Partiamo con una premessa: in qualunque mass media il “genere” è qualcosa di per sé molto labile. La maggior parte delle volte lo si riconosce quasi per assurdo: a un certo punto arriva un’opera che fissa dei (o tutti) principi che definiscono appunto un certo modo di esprimere qualcosa nel suo medium. Ecco quindi che, in quei casi, assistiamo effettivamente alla nascita di un genere (o di un sottogenere). Il videogioco ha seguito una strada analoga, anche se accelerata. Dopo i primi anni in cui si sono andati definendo i generi “fondatori” (piattaforme, azione, shoot’em up, gioco di ruolo e altri) si è inevitabilmente cercato di andare oltre. Da impermeabili si è passati alla commistione arrivando poi alla contaminazione totale. Tanto che se oggi un action-adventure fosse privo di una qualche componente di crescita, miglioramento o personalizzazione apparirebbe come “monco”. Cosa che potrebbe sembrare paradossale, visto che in teoria l’obiettivo di un simile videogioco sarebbe tutt’altro. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a un’estremizzazione di tutto questo: gli ibridi. Ovvero generi e sottogeneri che si rifanno, a livello strutturale ma non solo, a singoli videogiochi precedentemente pubblicati. Questi ultimi hanno appunto una natura ibrida, presentando una combinazione di idee e meccaniche elaborate in qualcosa di nuovo e mai visto.
Se il termine chic è “à la manière de…”, è più diffuso il suffisso –like per spiegare semplicemente a che videogioco (o serie) questi ibridi si ispirano per le loro meccaniche e strutture. Il 2017 appena concluso non ha ovviamente fermato questo continuo scambio, ma anzi potrebbe averne portato alla luce i limiti. Facciamo una breve rassegna dei –like più famosi di questi anni, una condotta tanto prospera quanto incredibilmente fragile.
Sicuramente uno dei primi –like conosciuti è appunto il Roguelike. Presa ispirazione dai vecchi giochi di ruolo cartacei, imponeva al giocatore di prendere il proprio eroe e mandarlo dentro a dei dungeon. Questi erano generati proceduralmente dal programma, rendendo ogni esplorazione diversa. La struttura punitiva era sempre mutuata direttamente da D&D: la morte del personaggio era definitiva, e delle sue imprese era possibile salvare solo poche risorse. Cosa che puniva la spavalderia e forzava il giocatore a imparare in fretta l’antica arte dell’“arrangiarsi”. Modalità di questo tipo si affacciano nella videoludica da oltre trent’anni, da quando appunto il videogioco Rogue fu pubblicato su PC nel 1980. Erano (e sono) videogiochi di provendienza indipendente, che puntano prima di tutto sul design e sulla forza delle idee.
Sicuramente uno dei prodotti più recenti che ha contribuito a far conoscere il sottogenere al grande pubblico è stato
Rogue Legacy del 2013. Integrava il
dungeon casuale al potenziamento progressivo della stirpe del protagonista. La morte di ogni eroe è definitiva, ma poi il giocatore doveva scegliere l’erede del trapassato, a cui sarebbe andato il bottino della scorribanda precedente, da spendere per potenziarsi. Narrativa poca o nulla, tutto
gameplay, stile artistico impattante e spesso lontano da grandi produzioni. Il secondo videogioco, più vecchio ma che continua con la tradizione
Rogue, è
The Binding of Isaac, il triste e lacrimevole incubo di un bambino in un sotterraneo oscuro e sempre diverso. Diffusosi sempre di più grazie ai
gameplay su Youtube, il suo autore originale McMillen ha continuato a dedicarvisi anche nell’appena concluso 2017. Alla fine di tale anno egli ha infatti dichiarato di stare lavorando a un prequel della vicenda di Isaac. Quello acclamato come uno dei migliori è
Faster Than Light, del 2012. Abbandonata l’idea di partenza del gioco di ruolo e traslato tutto da fantasy a fantascienza, si ibrida la componente casuale con la strategia in tempo reale, con la costruzione e gestione di una navetta spaziale.
