Split

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a cura di Gottlieb

Dopo il successo del 1999 con il Sesto Senso, M. Night Shyamalan non ha raccolto gli stessi successi che aveva ottenuto con uno dei più grandi incassi della storia del cinema: con il suo raccontare sempre sopra le righe, con il suo affrontare le tematiche psicologiche in maniera sempre esoterica e mai effettivamente scientifica, il regista americano non era mai riuscito a convincere a pieno dopo quel grande exploit che lo ha consegnato alla storia del cinema. Storia che, però, sembrava essersene completamente dimenticata, soprattutto quando di recente gli ha concesso di fare incetta di premi ai Razzie Awards, a testimonianza delle sue uscite completamente a vuoto dalla propria area di competenza. Con Split Shymalan ci riprova, continua a osare su quei temi che a lui sono cari, ma lo fa in maniera decisamente indipendente, con un low budget molto forte, da ossimoro vero, e affidandosi a un attore incredibile, che gli rappresenta la vera e unica rottura con l’intera produzione: James McAvoy.

Dopo una festa di compleanno in un locale fuori città, le giovanissime Claire e Marcia si preparano a tornare a casa con il padre della prima, la festeggiata di turno: con loro, inaspettatamente, c’è anche Casey, una ragazza problematica che necessita di un passaggio, nonostante il suo essere decisamente restìa alla compagnia e alle interazioni sociali. Salite in macchina, però, le tre ragazze vengono improvvisamente rapite da un uomo che le addormenta e le porta in uno scantinato, senza però alcun segno evidente di violenza. L’uomo si chiama Kevin e combatte una forte battaglia con se stesso e le sue altre 23 personalità alternative, tutte in attesa dell’arrivo della temutissima ventiquattresima: la Bestia.Shyamalan scrive una trama ansiogena, si ritrova dinanzi a un film che racconta una vicenda priva di ossigeno, dentro uno scantinato che resta all’oscuro fino alla fine del film, quando si scopre cos’è che ha trattenuto nelle grinfie di Kevin le tre ragazze, condannate a una reclusione senza precedenti e senza spiegazione alcuna. McAvoy è camaleontico, sia nel momento in cui gli si concede un cambio d’abito, come se fosse a teatro, uscendo e rientrando nello stanzino che è gabbia delle sue prigioniere, sia quando a tu per tu con Casey è chiamato a una semplice smorfia della faccia per alternare quelle che sono le sue personalità, dal bambino affetto da sigmatismo a Barrie, effeminato esperto di moda, fino a Dennis e la signorina Patricia, che guidano l’Orda delle personalità nascoste in una testa malata.

Shyamalan, che con la sua idea di psicologia ci ha condizionato tutti quasi vent’anni fa, non è del tutto perfetto nei suoi dialoghi: regala qualche sbavatura a McAvoy e ai suoi personaggi, che sono troppo schiavi di quella che è visibilmente una fissazione per il regista, un vezzo dal quale non riesce a staccarsi, quella vena di oscurità e di esoterico che vanifica la vena scientifica della psiche: la tiritera che il protagonista ripete alle ragazze, il disagio provocato dalla ricerca della purezza, fino al dialogo quasi materno con la dottoressa Fletcher, la psichiatra di Kevin. Lasciando quella vena di tensione che è propria di un personaggio dal quale non sapresti cosa aspettarti, negli incontri con l’anziana e canuta signora, che ha fatto delle persone come Kevin la propria vocazione e la propria fortuna in tutto il mondo, c’è tutta l’introspezione in quella che una spiegazione forse non dovuta allo spettatore, una didascalia, una nota a pie’ pagina che forse sottolinea il non fidarsi da parte di Shyamalan del suo spettatore, che del disturbo di McAvoy se ne accorge presto. Quello che resta appeso al filo dell’ignoranza è cosa realmente vogliono le 23 personalità dalle tre ragazze, qual è il sottotesto che ci propone Casey, la più restìa al trauma delle tre ragazze, l’unica protagonista dei flashback che ci conducono fuori dall’angusta struttura che ospita l’intera pellicola: la giovane e sociopatica ragazza, tenuta in disparte anche dalle sue amiche e compagne di classe, nasconde, come il protagonista, delle violenze interiori che però il regista non approfondisce e non ci conduce a capire cosa realmente avrebbe voluto trasmetterci in questo sottile fil rouge, che probabilmente è anch’esso un vezzo estetico, con un’unica utilità cosmetica. Un plauso va fatto anche Jason Blum, che pur avendo incentrato la propria attività di produzione sull’horror a basso budget, riesce a variare la propria filosofia e pur mantenendo quell’idea pauperistica che ritroviamo anche in Split, riesce a sposare progetti che si distinguono dalla metodica cinematografica. 

M. Night Shyamalan ritrova la propria intelligenza narrativa in una libertà che gli viene concessa dalla sua produzione low budget, scevra dai vincoli delle major, ma allo stesso tempo si crogiola fin troppo in quelle che sono le sue convinzioni psichiche, pur riuscendo a mettere sul palcoscenico – perché quasi di teatro si tratta – un McAvoy indimenticabile, straordinario, che accoglie a braccia aperte la sfida del contenere in sé 23 diverse personalità, che combattono per tenerne ferma una ventiquattresima. C’è rabbia, c’è una violenza repressa, c’è sofferenza e c’è una lotta interiore che traspare in ogni mossa dell’attore, che ci regala la prima grande interpretazione di quest’anno, permettendo a Shymalan di regalarci, a vent’anni di distanza quasi, una nuova pellicola riuscita. Non entrerà nella storia, ma sarà un film più che piacevole da guardare e da ricordare.

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