Sessualità e moralità: cosa ha sbagliato The Last of Us - Part 2? - Speciale
Sessualità, moralità, temi socio-politici e grande enfasi sulla rappresentazione della nostra umanità: Naughty Dog ha forzato la mano oltre il dovuto?
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a cura di Domenico Musicò
Deputy Editor
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Naughty Dog
- Produttore: Sony Interactive Entertainment
- Distributore: Sony
- Piattaforme: PS4
- Generi: Action Adventure
- Data di uscita: 19 giugno 2020
Attenzione: in questo articolo sono presenti pesanti spoiler sulle inclinazioni sessuali dei personaggi, sui loro destini, sulle loro azioni e sul finale di gioco. Proseguite con la lettura solo se avete finito The Last of Us – Part 2.
“Tuttavia ci sono momenti in cui Naughty Dog sembra calcare la mano più del previsto, quasi a voler ribadire certi concetti senza che se ne avverta mai il bisogno, rendendo ridondante una visione già chiara ed esplicita dall’inizio alla fine“, scrivevo nella recensione di The Last of Us – Part 2, ma non potevo scendere nel dettaglio. Non potevo spiegare esattamente cosa significasse fare le cose in grande pur inserendo qualcosa di non necessario come atto di ripetizione utile a rafforzare una posizione e una visione socio-politica già chiarissime. Mi preme però farlo adesso, perché The Last of Us – Part 2 lo state vivendo, lo state prendendo in considerazione poiché ne fate parte e, finalmente, non ne state più parlando senza nessuna cognizione di causa. Probabilmente lo avete già finito, starete tentando di superando dei traumi, sarete nella fase di accettazione o forse lo starete già interiorizzando. E dunque, avendo adesso una visione d’insieme più chiara, potrete capire esattamente a cosa mi stessi riferendo con quella frase.
Repetita iuvant? Non in questo caso
Lo dissi in diretta, lo feci capire a chi chiedeva delucidazioni in merito e lo spiegai in modo piuttosto chiaro: Naughty Dog ha finalmente spalancato le porte a un’emancipazione del videogioco a tutto tondo, facendo da apripista a un settore finora troppo pavido e insicuro, sempre pronto a tirarsi indietro e mai davvero in grado di avere la forza di perseguire una visione autoriale così potente e incurante dei pareri altrui (com’è giusto che ogni opera dell’ingegno debba sempre fare). Ma in che modo lo ha fatto? Ci sono forzature e informazioni non necessarie che non aggiungono nulla di rilevante alle idee degli autori? La risposta è sì, perché se un concetto è chiaro a tutti, non dovrebbe mai esserci il bisogno impellente di ribadirlo a più riprese, e al contempo non dovrebbe mai suscitare nel giocatore la netta sensazione che l’orientamento sessuale di alcuni personaggi diventi quasi strumentale. Accade nei film, nelle serie tv, nei libri e, da oggi, anche nei videogiochi.
Il riferimento non va mai a Ellie e Dina, che al contrario sono state rappresentate con grande rispetto e con una naturalezza incredibile. Il modo in cui l’omosessualità di Ellie e la bisessualità di Dina entrano nel tessuto di gioco sono semplicemente inappuntabili, e non si avverte mai la sensazione che qualcosa sia fuori posto o che ci siano stonature nell’impianto narrativo.
Allo stesso modo, la nascita della loro relazione in pieno stile post-adolescenziale, la svolta che prenderanno le vicende, le conseguenze del passato di Dina e il futuro in cui si imbattono le due donne, non risultano mai essere in qualche modo anomale. Tranne nel momento in cui Dina partorisce il figlio di Jesse, dove emerge qualche dubbio sulla capacità di saper raccontare un tema così delicato e controverso: nella narrazione viene appena lambito il tema di un bambino cresciuto da una coppia gay, la scrittura si esaurisce in pochi minuti che comprendono uno sbrigativo spaccato di quotidianità e la forza del messaggio si esaurisce all’istante nel momento in cui le necessità della storia rubano la scena.
Nessuno mi toglierà mai dalla mente che Halley Gross volesse concludere The Last of Us – Part 2 con quell’immagine bucolica di coppia assolutamente inadatta per mettere un punto fermo alla vicenda, e che la sezione finale espansa con tanto di area aggiuntiva fosse in origine poco più un epilogo narrativo, dove al di fuori dello scontro finale non era contemplato l’inserimento di altre azioni da parte del giocatore. Ma sono considerazioni molto personali e non esiste una controprova. Tuttavia, ritengo importante specificare che questa e altre tematiche toccate in maniera solo collaterale siano una farcitura eccessiva che avrebbe meritato un’attenzione ben maggiore, magari attraverso un contenuto del tutto nuovo o una gestione migliore di certe sezioni che si prendono più tempo del previsto.
