Altro elemento chiave è il nostro essere preda di qualcosa o di qualcuno: in genere non impersoneremo infatti il classico eroe senza macchia e senza paura, ma piuttosto persone normali catapultate loro malgrado in un contesto disturbato, in cui sopravvivere o cercare una via di fuga sarà spesso la nostra unica preoccupazione. In linea di massima il nostro personaggio sarà in grado di difendersi, utilizzando un armamentario spesso di fortuna ma dovendo avere a che fare con risorse esigue. Nel caso di armi da fuoco difficilmente avremo a disposizione un gran numero di munizioni, mentre nel caso di armi bianche il nostro potere d’attacco sarà piuttosto ridotto.
Un po’ di storia
Nel 1992 Infogrames lancia sul mercato Alone in the Dark, primo capitolo di una serie che avrebbe riscosso un notevole apprezzamento da parte del pubblico. Il gioco poteva essere affrontato da due punti di vista differenti, e ci poneva all’interno di una grande e sinistra villa di cui avremmo dovuto svelare i misteri, cercando nel contempo di fuggire e di portare a casa la pelle.
All’inizio del 1996 esce sul mercato giapponese Biohazard, titolo sviluppato da Capcom per la nuova console di Sony PlayStation, commercializzata all’epoca da poco più di un anno. Il gioco è un progetto coraggioso, piuttosto atipico per l’epoca, contraddistinto da una trama adulta e da un’atmosfera carica di tensione. Nei panni di uno dei personaggi giocabili ci troveremo all’interno di un’enorme magione infestata da zombie e non morti, esseri mutati a causa della contaminazione da parte di un particolare virus. Nonostante impersonassimo dei militari di una task force, le munizioni rappresentavano un problema non indifferente durante l’avventura, costringendoci a farne economia qualora volessimo garantirci la sopravvivenza. Il gioco – che in occidente prese il nome di Resident Evil – era corredato da un gran numero di enigmi dalla difficoltà variabile, che costringevano al backtracking e a un approccio ragionato per proseguire nella trama.
Ben presto arrivò per il prodotto un meritato successo commerciale, che mise in evidenza il genere del survival horror agli occhi del mondo. Capcom si rese conto di avere tra le mani una gallina dalle uova d’oro, e sfruttò il franchise con due seguiti di alta qualità, che puntuali fecero capolino sempre su PS1. Ovviamente altre software house non rimasero a guardare e cercarono di inserirsi sulla scia del successo di Resident Evil, traendone spunto, emulando oppure tirando fuori dal cilindro prodotti freschi e dalle indiscutibili qualità.
Tra questi impossibile non menzionare l’eccelso Silent Hill, anch’esso divenuto una serie di successo. È stato sviluppato dalla giapponese Konami, sfruttando in maniera intelligente le carenze tecniche di PlayStation per ottenere un opprimente effetto nebbia (fogging, un effetto grafico tanto caro agli utenti N64), che conferisse un aspetto inquietante alle ambientazioni di gioco. Diversamente da Residenti Evil, Silent Hill osò sotto il profilo psicologico, offrendo una sceneggiatura molto più evoluta e ambigua, capace di sollevare un certo numero di dubbi e riflessioni nel giocatore, soprattutto in seguito ad alcuni dei possibili finali.
Con la generazione successiva le cose cominciano a cambiare.
I 128 bit fanno meno paura
Durante la prima generazione di console a 128 bit assistiamo a degli importanti cambiamenti all’interno del genere. I costi di sviluppo – specialmente su PS2 – erano diventati molo più consistenti rispetto alla precedente generazione, e lo sperimentalismo degli sviluppatori ne risentì.
Capcom seppe muoversi con intelligenza, proponendo su Dreamcast un ottimo spin off della serie regolare di Resident Evil che a conti fatti avrebbe tranquillamente potuto fregiarsi di un bel 4 accanto al titolo. Code Veronica fu in effetti una perla di rara bellezza, quasi una naturale evoluzione dei primi tre capitoli piuttosto che la reale rivoluzione che sarebbe arrivata da lì a breve.
Il quarto capitolo della saga arriva a sorpresa sulla console GameCube di Nintendo, rompendo del tutto i ponti col passato. Il gioco subisce una netta svolta action, dove la suspense e la tensione sono presenti, ma in qualche modo sovrastati dalla brutalità degli scontri. Gli zombie lenti e intorpiditi del passato lasciano il posto a esseri più reattivi e letali, portandoci in un contesto in cui il tempo per ragionare sarà davvero ridotto rispetto ai precedenti capitoli. Il gioco viene però confezionato in maniera egregia, divenendo da subito una killer application per la piccola console Nintendo.
Dal canto suo Silent Hill riuscì a migliorarsi grazie ad un secondo capitolo di eccellente qualità, ancora oggi considerato uno dei migliori horror di sempre in virtù dell’ottima sceneggiatura e dei vari livelli a cui è possibile interpretare la trama. L’horror nudo e crudo di questa generazione seppe concretizzarsi anche in titoli dai nomi meno altisonanti, come quell’Eternal Darkness penalizzato dal lungo e complesso sviluppo.
