Cosa è successo alla
Square Enix, una volta
Squaresoft? Sono quasi vent’anni che questa domanda ronza in testa agli appassionati. E che probabilmente rimarrà tale per ancora molto tempo: i ricordi sono ancora freschi e anche le “ferite” non scherzano. Quel che è certo è che qualcosa è cambiato nella casa di sviluppo che, da fine anni Ottanta, è uno dei più grandi e famosi sviluppatori di videogiochi di ruolo alla giapponese. Per quanto ancora non possiamo determinare “cosa” sia effettivamente cambiato, perlomeno abbiamo una collocazione temporale abbastanza precisa: il 2002. In questo periodo usciva in Europa
Final Fantasy X, il debutto su sesta generazione della loro serie di punta. Tutto questo avveniva
sedici anni fa: chi ai tempi nasceva adesso frequenta il liceo. In questo speciale vogliamo ripensare e riguardare quello che ai tempi è stato l’apoteosi di uno sviluppatore. Ma vogliamo farlo in maniera diversa, più chirurgica. Vogliamo strappare il senso critico dalla gabbia dell’
amarcord per portare alla luce come mai questo gioco dell’allora
Squaresoft ci sia piaciuto così tanto.
Il mito c’è o è solo un “fuori dai denti”?
Final Fantasy X viene sviluppato dalla fine degli anni Novanta in poi. Alla direzione generale dei lavori c’è
Yoshinori Kitase, già direttore del sesto, settimo e ottavo capitolo. La lavorazione va avanti in contemporanea con
Final Fantasy IX, di cui però si occupa Hiroyuki Ito. La vocazione di fondo è volendo quasi ovvia: l’esordio di PlayStation 2 impone la realizzazione del più spettacolare gioco di ruolo a memoria d’uomo. E diciamolo subito: l’obiettivo è pienamente raggiunto. La ricchezza visiva ed estetica delle battaglie e delle ambientazioni però non riesce a mascherare i sacrifici della
Squaresoft in funzione della resa grafica. Ancora troppe ambientazioni sono pre-renderizzate, la trama è lineare e le espressioni facciali sono rigide. La stessa recitazione inglese è altalenante, con certe parti del cast con esperienza e altre che fanno visibilmente fatica nel convogliare espressività nella voce.
La trama è particolare: la città futuristica di Zanarkand viene attaccata da una misteriosa entità semidivina, Sin. A sopravvivere è solo Tidus, giovane atleta che però si ritrova misteriosamente mille anni nel futuro, dove il mondo è tornato a uno stato semi-selvaggio e l’umanità si accartoccia attorno al culto di Yevon, monoteismo bigotto che considera eretica la tecnologia. Non avendo altra scelta, Tidus accetterà di unirsi all’invocatrice Yuna nel suo pellegrinaggio per sconfiggere Sin.
Strutturalmente, Final Fantasy X è quasi un passo indietro rispetto a quanto fatto precedentemente da Squaresoft. Scompaiono completamente parti classiche del brand come il sistema a turnazione dinamica ATB (Active-Time Battle) e la world-map, tristemente sostituita da un elenco di destinazioni da raggiungere tramite menu una volta ottenuta la nave di Cid. Una narrazione rigidamente lineare, che segue una struttura ciclica nelle visite ai templi (in modo da ottenere gli spiriti dell’invocazione) e nelle sezioni da attraversare a piedi per arrivare al successivo. È in queste parti che si affacciano gli scontri con i mostri, trattati secondo l’irrigidito CTB (Conditional Turn-Based). Un compito che si contamina con il fatto che sono spariti i punti esperienza, sostituiti da AP che servono per muoversi e imparare abilità nella Sferografia. Un artifizio divertente all’inizio ma autoreferenziale sul lungo termine, poiché non ha mai una fine vera e propria: si finisce col far imparare tutto a tutti, buttando via qualunque velleità di collaborazione e interdipendenza tra i personaggi. E proprio il cast, assortito ed “esotico”, finisce con l’essere paradossalmente monocromatico: Yuna è la ligia al dovere, Auron il mentore col segreto “scomodo”, Wakka l’atleta che non ha mai sfondato, Lulu la cinica, Kimahri il reietto e Rikku la “bambina troppo cresciuta”. Collante di tutti loro, più che la missione di Sin, è Tidus, protagonista che sotto l’aspetto “pulito” si rivela umano perché non è il solito eroe infallibile.