La nicchia, la grande industry e la mosca bianca
Se i roguelike sono metaforicamente la casetta a schiera con garage, c’è un altro
–like che è partito dall’appartamento ed è approdato al castello, passando per la villa con piscina. Stiamo ovviamente parlando dei
Soulslike, nati dalla serie
Souls, da
Demon’s alla trilogia di
Dark Souls (che tra l’altro
a maggio arriva anche su Switch). La base di partenza è sempre il gioco di ruolo, tuttavia questo ibrido rifiuta la generazione casuale degli ambienti per costruire una mappa che sia il più possibile corretta e verosimile. Ugualmente, la morte dell’eroe protagonista non è mai definitiva; la “punizione” non sta nel ricominciare da capo, ma nel perdere le risorse accumulate e non spese. A questo si aggiunge una narrativa che non si concentra strettamente sulle nostre gesta, ma piuttosto mette in evidenza l’ambiente e gli eventi che l’hanno portato a essere nello stato in cui lo attraversiamo. Un po’
dungeon-crawler, un po’ action, un po’
metroidvania e con una profondità bellica che ricorda un picchiaduro: non c’è dubbio sull’ibridazione del
Soulslike.
Fuori dai Souls originali il sottogenere ha esordito al grande pubblico con
Lords of the Fallen (2014); ma i maggiori esponenti sono ancora una volta di origine indie. Partendo dalla sorpresa inaspettata di
Salt & Sanctuary (2016), talmente simile (2D a parte) a
Dark Souls da essere ai limiti del plagio, passando per
DarkMaus (sempre 2016), che invece impostava la visuale dall’alto. I
Soulslike devono comunque molto ai
Roguelike, in quanto ne hanno conservato la ricercatezza visiva e il sottile equilibrio di design, da sempre necessario per questo tipo di opere. Tanto che nei primissimi stadi del capostipite
Demon’s Souls l’idea della morte permanente del protagonista era stata vagliata. La cosa fu scartata forse perché avrebbe impedito di apprezzare appieno l’articolazione degli ambienti.
Bloodborne in tal senso è praticamente una mosca bianca: alterna meccaniche
Souls (la normale trama) ad altre più spiccatamente
Roguelike, in quanto genera casualmente i Dungeon dei Calici.
Fuori dall’internet, il Soulslike rimane comunque il genere che ha avuto oggettivamente più successo, e che ha portato i suoi creatori a una ribalta per somma parte inaspettata. Questo ha tuttavia evidenziato qualcosa di inaspettatamente importante: la mano degli autori. Appena altri autori al di fuori dei FromSoftware hanno tentato la strada dei Soulslike sono emersi prodotti con molti spigoli, confusionari o troppo punitivi e frustranti. Tuttora le opere da cui tutto è partito rimangono quelle a cui forse riesce meglio un simile gameplay e le sue variazioni, ma il futuro non è scritto.
In una maniera di nuovo paradossale, uno degli ibridi più interessanti del 2017 è venuto fuori da Ubisoft, che si stava già prendendo la nomea di casa tradizionalista. Stiamo ovviamente parlando di
For Honor e il suo eterno conflitto tra cavalieri, vichinghi, samurai, centurioni e chissà chi altri in futuro. Il titolo Ubisoft pare essere stato studiato apposta per essere un ibrido, una summa morale di tutto ciò che “partita online”. Deathmatch, cattura la bandiera, conquista, duelli singoli e a coppie. Un action che si contamina col picchiaduro, lo mescola con la scherma medievale e lo spolvera con la tattica e un po’ di “fashion” degli equipaggiamenti. L’ibrido che ne esce fuori fa un po’ di tutto ma forse niente in maniera davvero memorabile. Per quanto non si possa mettere in dubbio il divertimento del giocarci. Forse qualche
Forhonorlike è già in sviluppo in uno dei soliti garage.
