Sea of Thieves è il videogioco più coerente degli ultimi anni?

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a cura di Paolo Sirio

Sul finire della passata generazione, un Yves Guillemot – CEO di Ubisoft – come spesso gli capita avanguardistico ci metteva al corrente di quello che sarebbe diventato un trend nel mondo dei videogiochi da lì a qualche anno: la maggior parte dei titoli sul mercato avrebbe subito una trasformazione in senso persistente, ovvero avrebbero avuto una preponderante componente “live” e iterativa, che avrebbe spinto gli appassionati a tornare continuamente sui loro giochi preferiti e non più a riporli sullo scaffale (di casa o dei negozi che accettano trade-in) dopo il completamento della modalità storia. 

Oggi che infine ci siamo, sembra che tutti i protagonisti dell’industria si siano allineati su strutture e valori produttivi simili, come in un unico layout sulla cui intelaiatura vanno ad innestarsi pregi e difetti, punti di forza e problemi atavici. Due su tutti: i day one turbolenti, dovuti all’afflusso smisurato di gamer persuasi da offerte artistiche suggestive e dalla voglia di non essere “left behind”, per citare uno sviluppatore che forse non si piegherà mai a questa logica; la penuria di contenuti. 
Su input di Phil Spencer, ecco che anche Microsoft – rimasta al palo con una concezione di single-player e multiplayer separati come in diversi comparti a tenuta stagna – ha voluto lanciarsi nella battle royale dei videogiochi persistenti, affidandosi nientemeno che alla storica Rare, o comunque a quanto di quella storia rimane. Il risultato è stato Sea of Thieves; il risultato è stato un altro gioco che non riesce e non punta nemmeno, forse per un pizzico di fiducia di troppo in un’idea ben precisa di community e non necessariamente per pigrizia – ad uscire dal layout di cui parlavamo nel lungo preambolo con cui ho aperto questa disamina.  
Non è in questa sede che discuteremo della liceità della forma attuale di Sea of Thieves, di cui vi abbiamo già parlato in una puntuale recensione, perché qui ci accontenteremo di utilizzare la produzione britannica disponibile su PC Windows 10 e Xbox One per rispondere ad una domanda ancora più terra terra: ma non è che i videogiochi sono proprio questo, ovvero uno scatolone con giusto quei tre quattro strumenti ludici a completa e libera disposizione dei fruitori, e non le esperienze interattive di cui ci stiamo, ci stanno riempiendo le mani e la bocca da qualche anno a questa parte?

Cos’è il “gioco”?

Per rispondere nella maniera più competente possibile, occorre fare un altro passo indietro e più precisamente al 1938, all’anno di pubblicazione di “Homo Ludens”, il testo che è per certi versi la Bibbia di chi vi scrive e non solo è seminale nella definizione più basica di “gioco”, ma ne sostiene persino il primato – se non altro per una questione puramente temporale – rispetto alla cultura. La farò molto breve, non temete. Secondo l’autore Johan Huizinga, il gioco “oltrepassa i limiti dell’attività puramente biologica: è una funzione che contiene un senso. Al gioco partecipa qualcosa che oltrepassa l’immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso nell’azione del giocare. Ogni gioco significa qualche cosa”. 
Una definizione inequivocabile, e molti di voi troveranno pure superfluo scomodare filosofi olandesi per osservare che sì, ovviamente, ogni gioco ha bisogno di un senso e se vogliamo di uno scopo per potersi ritenere tale. In quest’ottica, converrete, Sea of Thieves – così come qualunque altro prodotto videoludico che non abbia nei contenuti l’espressione massima del proprio valore – è abbastanza carente, perché si poggia su un core loop, e su una capacità di gratificare chi lo porta a termine ancora e ancora, dall’estensione notevolmente ridotta. Ciò non vuol dire che quello di Rare non sia un titolo divertente, tutt’altro: all’infuori di ogni logica pur vagamente snobista ci stiamo giocando e passando ore spensierate, mantenendo la consapevolezza di quanto detto e cioè dei limiti palesi di una piattaforma che ambisce ad arricchirsi nel corso dei mesi e spera con i suoi miglioramenti già programmati di generare un ritorno in termini di curiosità e utenti.
Sebbene parta da una base più incravattata, con un business model adattato di conseguenza, non abbiamo potuto evitare di associare nella nostra mente Sea of Thieves ad un tentativo di Microsoft di costruirsi un Minecraft davvero suo e per un pubblico dall’estrazione prettamente Xbox. Le somiglianze, a ben vedere, sono tantissime ed in effetti SoT, nonostante abbia un piglio creativo decisamente raccolto, nasce con un’idea più precisa di ciò che vuole essere da grande, che forse per paradosso sarà l’ostacolo più grande in questa sua affermazione come “fratello maggiore” del sandbox pixelloso di Marcus “Notch” Persson. 
L’associazione mentale è però partita ugualmente e mi è tornata alla memoria una dichiarazione dello sviluppatore ora a capo di Minecraft dopo l’addio di Notch, Jeff Rubenstein, affidata a Minecraft: Guida Fondamentale, libro-barra-manuale edito da Mondadori. La dichiarazione riguarda il tratto distintivo, perlomeno a detta di Rubenstein, dell’esperienza videoludica di Minecraft: “Penso che una delle cose più affascinanti di Minecraft sia che unisce le persone verso un obiettivo comune, e le fa divertire insieme”. Questo commento non si discosta troppo dalla definizione di gioco fornitaci da Huizinga, ma aggiunge una sfumatura di non poco conto, ovvero il divertimento che scaturisce dalla fruizione di un contento “insieme” ad altre persone, come se la loro compagnia fungesse da amplificatore di un’esperienza a prescindere dalla sua estensione qualitativa o quantitativa che sia. 
Come avevo accennato, lo studio olandese si disse sostenitore del primato del gioco rispetto alla cultura perché, contrariamente alla cultura, esso era nato in un momento precedente alla convivenza umana – “gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare”. Si tratta probabilmente di nuance, angolazioni di significato controvertibili, ma è curioso come – a guardarlo da questa prospettiva, che altrettanto curiosamente è la stessa di uno dei padri di Minecraft – Sea of Thieves sia un videogioco molto più coerente con la definizione originale del mezzo rispetto a tanti di quelli che abbiamo giocato negli ultimi anni, vero? 

