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Shadow of the Colossus, Il Messaggio delle Terre Proibite

Torniamo da Wander e alla sua crociata contro i Colossi, per scoprirne i riferimenti culturali e che forse non tutto è come sembra.

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Era il 2005 quando arrivò un videogioco che si aspettavano in pochi: Shadow of the Colossus, un’opera atipica e silente dove un improbabile eroe affrontava nemici così grandi da non sembrare possibile che entrassero dentro a una console ormai morente come PlayStation 2. Eppure fu proprio questo progetto ambizioso che consacrò Fumito Ueda (già autore di quel quadro chiamato ICO) al grande pubblico. Quattordici anni, una remaster e un remake dopo vogliamo riflettere su come ci hanno raccontato la storia di Wander e su quale messaggio e cultura vi possiamo trovare sotto la superficie.

Non c’è posto per le fiabe qui

Chiariamo subito l’ovvietà: Shadow of the Colossus fece successo prima di tutto per la sua azione. Con un sistema di controllo più “umano” della media dei tempi si affrontavano letteralmente dei giganti, esseri alti decine di metri che avrebbero potuto schiacciare il protagonista sotto i piedi e neanche farci caso. Un’attrattiva che per la sua epoca già bastava a piazzare copie, e su quale il marketing giocò abbondantemente. Non leggetelo come una colpa o come qualcosa di svilente: il crescendo di questi duelli è praticamente immune all’invecchiamento. Ma Shadow of the Colossus ha bisogno di tempo per essere capito, tanto nei rimandi culturali quanto nella sua tecnica narrativa che sfiora il bluff.

Shadow of the Colossus

L’opera di Fumito Ueda fu ai tempi percepita come una fiaba, una crociata verso l’impossibile. E come tale fu presentato anche dai suoi stessi creatori: la prima edizione del gioco, quella con la custodia in cartone e un discutibile sticker dell’ormai defunto La Repubblica XL, presentava alcuni filmati dietro le quinte in cui gli sviluppatori dicevano che in Shadow of the Colossus si sarebbe interpretato un “eroe intrepido e valoroso che deve riportare in vita una fanciulla”. Tutto autentico, ma allo stesso tempo una grande menzogna: perché qui non parliamo né di una fiaba né di un eroe. Parliamo di un ragazzo sopraffatto dal dolore che arriva a tirare in gioco forze più grandi di lui pur di rivedere ancora viva la giovane che ha adagiato sull’altare.

Di lei sappiamo solo il nome (Mono) e che è stata “sacrificata per via del suo destino maledetto”. Non abbiamo altri indizi quale possa essere il legame con il protagonista, finito poi con l’assumere a furor di popolo il nome Wander, “pellegrino” in inglese, dopo una traslitterazione errata che gli aveva dato un nome addirittura femminile (Wanda). Ma certo è che per lui Mono è la persona più importante del mondo, e tale sarà anche per noi. Armato solo di una spada, di un arco e di un’incrollabile determinazione, con l’aiuto della sua fedelissima cavalla Agro viaggerà per queste Terre Proibite in cui ha sconfinato, portando avanti un’impresa impossibile. Questo è Shadow of the Colossus: un’opera di disarmante semplicità, la dimostrazione che l’arte nel videogioco esiste e si può fare. Ci fa credere che non esiste altro al di fuori di quello che ci mostra, quando invece c’è un intero universo da capire. Fumito Ueda ha fatto esattamente questo: un’avventura che, prima ancora di essere tale, è un cammino nella terra proibita dell’animo umano.

Shadow of the colossus

Un sole che acceca, senza neanche scaldare

Alla base del tutto c’è un patto ai limiti del faustiano, che Wander stringe con la voce dal timbro ambiguo (sia maschile che femminile) proveniente da un’apertura sul soffitto del grande Sacrario al centro delle Terre Proibite. A parlargli è Dormin, essere millenario che si dice sia in grado di risanare la morte. Dormin gli ha detto che, se Wander rintraccerà i sedici colossi che vagano per queste terre e li ucciderà con la spada che porta al fianco, Mono tornerà indietro. Un obiettivo che appare semplice come quello di una fiaba, ma che perde tale consistenza dopo neanche sette minuti. Perché il viaggio di Wander è fatto di scenografie sconfinate, costruzioni megalitiche e resti di un passato che non conosceremo mai, ma che servono tra l’altro a mascherare un’altra, terribile verità: i Colossi non ci hanno fatto nulla. Questi esseri giganteschi appaiono da subito sì armati, ma stranamente pacifici nei loro movimenti lenti.