Ecco quindi che abbiamo il passo inevitabile dell’Internet. Gli ibridi sono per definizione generi di nicchia, e di conseguenza per loro la Rete è un mezzo più potente rispetto ai grandi nomi e budget. Contemporaneamente però funge da amplificatore anche per le inevitabili interazioni online. Anche qui sono sorti ibridi, forse meno famosi o “classificati” ma che non sembrano passare di moda. Inevitabile quindi giungere ai MOBAlike e ai Battle Royale.
Le radici del primo affondano naturalmente nella strategia in tempo reale, che ha avuto un successo costante per praticamente tutti gli anni Duemila. Quando ne sono emersi i limiti causa utilizzo eccessivo, si è cercata appunto l’ibridazione con l’action, ed ecco qui che nascono i MOBA. Per la maggior parte ancora appannaggio del PC, stavolta l’ibrido è tra azione e strategia in tempo reale Qui si parte da aree speculari e bisogna conquistare quelle avversarie, supportati dal proprio eroe e dai minion (unità minori) che spesso vengono generate automaticamente. Oltre all’ormai famoso
League of Legends, è interessante notare come le radici da RTS non siano solo concettuali. La prima mappa “MOBA” era stata creata per
Warcraft III Reign of Chaos, e oggi è conosciuta come
DotA (Defense of the Ancients), con i conseguenti
DotAlike.
I
Battle Royale nascono da un altro sottogenere dell’action, il
survival. Ovvero una situazione dove il giocatore deve provvedere anche al fabbisogno fisico (cibo, acqua, riparo) del proprio personaggio, la cui morte è ovviamente definitiva. A questo design che rende più realistica la famosa “arte di arrangiarsi” già accennata dai
Roguelike questo ibrido aggiunge elementi bellici: i giocatori online si affrontano in partite collettive finché non rimane in piedi un solo giocatore o squadra. In questo caso le distinzione tra survival e
Battle Royale diviene più sottile, in quanto i videogiochi di questa categoria offrono costantemente modalità ibride di partita. A prodotti più di nicchia come Rust si affiancano ancora produzioni Blizzard come
Overwatch, passando per
Fortnite. L’ibrido include direttamente anche lo shoot ’em up, variando a seconda dei casi tra prima e terza persona. Il 2017 ha visto il debutto di
PlayerUnknown BattleGrouds (PUBG), che si è ritagliato immediatamente un gran successo (tre milioni di giocatori). L’elemento
survival consente tra l’altro agli sviluppatori di giocare sul tema post-apocalittico, aggiungendo magari gli zombie come elementi terzi controllati dall’IA. Infine, è rimasto nel cuore degli appassionati
Don’t Starve (2013), survival molto più puro dal tratto burtoniano che abbina al normale “arrangiarsi” a una trama criptica e a una mappa nuovamente procedurale. Mappe che tra l’altro è possibile esplorare in compagnia con l’espansione
Don’t Starve Together.
Quelli brevemente descritti in questo articolo sono solo alcuni dei sottogeneri “-like”. Alcuni hanno già un’identità definita, altri invece sono ancora in formazione. Il genere degli ibridi si contamina e si rimescola in continuazione, e l’unico limite è la creatività degli sviluppatori. Proviamo a concludere con una riflessione: gli ibridi sono tanti, ma allo stesso tempo dimostrano di essere molto più rischiosi dei generi “tradizionali”. Il rifarsi a un solo sottogenere o magari (come i Soulslike) a una singola serie o prodotto li rende un filone molto sottile. Tanto che la possibilità di trasformarsi semplicemente in un clone degli ispiratori è sempre pericolosamente vicina. Così come è noto che quando cominciano a venir pubblicati troppi prodotti troppo simili tra loro tutto l’ibrido ne risente. Quel che è certo è che l’ibridazione di generi videoludici è qui per restare, e possiamo solo essere contenti di questo.