Il processo iniziato da Residenti Evil 4 avrebbe comunque continuato il proprio percorso. Non erano tanto i gusti degli utenti a cambiare, quanto piuttosto gli investimenti e i costi di sviluppo a farsi sempre più ingenti, portando gli sviluppatori alla ricerca di nuove utenze e di un maggiore ritorno economico.
Per quanto i premi tre Residenti Evil avessero avuto un notevole successo, orientare i propri prodotti in una direzione più marcatamente action avrebbe permesso di andare incontro ai gusti del prevedibile mercato occidentale, dove first person shooter ed action game in terza persona la facevano da padrone con numeri da capogiro.
Nonostante quindi gli elogi della stampa e il successo di critica e vendite, qualcuno cominciò a storcere il naso, osservando le software house giapponesi tradire le proprie origini basate sulla tensione e sulla suspense per abbracciare una occidentalizzazione che preferiva invece fiumi di sangue e di pallottole. La cosa fu particolarmente vera e chiara agli occhi di tutti quando venne rilasciato il quinto capitolo della celebre saga, deludente per la quasi totalità dei fan di vecchia data, che si trovarono per le mani nulla più che uno shooter in terza persona. Silent Hill dal canto suo non se la vedeva meglio, con vendite in calo e con un secondo capitolo che aveva rappresentato il vertice di una parabola qualitativa discendente. Il motivo era simile a quello del prodotto Capcom, ovvero la necessità di spremere e monetizzare il più possibile il franchise in maniera tale da rientrare nei gravosi investimenti dell’azienda, con inevitabili ripercussioni sulla generale qualità del prodotto e della sua anima originara.
Oggi
Giusto una manciata di anni fa un colosso delle dimensioni di Electronic Arts ha saputo inventarsi uno dei migliori esponenti del genere, quel Dead Space che è stato capace di gelare il sangue nelle vene a milioni di videogiocatori. Il gioco è d’ambientazione fantascientifica, e presenta uno stile pesantemente influenzato da classici della cinematografia quali Alien. Altre fonti d’ispirazione sono state ovviamente le celebri saghe di Resident Evil e di Silent Hill, ma è in particolare con lo stile di David Fincher che possiamo riscontrare grandi similitudini. Dead Space ha avuto il merito di presentare una direzione eccezionale, accompagnando l’intera avventura con una serie di effetti audio capaci di mettere alla prova i nervi di qualsiasi giocatore. La necessità di smembrare le creature con cui dovevamo scontrarci aggiungeva inoltre tutto un gore e una crudezza che amplificavano ulteriormente l’impatto orrorifico dell’eccellente produzione.
Il secondo capitolo della saga ha saputo proporsi con simile impeto, motivo per cui moltissimi appassionati hanno storto il naso apprendendo del probabile cambio di rotta che Electronic Arts ha intenzione di imprimere alla serie, virando verso meccaniche più action volte ad ampliare il bacino d’utenza. Il colosso americano ha infatti dichiarato che realizzare un prodotto eccessivamente spaventoso taglia fuori una grossa fetta dei potenziali acquirenti, cosa davvero poco proponibile considerati i costi di produzione.
Questo punto di vista non ha una logica lontana da quanto messo in atto da Capcom, che nella generazione PS360 ha di fatto abbandonato il genere survival horror trasformando Resident Evil in un franchise action. Sia il quinto che il sesto capitolo si sono rivelati giochi d’azione di discreta qualità, ma la suspense e l’orrore sono stati accantonati quasi del tutto, relegati a una posizione di cameo piuttosto che essere come in origine alla base delle atmosfere di gioco. Bocciati da una critica molto contrariata, entrambe le produzioni di Capcom hanno però venduto decisamente bene, con Residenti Evil 6 addirittura record di prenotazioni in Giappone. Segno palese dei tempi che cambiano, dei giocatori medi che non cercano in fondo la novità o il colpo di genio, ma che si sentono soddisfatti massacrando orde di zombie con un mitra fra le mani.
Non che ci sia qualcosa di male nel massacrare dei poveri zombie, sia chiaro, ma è anche vero che il mercato è davvero pieno di titoli action di questo tipo, e produzioni dal fascino immediato quali Left 4 Dead sanno sì divertire, ma offrono comunque un’esperienza che con l’horror ha davvero poco in comune.
Eppure gli action vendono, e vendono bene. È fisiologico che un’azienda cerchi di sopravvivere producendo ciò che il mercato chiede.
Indipendenza e passione
In uno scenario in cui i produttori di titoli tripla A sembrano disinteressarsi alle esigenze dei puristi dell’horror la soluzione sono i puristi stessi. Da pochi anni a questa parte il mercato indipendente ha visto una fioritura senza precedenti, merito in particolare del miglioramento delle connessioni web e della costante diffusione del digital delivery.
Avviene dunque che chi abbia una decente preparazione tecnica vada a mettere le proprie idee sul tavolo con l’intento di guadagnare certo, ma non come potrebbe pianificarlo una multinazionale. Perché lo sviluppatore indipendente è da solo, lavorando spesso nel proprio tempo libero, vive una passione da coltivare compatibilmente con un lavoro, con lo studio e con le priorità della propria vita. Non deve rendere conto a nessun capo per operare le proprie decisioni, e questo conduce ad un liberissimo e affascinante sperimentalismo.