L’orgoglio è vicino al cuore
Ma nonostante tutte queste “cattiverie” gratuite, perché Final Fantasy X è piaciuto e piace ancora? Perché molti lo considerano un capolavoro, ricordandolo con affetto e orgoglio nonostante le sue criticità, i suoi difetti e la pessima conversione da NTSC che ha costretto noi europei a sorbirci venti centimetri di bande nere sopra e sotto lo schermo? La risposta è semplice, ma terribilmente gravosa: Final Fantasy X è un poema epico. E in quanto tale soffre di tutti i difetti intrinseci appena elencati, che altro non sono che il prezzo da pagare per godersi una storia di respiro universale, potente, autentico. L’epopea di Tidus e Yuna si bea di un ritmo certosino, che alterna momenti magniloquenti e calmi, serietà e facezia. Gli avvenimenti sono lineari perché devono essere prima di tutto comprensibili, ordinati. Gli snodi di trama prevedibili, i palesi “falsi alleati” e i colpi di scena “telefonati” non sono che un altro modo per assolvere tale compito. Perché il poema epico deve essere tutto questo, per lui a contare è il viaggio e non la destinazione. L’attenzione viene dai legami con i personaggi, dai dialoghi scritti come haiku, dai luoghi esotici e dai meravigliosi filmati in CG. Deriva dal fluire di una storia che passa con una naturalezza sconcertante dal particolare all’universale, scoperchiando il pozzo di ipocrisie e nefandezze di un sistema perverso. Un meccanismo che da millenni si nutre delle vite di migliaia di persone e che mette sul tavolo il conflitto universale non del bene contro il male, ma della tecnologia contro la spiritualità. Final Fantasy X immagina un mondo dove ha vinto l’esaltazione della seconda, che ha modellato il mondo che la circonda come una perversa e rituale umiliazione della prima. L’opera di Kitase e di tutta Squaresoft estremizza la perversione dell’affidare ogni aspetto della propria vita al soprannaturale, rifiutando di capire che sotto l’istituzionalizzazione c’è solo l’umano, folle strascico di un invocatore (Yu Yevon) malato di paura e vendetta. E tutte queste cose non stanno a guardare il fotogramma in più o in meno, le forzature nei sottotitoli italiani o il fatto che certi attori del cast non avessero ripassato i libri per l’esame di dizione. Final Fantasy X parla direttamente a quella radice di umano orgoglio che ci cresce vicino al ventricolo destro.
E il poema epico ha al suo centro prima di tutto l’essere umano, con le sue potenzialità, possibilità, pregi e difetti. Ne ribadisce l’autonomia di pensiero e decisione. Ne sottolinea la capacità di poter concepire l’infinito e contemporaneamente di non poterlo creare, ma aggiunge anche che è proprio questo limite a dotarlo di volontà infinita e a farlo riuscire in ciò che intraprende. Anche se il suo obiettivo è quello impossibile di scardinare un sistema intero, tirando giù dal trono chi ha avuto la presunzione di elevarsi a dio.
Il Bonacciale è nella testa
Di nuovo, anche da un punto di vista di gameplay il videogioco mette in ordine buona parte delle idee affiorate nella “seconda generazione” di Final Fantasy. A cominciare proprio dall’estetica dei protagonisti: dove il settimo capitolo aveva lo stile super-deformed, l’ottavo era più umano e “realistico” e il nove invece tornava ad atmosfere più “fantasiose” e infantili solo all’apparenza, il decimo capitolo li riunisce tutti. La stravaganza è più misurata, e i personaggi hanno proporzioni più seriamente “umane”. Parimenti sono presenti razze antropomorfe, idealmente rappresentate dal silenzioso Kimahri. Interessante (e foriero di un minigioco collezionistico, ormai non più aggrappato alle carte collezionabili) la presenza della cultura Albhed, la cui lingua andrà decifrata raccogliendo svariati dizionari lungo l’avventura.
