Uno degli innegabili vantaggi dell’era moderna è la velocità con cui le informazioni viaggiano in tutto il mondo. Lo sanno bene i pionieri del nostro settore, quelli della carta stampata che, con gli anni, hanno dovuto riadattarsi, reinventarsi, ma molto spesso cedere il passo al mondo del web. Le notizie che gravitano come satelliti intorno a quel pianeta chiamato “game industry” vengono captate sempre più frequentemente dagli addetti ai lavori, e ancor più velocemente arrivano ai lettori, sempre meno attratti dai siti di riferimento e sempre più dalle condivisioni degli stessi sui social network.Il lavoro, indiretto e spesso “oscuro”, che fanno proprio i portali come Facebook, Twitter e Reddit stanno trasformando le informazioni ulteriormente dalla nascita del Web 2.0. Ora sono gli stessi giocatori a poter scavalcare, alle volte, la stampa ed ottenere informazioni direttamente dagli sviluppatori e dai publisher. Con queste dinamiche sono state divulgate molte conoscenze che, probabilmente, sarebbero state oscurate alla stampa perché troppo considerate “tranchant” nei confronti del prodotto di riferimento. La storia recente ne è piena, e ne parleremo a breve, ma l’oggetto della discussione di oggi è una di queste notizie riguardanti Spec Ops: The Line, e una dichiarazione di Walt Williams passata tramite un cinguettio di Twitter.
La dittatura dell’hype“Perché Spec Ops: The Line non riceve un sequel?”, chiede un ingenuo fan del gioco su Twitter a Walt Williams, sceneggiatore del titolo firmato Yager Entertainment. La risposta di Williams: “Perché ha avuto uno sviluppo brutale e doloroso, e chiunque ci abbia lavorato preferirebbe mangiare del vetro rotto anziché farne un altro. Inoltre, non ha venduto bene”. Il tweet è diventato ovviamente una notizia in grado di rimbalzare in tutto il mondo, dal VideoGamer britannico fino alle pagine del vostro caro ed italico SpazioGames. Direi anche a ragione, considerata la perentorietà con cui Williams ha risposto alla domanda. In queste occasioni, solitamente, si tende a essere vaghi, anche quando di sequel non ce ne sono neanche nel proverbiale cassetto delle idee. Questo perché il mondo dei videogiochi vive di hype e distruggerlo con tale violenza è qualcosa che non si vede molto spesso, nonché controproducente per tutte le parti in causa.Spec Ops: The Line, nello specifico, rientra nella lunga schiera di prodotti piaciuti alla critica (poco sotto gli 80 punti su Metacritic), a parte dell’utenza, ma che ha venduto molto poco, come ricorda anche Williams. Una produzione che, evidentemente, non ha viaggiato spedita come ci si potesse aspettare. Già nel 2012, infatti, il lead designer Cory Davis definì “cancerogeno” il comparto multiplayer che 2K Games suggerì di inserire nel gioco. Davis la definì una violenza nei confronti delle meccaniche di gioco. Immagino anche condizioni di lavoro pesanti, non dissimili ai retroscena nello sviluppo di Mass Effect Andromeda, su cui Kotaku costruì una ottima inchiesta. Andò molto peggio allo studio Team Bondi, autore di LA Noire (recentemente annunciato per le console di attuale generazione), che nonostante l’apprezzamento ben più alto del titolo rispetto a Spec Ops: The Line venne chiuso nel 2011, con i dipendenti in parte riassegnati e in parte licenziati. La storia di No Man’s Sky, di cui abbiamo parlato più volte, è un altro esempio, pur con sfumature diverse. Nel caso del titolo di Sean Murray non c’è stato nessun fallimento ma anzi, dal lancio ad oggi l’avventura spaziale di Hello Games ha ritrovato una seconda vita e, col tempo, non ha fatto che aumentare il numero di suoi fedeli appassionati.
Non sono storie nuove, e ne potremmo citare a bizzeffe. Però è sempre importante che diventino di pubblico dominio, perché è giusto che gli addetti ai lavori, ma soprattutto i giocatori, riescano ad avere una visione chiara dello stato dell’industria dei videogiochi. Un settore dove, alle volte, pur di non lavorare si mangerebbe del vetro. Non è una dichiarazione da prendere alla leggera, perché rappresenta la frustrazione a cui gli sviluppatori sono sottoposti in alcuni ambienti, soprattutto nel caso di grandi progetti. I casi che abbiamo citato, escluso Spec Ops: The Line, hanno avuto un unico denominatore: l’hype. Una dittatura, quella dell’aspettativa, che fa sì che cresca una pressione insopportabile nelle persone che lavorano a queste grandi produzioni. Lavorando sotto pressione, inoltre, capita che vengano fuori tanti problemi perché gli studi sono composti da esseri umani, anche se a volte ce ne dimentichiamo. Esseri umani che, nonostante tutto, lavorano a testa bassa e portano a casa il risultato.Queste notizie sono perciò dei “reality check”, delle prese di coscienza molto importanti per ognuno di noi. Ogniqualvolta ci si chiede perché non sia stata introdotta una particolare feature, oppure quanto possa essere stato facile modificare un dettaglio in un modo o nell’altro, con tutta probabilità la risposta risiede in una scadenza infame, in un carico di lavoro eccessivo rispetto al tempo per portarlo a termine, oppure in un publisher che chiede l’inserimento di elementi che rallentano la produzione, magari anche snaturando il gioco stesso.Nel caso specifico di Spec Ops: The Line sono dalla parte di Walt Williams. Pur con i suoi difetti, il titolo di Yager è stato in grado di imporsi nella scena – già satura di shooter all’epoca – grazie a delle peculiarità che ancora oggi vengono ricordate, e portano i giocatori a chiederne un seguito su Twitter. Il tocco creativo, però, è la cosa più distante dalla serialità, e a prescindere dalle motivazioni che ci sono dietro, ben venga che Spec Ops: The Line sia per sempre un titolo a sé stante. La serialità è un concetto che ormai sta permeando ogni medium di intrattenimento, dalla televisione al cinema, passando per i videogiochi, e ben venga chi ogni tanto dice di no.
Le dichiarazioni di Walt Williams raccontano una situazione niente affatto nuova per il mondo dei videogiochi. Invece di lavorare a quella che dovrebbe essere la propria passione e missione di vita, ci si farebbe violenza da soli. I toni, pur filtrati dai social network, ci costringono a fermarci a pensare un attimo a cosa c’è dietro questo magico mondo dei videogiochi, di cui noi viviamo solo una parte, quella più bella e scintillante, fatta di slogan e copertine: nient’altro che fumo negli occhi che nasconde una realtà a volte ben poco sfarzosa.