Amnesia è un prodotto rilasciato non molto tempo addietro, che è stato capace di attirare a sé una grandissima attenzione da parte dei media, venendo premiato sia nelle critiche che nelle vendite. Certamente non un gioco perfetto né curato nel modo in cui un tripla A potrebbe venire curato. Eppure ci si rende conto di come le buone idee possano riuscire a venir fuori anche senza investimenti milionari.
Nel gioco saremo privi di armi e di ricordi, sperduti a girovagare per un immenso castello, ricomponendo la nostra storia solo attraverso delle note scritte da noi stessi tempo prima. Il gioco si basa sull’esplorazione e sulla risoluzione di enigmi, ma per quanto una descrizione di questo tipo possa farlo apparire simile al primo Residenti Evil in realtà il prodotto in questione è molto diverso.
Amnesia ha saputo proporre delle meccaniche piuttosto originali, quali l’assenza di armi e la conseguente necessità di fuggire e nascondersi. Le creature che ci inseguiranno per gli angusti corridoi non saranno lente né impacciate come gli zombie dei primi Residenti Evil, costringendoci a correre, ad affrettarci, contribuendo a creare un’ansia e un panico fuori dal comune. Il dover prestare attenzione alla sanità mentale del nostro personaggio è un ulteriore elemento che aggiunge profondità al gameplay, inserendo una meccanica che verrà in qualche modo ripresa da un altro prodotto indipendente, meno pretenzioso e del tutto gratuito: Slender.
La figura dello Slenderman nasce nel 2009, grazie ad un concorso indetto dal portale Something Awful. L’esile figura di questa creatura umanoide ottiene un grande seguito tra gli utenti, acquisendo in brevissimo tempo un’enorme popolarità. Il videogame Slender viene realizzato in maniera amatoriale da una singola persona e distribuito gratuitamente sul web. Nonostante i numerosi limiti della produzione – parliamo di un’avventura di circa dieci minuti accompagnata da un aspetto tecnico antiquato – il successo è immediato, e il fenomeno dilaga sulla rete grazie in particolare ai network di YouTube e di 9gag.
Di nuovo avremo a che fare con una visuale in prima persona, e di nuovo saremo del tutto disarmati. Il sistema della sanità mentale di Amnesia viene modificato, portando il nostro avatar a impazzire nel momento in cui si trova vicino allo Slenderman. Una scelta intelligente degli effetti sonori è stata la chiave nel creare un fortissimo senso di suspense, che rende spaventoso ogni più semplice spostamento della nostra inquadratura. Avere a che fare con la batteria della nostra torcia che va man mano esaurendosi ci mette addosso una fretta non indifferente, osservando quel cono di luce che si fa via via sempre più stretto promettendo nel giro di qualche minuto un’oscurità soffocante.
In Slender non si vince. Si va semplicemente in giro in un bosco cercando di trovare otto pagine prima che l’elegante creatura senza volto ci trascini in un baratro di follia e terrore. E una volta che le avremo ottenute tutte non sarà cambiato nulla. Sarà stato tutto inutile.
Un prodotto semplice, gratuito, brillante. E sulla scia di tale prodotto un gran numero di sviluppatori in erba ha deciso di mettere alla prova il proprio talento, proponendo delle personali rivisitazioni della leggenda dello Slenderman. Molti progetti sono attualmente in via di sviluppo, tutti con denominatore comune la spaventosa creatura che ha già terrorizzato milioni di giocatori in tutto il mondo.
E dopo un buon DLC il seguito di Amnesia è atteso per i primi mesi del 2013.
Il mercato indipendente non ha paura di osare.
I survival horror sono nati e si sono evoluti davvero poco prima di iniziare una mutazione dettata dai soldi e dalle leggi di mercato. La svolta action avvenuta negli ultimi anni ci parla di un horror psicologico di stampo orientale che cede il passo a quello volto al gore e all’azione più commerciale e più occidentale. Un mercato di nicchia, che ha visto il suo massimo splendore durante l’epoca dei 32 bit. Casi isolati come Eternal Darkness, Dead Space e perfino escursioni quali Doom 3 ci sono e continueranno ad esserci. Ma con ogni probabilità le major avranno sempre troppa paura per rischiare ingenti investimenti in un genere che non vende quanto un qualsiasi altro action potrebbe vendere. I capolavori portano gratificazione personale ed un buon voto su una rivista, non necessariamente denaro. Clover Studio lo sa.
Da qualche anno a questa parte c’è però un fiorente mercato indipendente, privo delle pretese economiche a sei zeri, forte di idee brillanti che non hanno bisogno di permessi per essere messe in pratica. E se queste idee possono funzionare, se queste idee sanno riuscire a vendersi e a creare fenomeni di costume come Slender, siamo sicuri che qualche dirigente dal portafogli troppo pesante saprà trovare una motivazione per tentare, ancora una volta, sotto la promessa del denaro.