Golden Sun Saga

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a cura di Gianluca Arena

Senior Editor

Dopo oltre vent’anni di onorata carriera videoludica, siamo giunti ad una conclusione apparentemente semplice, ma che racchiude generazioni di giochi e fotografa bene lo stato ancora attuale dell’industria del nostro passatempo più amato: esistono due categorie di programmatori e quindi due categorie di giochi: quelli che tentano di innovare, di percorrere strade mai battute prima, anche a costo di fallire, proponendo, nei limiti del possibile, concept di gioco freschi e ambientazioni il meno possibile usurate da tanti anni di uscite e chi invece si allinea ai canoni del suo tempo, proponendo sterili cloni del gioco del momento. Senza la prima categoria non saremmo dove siamo oggi e il carrozzone dell’industria di settore non avrebbe fatto sostanziali passi avanti. In altre parole, staremmo tutti giocando alla versione HD di Pac-Man, nonostante quest’ultima abbiamo visto come sia ancora tremendamente divertente ed attuale.Il mondo dei videogiochi ha però bisogno anche dell’altra categoria di programmatori, quelli che rischiano poco, che dettano i codici di un determinato genere, che puntano più sulla quantità e sulla qualità piuttosto che sul fattore sorpresa, “accontentandosi” di pubblicare titoli dalle numerose doti, tra le quali, però, non figura l’originalità.I ragazzi di Camelot appartengono, senza ombra di dubbio, a quest’ultima scuola di pensiero.

Un sole d’oro sorse su GBASentivamo di dovere qualche riga ad una softco tra le più amate dai fan Nintendo e alla sua creatura più famosa, quel Golden Sun uscito nel 2002 sul mai troppo lodato Game Boy Advance: erano gli anni in cui la “potenza” della CPU della console portatile di Nintendo permetteva di replicare, in movimento, le meraviglie grafiche e la sgargiante palette di colori che aveva contraddistinto il Super Nintendo e così, nonostante, sulla carta, la sua natura “da taschino” non lo rendesse pienamente compatibile con titoli basati sulla trama e con una durata media decisamente elevata, il GBA sfornò una serie incredibile di grandi giochi di ruolo, dai vari remake di Final Fantasy ai due episodi della saga di Zelda, continuando la magnifica tradizione nel campo inaugurata dalla precedente console della grande N. Tra questi, spuntò un IP nuovo, un gioco di ruolo che usciva dal circuito “Square – Enix – Nintendo” (anche se poi i legami tra Nintendo e Camelot , negli anni, si sono considerevolmente rafforzati), di nome Golden Sun, un inno bidimensionale alla classicità del gioco di ruolo, un’avventura narrata in due parti distinte, con grande maestria e grande cura per i particolari. I canoni del gioco di ruolo di stampo giapponese classico erano stati già abbondantemente fissati dalle precedenti due generazioni, da quella a 8 bit (Phantasy Star anyone?) a quella a 16, che aveva toccato il culmine con quello che è considerato da molti il miglior esponente del genere mai pubblicato e, cioè, Chrono Trigger.Camelot si trovava, quindi, ad un bivio, e, tornando al paragrafo introduttivo, scelse di percorrere una strada ben nota al grande pubblico, ma di farlo a modo suo, introducendo delle varianti che, pur di contorno, diedero ai giochi un tocco magico, decretandone un enorme successo all’epoca, coronato da recensioni entusiastiche della stampa di settore e, complice la grossa forbice di tempo intercorsa tra il secondo e il terzo episodio, facendo dei due titoli due degli oggetti più ricercati tra i collezionisti e i retrogiocatori.