Siamo noi che, comandando Wander, li provochiamo e gli andiamo contro, mentre i loro occhi che cambiano colore non trasmettono spietatezza o odio, ma panico e paura. Alcuni di loro non hanno neanche dei veri e propri modi per nuocere. Certo alcuni esibiscono aggressività più o meno spontanea o letale, ma i loro gesti appaiono come meccanici, improvvisati. Si potrebbe pensare che siano solo “macchine”, e forse quest’ultimo è anche dovuto al fatto che la PlayStation 2 non aveva le risorse per chissà quale IA. Ma è giusto per il contesto: i Colossi non sono esseri fatti per combattere, ma per sorvegliare. L’arrampicata di Wander su queste montagne semoventi, il suo affondare la spada finché non crollano perde qualunque orizzonte di gloria o metafora, anzi si rigetta nell’amara soddisfazione di aver sopraffatto un altro essere (non importa se artificiale o meno) la cui unica “colpa” era stata quella di trovarsi tra Wander e ciò che desiderava. La verità ci colpisce solo nel finale, quando capiamo come non abbiamo comandato altro che un egoista dalla visione limitata.

Da ICO alla Bibbia, passando per Dante

Shadow of the Colossus vive esattamente di questo: crea emozioni togliendo, dando pochi indizi e lasciando tutto all’inferenza del giocatore, alla sua interpretazione. I richiami culturali volendo si rincorrono sottopelle, non ve ne è nessuno di esplicito a parte qualche citazione negli oggetti bonus e dei piccoli segreti lasciati lì. Molti sono stati i collegamenti con ICO: il design degli abiti simile, le architetture giganti ma dall’aspetto “reale”, le estetiche del lungo filmato finale. Nei fatti l’unica ammissione diretta di Ueda è stata proprio dire che Shadow of the Colossus è un prequel di ICO, chiarimento che forse non era così necessario visto come, quando due opere hanno gli stessi autori, è un po’ inevitabile che certe idee, disegni, fantasie si rincorrano un po’.

Oltre a ICO, l’unico altro riferimento ormai dato per palese è il collegamento di Dormin con Nimrod (alle volte anche Nemrod, a seconda di come lo si traslittera dall’ebraico), il leggendario sovrano mesopotamico che secondo la Genesi discenderebbe nientemeno che da uno dei figli di Noé. “Ma Cus generò pure Nemrod, che fu il primo ad esercitare il potere sopra la terra. Egli fu gran cacciatore nel cospetto del Signore; donde il proverbio: «Gran cacciatore nel cospetto del Signore, come Nemrod». Il principio del suo regno fu Babel, Erec, Accad e Calen nella pianura del Sennaar. Da quella regione passò poi in Assiria e costruì Ninive, Rehobot-Ir e Calah, e la grande città di Resen, fra Ninive e Calah.” (Genesi 10:8-12). Per quanto egli sia nominato solo in questi pochi versetti, il fatto che egli abbia regnato su Babel lo ha collegato anche all’episodio biblico della Torre di Babele, delle lingue come “punizione”. E come tale Dante Alighieri lo colloca nel suo Inferno, chiamandolo Nembrot e dipingendolo come un gigante condannato a parlare una lingua comprensibile solo a lui stesso. Ecco quindi Shadow of the Colossus: il Sacrario del Culto da cui riceviamo istruzioni appare come una costruzione tale da “bucare le nuvole”, e i personaggi stessi parlano una lingua inventata. Dall’esame dei dialoghi è emerso che si tratta di termini giapponesi e latini pronunciati al contrario, ma non serve ci sia una vera e propria grammatica: quel che conta è la sua simbolica incomprensibilità.

Potremmo fermarci qui, ma c’è ancora qualcosa di correlato: Semiramide. Questa regina mesopotamica è ricordata in maniera controversa, in quanto sarebbe stata tanto una grande statista quanto capace di terribili perversioni. Non a caso di nuovo Dante la colloca nel girone infernale dei lussuriosi. Di Semiramide viene detto essere stata moglie di Nino, fondatore di Ninive. Dopo la morte di quest’ultimo lei stessa avrebbe diffuso la leggenda che il marito fosse figlio o proprio il dio Baal, signore della luce e del sole. Non è difficile pensare a Nino e Nimrod come il medesimo personaggio, così come i riferimenti si inseguono fino a Shadow of the Colossus. Nell’opera di Ueda l’essere Dormin ci parla da una grande apertura circolare da cui proviene l’accecante luce del sole; i suoi tratti da “divinità ingannatrice” lo ricollegano alla demonizzazione effettuata sul pantheon mesopotamico da parte dei loro nemici. Costoro spregiativamente lo chiamavano “Baal-Zebub”, che alla lettera vuol dire “Signore delle mosche” ma metaforicamente significa “Signore del niente”, e da cui è venuto il nostro Belzebù. La stessa Semiramide è stata collegata alla Regina delle Ombre di ICO nella sua perversione di impiegare l’energia dei suoi figli per rimanere giovane.