Un compromesso necessario

Sono un convinto sostenitore della capacità espressiva dei videogiochi e mi fa quindi specie essere qui a valutare un’eventuale difesa di un prodotto che, se non altro nell’ottica autoriale, ne è la più totale negazione. Per anni si è messa in discussione la coerenza con il mezzo di titoli che hanno fatto leva su una sfera di emozioni fortemente connessa al loro preciso input, qualcuno direbbe “scriptata”, come se pad alla mano fossimo stati attori che ne recitavano la sceneggiatura già scritta. Col tempo e il feedback sembra esserci stato un piccolo grande incontro a Teano, e alcuni espedienti invisi alla comunità, ad esempio l’artificio dei QTE, paiono aver lasciato spazio a tentativi di narrazione più fluidi basati sul testo (senza volare troppo in là penso al recente The Red Strings Club) e sull’originalità delle scelte registiche (What Remains of Edith Finch). 
Mi rende felice constatare un’evoluzione lenta e progressiva ma costante del medium, e se penso che nell’ultima occasione in cui ebbi modo di parlarne – quando più precisamente ne scrissi nella mia folle tesi di laurea sulla narrazione nei videogiochi, anno accademico 2011/2012-  Hideo Kojima non era ancora il game designer votato anima e corpo alla sua interpretazione di open world e Heavy Rain spopolava per il tratto cinematografico noir, non posso che sorridere di fronte a tali e tanto significativi cambiamenti, e aspettare chi altro saprà raccogliere la sfida della convivenza pacifica tra esperienza e aspetto ludico. Detroit: Become Human, sto guardando proprio te.
È però fuor di dubbio che di materiale a disposizione per avere un quadro quanto più completo possibile sull’argomento ci sia, e sia persino troppo per essere racchiuso in un articolo ad uso e consumo web. Lungi da me rifugiarmi nella retorica, ma appare naturale in questo momento che la soluzione al dilemma che ci stiamo ponendo oggi sia anche stavolta un compromesso, una stretta di mano tra la forza produttiva dello sviluppatore e la fantasia comunitaria richiesta sin qui in dosi massicce ai giocatori: un innesto, prevedibilmente nelle scadenze tipiche dei titoli persistenti e cioè i 3 – 6 – 9 mesi successivi all’equilibratura/bug fixing, di contenuti infarciti di un’ambizione narrativa superiore, di un numero crescente di strumenti e meccaniche, e in definitiva degli scopi di huizingiana memoria. 
Giusto perché quel layout è diventato la norma e la routine non spaventa davvero nessuno, né gli editori che devono finanziarle, né i (due milioni di) videogiocatori che devono navigarla.

Incentrare un’analisi del genere su Sea of Thieves potrebbe sembrare ingeneroso e in buona parte lo è pure, dal momento che me le sono goduto per più di qualche sessione sia da solo, per il gusto di scalare i gradi nelle varie fazioni, sia nel delirante multiplayer con gli amici. Ma l’impressione che sia stato costruito su uno schema che vogliamo fortemente sparisca dalla scena videoludica (e che presumibilmente The Division 2, come inizio di una nuova generazione di always online, avrà l’opportunità di scuotere dalle fondamenta) è forte almeno quanto il desiderio che possa crescere ed evolversi in maniera più corposa. Dalla strada che Rare vorrà intraprendere dipenderanno la risposta al nostro interrogativo principe e la chiave di lettura più appropriata tra quelle che abbiamo messo sul tavolo.

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