Dai sette eroi totali si ricava un “party da combattimento” di tre, intercambiabili in qualunque turno. Il viaggio lineare è a sua volta il modo per introdurre il sistema di combattimento, che obbliga alla riflessione e alla comprensione dei nemici. Almeno all’inizio, ciascun personaggio ha il suo “nemico” prediletto, ovvero che può sconfiggere in maniera più agevole rispetto agli altri. Il sistema della sferografia, inizialmente farraginoso, diviene sempre più comprensibile man mano che ciascun personaggio procede al suo interno. Strutturalmente il gioco è infatti progettato per non “lasciare indietro” nessuno: basta che un personaggio agisca in almeno un turno a combattimento (non importa se fa qualcosa di utile o meno) e riceverà AP come tutti gli altri. È una meccanica piuttosto sibillina, ma che permette di proseguire nella storia principale senza molti problemi. È un po’ un peccato che, nelle fasi avanzate e nei combattimenti contro i numerosissimi superboss, si finisca con il perdere quella “specializzazione” che è l’anima di un gruppo organizzato. Ma tutto sommato, questo è il bello dell’epopea Squaresoft: un mondo dall’estetica aggraziata e dai toni un po’ pastellosi in cui perdersi, con attività secondarie e segreti da scoprire in barba alla linearità, alla ricerca di quella manciata di AP in più per il Livello Sfera che ci manca. Perché, molto più che dei predecessori e anche dei successivi, Final Fantasy X è costruito prima di tutto sulla storia che racconta e sulle coscienze che smuove. Lo stesso “grande nemico”, l’antagonista principale, non ha il carisma folle di Kefka o il fascino perverso di un Sephiroth. Come da nome, Sin è prima di tutto ammasso informe di peccati, un globo di argilla che indirettamente riversa sul giocatore il compito di dargli una forma. Proprio perché la storia di Final Fantasy X è profondamente umana, non vi sono “nemici assoluti”, ma solo motivazioni, decisioni e conseguenze. Una condotta che non si risparmierà neppure di far capire che distruggere un sistema ha delle conseguenze sia a livello individuale che collettivo. Principi che si convogliano nello sconvolgente finale. Perché no, Final Fantasy X non ha un lieto fine. Il sacrificio ultimo di Tidus, che svanisce esattamente con gli Eoni e gli intercessori ormai non più incatenati alla volontà di Yu Yevon, si concretizza nell’ultimo abbraccio alla sua Yuna, sulla quale ricadrà la responsabilità di ricostruire Spira. Ed era giusto così, altro che looksfere.
Final Fantasy X è stato l’ultimo, grande fuoco d’artificio della “vecchia” Squaresoft. Un videogioco magniloquente, lineare ma costruito con un gusto che solo l’esperienza può dare. Un poema epico nascosto sotto l’apparente rigidità della sua propria struttura ludica, che con ardito, intelligente fervore invoca la fine dell’oscurantismo. Accompagna questo urlo alla vicenda umana di una predestinata ribelle, che sarà madre di un nuovo mondo con l’aiuto di coloro che da sempre le sono accanto. Una storia da raccontare e da vivere ogni volta, perfetta nella sua autoconclusività. E con un finale che, per quanto triste nell’addio proprio al protagonista principale, è essenziale e perfetto così com’è proprio per il messaggio che porta. Un messaggio che non ha bisogno di essere ricavato o interpretato: è onestamente detto da Yuna, nella sua ultima battuta: “I compagni persi, i sogni svaniti… Non dimentichiamoli mai”.