Gli USA accusano di nuovo i videogiochi, ma il sangue di El Paso non ha niente di virtuale
Dopo i recenti casi di cronaca negli Stati Uniti, con oltre trenta morti in due assalti armati, indovinate di chi è la colpa secondo la classe politica a stelle e strisce? Esatto
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a cura di Stefania Sperandio
Editor-in-chief
Stati Uniti, Dayton, Ohio. Il signor Connor Betts, 24 anni, decide di armarsi di un fucile .223 con oltre cento colpi, di equipaggiarsi di un giubbotto antiproiettile e di sparare in mezzo alla strada agli innocui e innocenti passanti. L’intervento della Polizia gli costa la vita. Con lui, la perdono altre nove persone.
Stati Uniti, El Paso, Texas. Il signor Patrick Wood Crusius, 21 anni, si arma di un WASR-10 (una versione civile del celebre AK-47) e decide di accedere a un centro commerciale Walmart per aprire il fuoco sui clienti. A rimanere a terra sono ventidue corpi. L’uomo viene tratto in arresto e, secondo i sospetti e le informazioni in possesso delle autorità preposte, è un convinto sostenitore della supremazia bianca, che avrebbe deciso di colpire El Paso perché al confine con il Messico – in modo da far abbattere la sua furia su cittadini ispano-americani o genericamente latinos.
Indovinate di chi è la colpa?
“Dobbiamo mettere un freno a quegli orridi videogame”
Come riferito da The New York Times, è bastato il tempo di un respiro per trovare un responsabile che, senza volerci addentrare nelle logiche (logiche?) della politica statunitense, visto che non è questa la sede, fosse un capro espiatorio molto più agile dell’accessibilità delle armi da fuoco e delle condizioni di salute del signor Crusius e del signor Betts: i videogiochi, ovviamente.
«Dobbiamo fermare la glorificazione della violenza nella nostra società. Questo include anche i sanguinolenti e orridi videogiochi che sono oggi così comuni». Queste le parole del presidente Donald Trump alla Casa Bianca, all’indomani delle nuove sparatorie di massa che hanno riacceso l’orrore dentro i confini del popolo statunitense.
A dargli manforte, anche il vicegovernatore del Texas Dan Patrick, che ha pregato il governo di «fare qualcosa in merito all’industria dei videogiochi». Esatto, è come avete letto: dopo che un uomo armato di un fucile d’assalto da guerra è entrato in un centro commerciale per sparare a chiunque gli si facesse innanzi – bambini compresi – il pensiero del signor Patrick è andato all’industria dei videogiochi. Quella che mette le armi in mano a questi signori e quella che preme il grilletto, chiaramente. «Abbiamo visto da degli studi che cosa i videogiochi fanno alle persone, guardate queste foto [quelle di Crusius armato ed equipaggiato, ndr], guardate com’è successo: potete vedere azioni di questo tipo nei videogiochi» ha rincarato la dose, Patrick.
Il fatto che il rappresentante del Texas abbia citato dei non meglio precisati «studi» è un po’ la chiave di lettura dell’intera questione. Questo non è un articolo che vuole dire alle autorità al di là dell’Atlantico cosa devono pensare. A noi interessa discutere di videogiochi e spiegare perché la demonizzazione, ancora di più fatta da individui totalmente atei a questo medium, è priva di ogni fondamento scientifico e logico.
Rilevanti come le banane che causano i suicidi
Gli studi sono stati compiuti e, lo scorso anno, furono voluti dallo stesso presidente Trump, che se ricordate incontrò diversi esponenti dell’industria per capire come arginare il problema della violenza generata dai videogiochi. Ossia, secondo gli scienziati, come arginare un bel niente. Secondo gli studi, come evidenziato dalla American Psychological Association, «solo esigue prove sono emerse di una correlazione tra il giocare videogiochi violenti e commettere effettivamente atti violenti nella vita reale». Sull’argomento si è espresso, in particolare e proprio in questi gironi, il dottor Chris Ferguson della Stetson University, che ha precisato come videogiochi, film e altri media violenti non siano una miccia che fa scattare la violenza reale: semplicemente, non c’è nessuna teoria scientifica che lo abbia provato, perché non ci sono riscontri nella realtà.
«I dati relativi alle banane che causano dei suicidi sono altrettanto rilevanti, tanto quanto i videogiochi che causano sparatorie di massa. E lo dico letteralmente. I numeri praticamente si incastrano allo stesso modo» ha dichiarato il dottor Ferguson. E adesso voglio una t-shirt con stampata sopra questa frase, che riassume tutto.
