Sono trascorse ormai diverse settimane da quando Netflix ha rilasciato sulla nota piattaforma streaming i sei episodi della terza stagione di Black Mirror, l’ormai conosciutissima serie ambientata in un futuro (o sarebbe meglio parlare di presente) nel quale tra l’uomo e la tecnologia si è instaurato un rapporto morboso, quasi simbiotico, capace di creare sorprendenti risvolti capaci di terminare nel dramma sociale o, peggio, nella tragedia, senza dimenticare la corsa ossessivo compulsiva ai social network (argomento, questo, che ultimanente interessa in particolar modo ciascuno di noi). Dopo averla ampiamente somatizzata e, nel caso non le abbiate viste ai tempi, recuperato anche le due stagioni precedenti (da tre episodi l’una, più un singolare “Speciale di Natale”), ora più che mai è giunto il momento di tirare le somme su quanto grande sia il solco lasciato da Black Mirror. E sul “quanto”, intendo proprio il fatto che, trattandosi di una serie TV decisamente atipica (e che affonda gli artigli nel tessuto sociale contemporaneo), non possiamo di certo parlare di semplice intrattenimento fine a se stesso.
Rompere lo specchio
Come ben saprete, ogni episodio racconta una storia auto conclusiva, che va quindi giocoforza analizzata singolarmente, senza alcun legame con le precedenti o le successive vicende. Non esiste un universo condiviso, né tantomeno una singola linea narrativa e temporale: in Black Mirror tutto avviene come e quando lo decidono gli autori. Il creatore della serie, nonché sceneggiatore di tutti gli episodi tranne uno (ovvero il terzo della prima stagione) risponde al nome di Charlie Brooker, che nella vita è soprattutto un conduttore televisivo (e comico) britannico. Cosa lo ha spinto ha creare una serie realmente unica come Black Mirror? Che cosa è “scattato” nella mente di Charlie al punto di fare arrivare, come un pugno dritto allo stomaco, un messaggio chiaro e neanche troppo velato alla fine di ogni episodio, diretto proprio al volto dello spettatore? Innanzitutto, questa non vuole essere un’analisi passo passo di ogni episodio, bensì un quadro generale di come, Black Mirror, adotti un linguaggio televisivo realmente sorprendente, atto ad ammonire (o forse sarebbe meglio dire, condannare) la nostra società e i nostri più torbidi usi e costumi. Impossibile dimenticare il primo episodio della prima stagione, l’ormai storico ““The National Anthem”, nel quale il primo ministro britannico, a seguito del rapimento di una giovane principessa, veniva ricattato da un misterioso individuo che pretendeva da lui un rapporto sessuale con un suino, da mostrare in diretta televisiva mondiale. Se una cosa succedesse nella realtà, guarderemmo la trasmissione? Basandoci sul concetto di voyeurismo di massa, la risposta è si. O ancora, nello speciale di Natale del 2014, che vedeva tra le varie cose protagonista il noto attore Jon Hamm, Charlie Brooker dava la prima spallata agli utenti dei social network, ipotizzando un sistema “estremo” per bloccare le persone poco gradite, esattamente come se si impedisse a qualcuno di contattarci via Facebook. Vi suona familiare, non è così?
La finzione oltre la realtà
Black Mirror non ci è mai andato leggero, e dopo ogni episodio la sensazione di sentirsi “in colpa” per un sottotesto che ci implica in prima persona è sempre molto forte. E anche nella nuova stagione la tecnologia appare come un elemento di spicco, quasi irresistibile, tanto che Brooker utilizza ancora una volta la scusa della corsa al progresso come arma per ritorcerci contro applicazioni il cui utilizzo sembra a prima vista essere assolutamente necessario per l’uomo, ma che a lungo andare si rivela invece come un vero e proprio strumento capace di distorcere la realtà, spesso drammatica, della vita di tutti i giorni. “San Junipero” è l’episodio che più di ogni altro incarna questo concetto, grazie ad una storia d’amore tra due donne che va ben oltre la vita stessa, nel vero senso della parola. Quando la terapia del dolore e l’eutanasia incontrano la realtà virtuale, potremo dire noi oggi, nel 2017. O ancora, l’episodio chiamato “Shut Up and Dance” e il significato di cyberbullismo portato all’estremo, oltre lo schermo di un computer, toccando la persona reale che non siamo riusciti a educare al di là del monitor. Certo, potremo dire che Black Mirror tratta spesso e volentieri dei cliché a cui i più attenti lettori di narrativa sci-fi o tematiche cyberpunk hanno messo le mani già da molti anni, ma è pur vero che trattandosi di un esperimento televisivo ormai conclamato, la trilogia di Charlie Brooker rappresenta un punto focale delle serie contemporanee, un prodotto non perfetto ma che mette in piedi nella maniera più cruda possibile le paure, i timori e le promesse legate a un universo tecnologico che, nonostante ne siamo a tutti gli effetti gli artefici, forse non riusciamo ancora a comprendere appieno. E forse mai ci riusciremo.
Black Mirror non è stata né sarà mai la solita serie tv, né chiede che lo spettatore sia lo stesso che si appassiona a epopee televisive come The Walking Dead o Game of Thrones. Black Mirror è innanzitutto un’accusa, neanche troppo velata, al pubblico stesso. Proprio colui il quale, per tutta la durata di ogni singolo episodio, resta con il fiato sospeso e il costante sospetto che, probabilmente, Charlie Brooker stia spiando anche lui in quel preciso momento, magari tramite la webcam del suo computer portatile. O forse, parliamo solo di una serie in grado di valicare con inaspettata efficacia lo schermo della nostra televisione.