I perché e i per comeI motivi di un tale successo sono tanti e le nuove generazioni potrebbero averne un assaggio a breve, dato che questo speciale anticipa solo di qualche giorno l’attesissima uscita europea del nuovo capitolo, intitolato Golden Sun: L’alba oscura. Il gameplay era dei più classici e poneva il giocatore al comando di un party composto da quattro adolescenti, condotto da un protagonista, Isaac, che, nella più stereotipata delle tradizioni ruolistiche, era un “silent hero”, ovvero un protagonista – contenitore, senza un carattere ben determinato, soggetto ai gusti del videogiocatore. La prospettiva era in falso 3D, con una visuale isometrica che lasciava spazio agli splendidi disegni del gioco e ai colori sgargianti del mondo che faceva da sfondo alle vicende mentre la struttura del titolo non si discostava molto dai giochi di ruolo che imperversavano durante la generazione a 16 bit, con un mondo da salvare, dei cattivi ben delineati (che, ironia della sorte, saranno i protagonisti del secondo capitolo), scontri casuali frequenti ma raramente troppo pressanti, e una serie di enigmi contestuali degni di un’avventura di Link, con massi da spostare, precipizi da attraversare e luoghi apparentemente inarrivabili da raggiungere nei quali, spesso, si celavano i Djinn, entità elementali che, associate ad un personaggio, ne aumentavano le caratteristiche di base, associandone gli attacchi e le magie all’elemento corrispondente: questi potevano essere evocati in combattimento e questo fattore, oltre ad essere poi ripreso più volte nel corso della storia del gioco di ruolo, offriva al motore grafico del gioco la possibilità di strabiliare, con effetti visivi che spingevano l’hardware del Game Boy Advance verso nuovi orizzonti.L’alternarsi di enigmi, dungeon, città e dialoghi con i personaggi non giocanti era bilanciato e strizzava l’occhio ai ritmi di gioco del JRPG classico, ben lontano dalle sperimentazioni, pur riuscitissime, operate da Atlus con la saga Megaten o, per rimanere in ambito Nintendo DS, da Square Enix con l’atipico The World Ends with You. Il gioco era davvero tutto qui e univa elementi presi in prestito da altre saghe, dall’idea di collezionare e potenziare tutti i Djinn sparsi per il mondo di Vale, che faceva il verso alla saga dei Pokèmon, che già imperversava sulle console Nintendo, a quella di proporre dei dungeon in cui ai combattimenti casuali si alternassero fasi di esplorazione e risoluzione degli enigmi, in pieno Zelda – style, ma, come tutti i giochi realizzati con cura, dove l’obiettivo finale, e cioè regalare ore di divertimento all’utente finale, non viene perso di vista nemmeno per un secondo, Golden Sun ottenne un eccezionale successo, bissato, un anno e mezzo dopo, dal secondo capitolo, che, a parte portare il sottotitolo L’era perduta, aggiungeva davvero poco in termini di novità rispetto al predecessore, configurandosi, piuttosto, come il secondo tempo di un film meravigliosamente raccontato, in cui si tirano le fila della narrazione e si offre allo spettatore un finale degno.Per questo, l’accoglienza ricevuta dalla critica fu più tiepida e il lavoro fu accusato, da più parti, di essere un mero data disk: alla fine dei conti, le critiche apparivano ingiuste, perché sebbene privo di novità di sostanza, L’Era Perduta colmava i vuoti narrativi lasciati dal primo episodio, chiudendo il cerchio in maniera più che soddisfacente.Almeno fino al prossimo capitolo…

Il futuro con un occhio al passatoE siamo ai giorni nostri. Dopo averlo annunciato diversi mesi fa, e con una scelta che testimonia, se ancora ce ne fosse bisogno, il gusto per la qualità intrinseca di un gioco piuttosto che sui lustrini e sulle paillettes, Camelot ha pubblicato Golden Sun: Dark Dawn in Giappone prima e negli Stati Uniti poi.Quest’ultima versione è la più recente, e ha anticipato l’arrivo nei territori europei di sole tre settimane, un segnale positivo per il Vecchio Continente che deve sopportare tempi di attesa sempre troppo onerosi: il sottotitolo italiano sarà L’Alba Oscura, e la localizzazione totale nella nostra lingua è ben più che un miraggio, vista anche l’attenzione al mercato italico già mostrata dalla software house giapponese ai tempi del GBA, quando trovare giochi di ruolo completamente localizzati era assai meno semplice di quanto non sia poi stato su DS.Incapaci di attendere ancora, dopo 7 lunghi anni, abbiamo avuto modo di passare qualche pomeriggio in compagnia della versione statunitense del gioco, e, senza svelare particolari sulla trama (diciamo solo che richiamerà gli eventi narrati nella bilogia originale), possiamo dire che lo stile Camelot è rimasto invariato, con l’attenzione posta su fattori come il battle system, gli enigmi di gioco e la bontà della sceneggiatura piuttosto che su elementi innovativi che avrebbero forse stonato con il classicismo a oltranza che aveva caratterizzato gli episodi originali.Gli appassionati della saga, quindi, non rimarranno delusi, e ritroveranno ambientazioni, menu, topoi narrativi e soluzioni di gameplay già note, se pure adeguate alla potenza e al sistema di controllo touch della console a due schermi di Nintendo.Ma, per maggiori informazioni, vi rimandiamo alla recensione, che non tarderà arrivare sulle pagine di Spaziogames nelle prossime settimane.

Quando l’attesa per un titolo cresce a dismisura nonostante non siano promesse né meraviglie grafiche, né sconvolgimenti epocali nella struttura di gioco, e quando, con una nuova, strabiliante console alle porte (l’entusiasmante 3DS) programmatori e fan di vecchia data decidono di darsi comunque appuntamento su un “vecchio leone” come il DS, casa di alcuni tra i più belli JRPG degli ultimi anni, significa che nel mercato videoludico odierno, così attento all’alta definizione, al gioco online, alle leaderboard dei punteggi e ai contenuti scaricabili, c’è ancora spazio per quelli che, a costo di suonare forse melodrammatici, vorremmo chiamare “sentimenti”, ovvero la capacità di un gioco di attrarre milioni di persone in tutto il mondo con la sola forza della sua trama, dei personaggi, delle meccaniche di gioco e di tutto ciò che, a nostro giudizio, davvero conta in un videogioco, ovvero la capacità di emozionare e far divertire.

Ciononostante, aspettatevi una recensione imparziale e particolareggiata come al solito, e rallegratevi, perché l’attesa è ormai questione di giorni.

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