Agro, il segreto in piena vista

L’associazione di Dormin con Nimrod non ha impiegato troppo tempo a venire fuori. Per quanto gli autori si siano sempre guardati bene dal dare conferme o smentite, abbiamo visto come ci siano veramente troppi indizi in quella direzione. C’è però un altro riferimento, reso meno palese dal fatto che è praticamente nascosto in piena vista: Agro. Sappiamo già che la cavalla di Wander trascende il ruolo di mezzo di trasporto per giungere al traguardo di vero e proprio personaggio; quello che è meno noto è che le sue radici potrebbero spingersi addirittura all’epica greca. “Agro” è infatti anagramma di “Argo”, che è il nome del cane di Ulisse. Nel poema di Omero l’animale, ormai vecchio e malato, è il primo a riconoscere spontaneamente il padrone quando questi torna a Itaca travestito da vecchio mendicante. Argo ha appena il tempo di scodinzolare con le ultime forze, prima di morire. Per lui, e per la prima volta, un Ulisse ormai indurito dalla guerra e dalla vita versa un’unica lacrima.

Questo breve episodio dell’Odissea è stato chiaramente interpretato come esempio di fedeltà incondizionata, cui Argo stesso è stata associata. Ma basta veramente poco per vedere come l’ideale di fedeltà di Argo si trasli con sorprendente naturalezza anche a Agro: la cavalla nera è fedele a Wander fino al punto di sacrificarsi durante l’ultima parte del tragitto verso il sedicesimo Colosso. La sequenza è di forte impatto emotivo, in quanto nel gesto dell’animale di sospingere in avanti il padrone e poi cadere nel crollo del ponte vi è racchiusa un’inferenza a dir poco mostruosa, una sorella che salva il fratello. Wander proporzionalmente è troppo piccolo rispetto alla stazza di Agro, che dal canto suo non pare una cavalla da caccia ma da battaglia. Wander e Agro sono stati pensati in maniera talmente complementare da lasciar intendere che siano praticamente cresciuti insieme, imparando a compensare i reciproci difetti. Tornando indietro al mito greco, Ulisse chiamò il suo cane così perché fin da cucciolo si dimostrò molto sveglio e attento, come se vedesse da ogni parte del corpo; per questo lo chiamò Argo da Argo Panoptes, un gigante (guarda caso) con cento occhi. E volendo spingerci ancor più in là, Wander stesso è metaforicamente come Ulisse, nella sua capacità di tentare l’impossibile per amore.

Shadow of the Colossus non se ne è mai veramente andato dalla videoludica moderna. Può sembrare che si allontani, ma in realtà è solo un artificio per far capire quanto è stato ed è importante per questo medium. Questo perché è stato in grado di sfruttare l’apparente pigrizia del testo in quanto tale ha finto un messaggio (la fiaba del coraggio che smuove le montagne) per in realtà dirci l’esatto contrario, che in realtà il giocatore ha assistito nient’altro che un ragazzino egoista alle prese con un dolore più grande di lui. Ma che pure nella sua poca lungimiranza e nel suo cieco giocare al divino, questo “apprendista stregone” ha dimostrato quanto vero e autentico fosse l’amore per provava per Mono, chiunque ella fosse. Cose che appaiono fantascientifiche anche nel 2019, apposta perché il pensiero che “sono solo giochi” non ci abbandona. Ancora una volta Shadow of the Colossus è qui a dimostrarci che dovremmo smetterla di considerarli solo come tali.

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Shadow of the Colossus non se ne è mai veramente andato dalla videoludica moderna. Può sembrare che si allontani, ma in realtà è solo un artificio per far capire quanto è stato ed è importante per questo medium. Questo perché è stato in grado di sfruttare l’apparente pigrizia del testo in quanto tale ha finto un messaggio (la fiaba del coraggio che smuove le montagne) per in realtà dirci l’esatto contrario, che in realtà il giocatore ha assistito nient’altro che un ragazzino egoista alle prese con un dolore più grande di lui. Ma che pure nella sua poca lungimiranza e nel suo cieco giocare al divino, questo “apprendista stregone” ha dimostrato quanto vero e autentico fosse l’amore per provava per Mono, chiunque ella fosse. Cose che appaiono fantascientifiche anche nel 2019, apposta perché il pensiero che “sono solo giochi” non ci abbandona. Ancora una volta Shadow of the Colossus è qui a dimostrarci che dovremmo smetterla di considerarli solo come tali.
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