Se su Ellie e Dina non si può dire nulla di negativo sulla resa e sulla brillantezza della narrazione, lo stesso non si può affermare di un altro personaggio che si incontra nelle fasi avanzate, su cui vengono forniti dettagli sulla sua sessualità piuttosto pretestuosi: si tratta di Lev, che nella coda dell’avventura scopriamo essere in realtà Lily. La rivelazione non funziona affatto ed è la chiara volontà di ribadire un messaggio che Halley Gross e Neil Druckmann avevano già lasciato recepire con chiarezza.
Benché si possano intuire le implicazioni legate all’oppressione religiosa del gruppo di cui fa parte e da cui sfugge, inserire una ragazzina alla ricerca della propria identità sessuale ha quasi l’effetto di ribaltare il concetto stesso di minoranza, che in The Last of Us – Part 2 perde di significato e si spinge verso il campo minato della ridondanza, sminuendo così il valore stesso del personaggio, che verrà appunto ricordato solo per quella particolarità lanciata in mezzo al caos delle battaglie senza che ne venga mai approfondito degnamente il background.
Abby, la protagonista inattesa
The Last of Us – Part 2 fa però qualcosa di grandioso con un altro personaggio, che ruba la scena persino ai veterani della serie. Abby ridicolizza tutti coloro che ancor prima dell’uscita del gioco (e persino adesso) si erano lanciati in fake news e assurde interpretazioni riguardanti la sua presunta transessualità, dimostrando come nella società moderna sia fortemente radicato il pregiudizio basato sull’aspetto fisico, dove un corpo muscoloso non riesce quasi mai ad essere associato a quello femminile.
Curioso e ironico è il fatto che molte di queste osservazioni siano arrivate proprio da quelle personalità che si dichiarano (sempre a voce e quasi mai coi fatti) strenui difensori dei diritti umani e dell’importanza delle diversità, ossia gli stessi oltranzisti che su certi temi non accettano e nemmeno vogliono mai ascoltare opinioni ben argomentate che divergano da quelle balzane di cui si fanno orgogliosamente portavoce. Costoro hanno dimostrato una stolidità davvero senza eguali, rendendosi protagonisti di un body shaming silenzioso che ha aprioristicamente tentato di svilire la figura di Abby. La ragazza, che è chiaramente una donna senza nessuna possibilità di essere smentiti, vive in The Last of Us – Part 2 un percorso di vita estremamente doloroso e travagliato, che la porterà a essere ciò che vediamo quando si macchierà le mani di indicibili atrocità.
Abby è il volto rabbioso di una sofferenza senza fine, che non si placa nemmeno quando uccide l’assassino di suo padre in quel modo così brutale, animalesco e senza pietà. Ma la vendetta non ha mai riportato in vita nessuno, e non serve a rimarginare ferite che sanguinano per sempre. C’è un senso di giustizia quasi morboso nell’occhio per occhio, una spinta interiore che vorrebbe in qualche modo riequilibrare il peso specifico delle malefatte, ma è qualcosa che provoca solo altro dolore agli altri senza mai riuscire a sanare quello che urlerà per sempre dal profondo della coscienza. La moralità di The Last of Us – Part 2 mette a nudo i nostri istinti umani, dimostrandoci che non esistono parole in grado di ammorbidire un torto subito.
Nei flashback vediamo Abby con un corpo completamente diverso, ma quattro anni dopo quel trauma scopriamo che la ragazza ha in qualche trovato una valvola di sfogo nell’allenamento ossessivo, nel probabile uso di steroidi e nella costruzione di un’esteriorità granitica che mai e poi mai occulterà la sua enorme fragilità agli occhi di chi sa osservare davvero. Abby è una ragazza che lotta coi demoni che la divorano da dentro, infelice; è colei che non solo non riesce ad avere l’uomo che ama, ma addirittura lo perde. E come suo padre, sempre per mano altrui.
Non c’è consolazione nel mondo di The Last of Us – Part 2, nessuno trova mai pace. E non riesce nemmeno a trovarla Tommy, che ritorna guercio e sciancato ma non ancora vinto. Non ancora soddisfatto. Inconsapevole, come tutti gli altri personaggi, che la ricerca della vendetta porterà ad altri spargimenti di sangue, come in un eterno ciclo di dolore che non conosce mai fine.
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Nonostante alcune forzature e una volontà spiccata di inserire troppi temi delicati in un solo gioco (senza approfondirli tutti, forse per mancanza di tempo), The Last of Us – Part 2, anche a posteriori, non perde nulla dell’incredibile forza dirompente che ha avuto sul mercato e che avrà nel settore. Si tratta di un rarissimo caso di opera che fa da apripista a una reale crescita del medium, consentendo agli altri autori, di riflesso, di non essere più reticenti nel prendersi tutte le libertà che spettano loro di diritto.
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