Anche la Corte Marziale è dello stesso avviso: nel 2011 si espresse in opposizione a una legge proposta dalla California che voleva bandire i videogiochi violenti ai minorenni. La Corte si espresse però, nella persona di Antonin Scalia, scrivendo che gli studi portati a sostegno della legge «provano al massimo che c’è qualche correlazione tra l’essere esposti a intrattenimento violento e avere dei minuscoli effetti nel mondo reale: ad esempio, questi bambini si sentono più aggressivi o sono più rumorosi per qualche minuto dopo aver giocato un videogioco violento, rispetto a quanto lo sono quando giocano un videogioco non-violento». Fine delle correlazioni.
A questo possiamo aggiungere anche che la commissione voluta lo scorso anno dal presidente Donald Trump arrivò alla stessa conclusione, invitando l’amministrazione a concentrarsi non sui videogiochi, ma sul migliorare i servizi per la salute mentale – tra le altre cose. Si parlò, inoltre, anche non di rendere più stringente la possibilità di porto d’armi, ma di istruire i docenti all’uso delle stesse armi da fuoco, ma questo è di nuovo un altro discorso.
Il fatto che videogiochino è comune come quello che indossino delle scarpe
A far associare ancora di più il gesto orrendo di Crusius a El Paso al mondo del gaming, è il fatto che l’assassino abbia pubblicato un manifesto di chiamata alle armi per «fermare l’invasione ispanica degli Stati Uniti» in cui invitava ad attaccare posti dove non ci sono guardie armate, «non cercate di realizzare la vostra fantasia da Call of Duty in cui siete super-soldati», diceva.
In merito, il dottor James Ivory della Virginia Tech University ha dichiarato che è comune che molti degli assassini delle sparatorie di massa siano videogiocatori, perché quasi tutti ormai sono videogiocatori. «È praticamente come se ci mettessimo a dire che l’assassino indossava delle scarpe» ha commentato l’esperto. Prendendo in analisi le notizie di ben 6.814 sparatorie di massa negli Stati Uniti (sì, sono così frequenti, ndr), il dottor Ivory e il suo team hanno rilevato che si dà la colpa ai videogiochi, che vengono citati nelle news come possibile causa dello sbandamento dell’assassino, otto volte più spesso quando il criminale è bianco. «Dovremmo ragionare su quali sono i casi in cui ci sentiamo in dovere di cercare qualcosa a cui dare la colpa» ha dichiarato il dottor Ivory, «non ho mai sentito dei senatori dare la colpa ai videogiochi quando è un immigrato a commettere un crimine.»
Le dinamiche a cui fa riferimento Ivory si legano ovviamente alle problematiche statunitensi che, anche in quest’epoca, sono più vive che mai: quando l’assassino è considerato “buono e bravo” – il che è generalmente lo status di partenza per un giovane bianco, in sintesi – deve essere stato qualcosa a deviarlo. Quel qualcosa, secondo i dati rilevati dallo studioso, sono spesso i videogiochi, secondo l’opinione pubblica.
I numeri del gaming, i numeri delle sparatorie
Se non bastassero le opinioni degli studiosi, c’è un’altra cosa in cui la scienza non può mentire: i numeri. Come evidenziato dal dottor Brian Klaas, è completamente insensato ritenere che la diffusione dei videogiochi sia anche la causa delle sparatorie di massa. Negli USA, i videogiochi hanno un giro d’affari intorno ai $25 miliardi. In Regno Unito, ne hanno 5 volte meno, $5 miliardi. In USA, le sparatorie hanno causato 14.542 morti nel 2017, in Regno Unito 31. Sono 469 volte di meno.
Questo significa che, esposte agli stessi medium, con cervelli fatti allo stesso modo, le persone nel Regno Unito per qualche motivo non imbracciano un kalashnikov, non raggiungono il più vicino centro commerciale e non iniziano a sparare sulla folla. Il che magari può suonare strano, perché dopotutto hanno in mano la stessa arma: il controller del loro videogioco preferito.
Facts are facts. pic.twitter.com/sSEbdYZcgE
— Reggie Fils-Aime (@Reggie) August 6, 2019
I dati, come evidenziato da NYT, sono validi per tanti altri mercati: pensiamo al Giappone, casa di Nintendo e Sony, o pensiamo a quanto la Corea del Sud sia impegnata e dotata di straordinari talenti nel panorama degli e-sport. Esatto: anche davanti a giocatori estremamente competitivi e votati al professionismo, come immaginerete né in Giappone né in Corea del Sud questi individui, traviati dalle loro esperienze di gioco, imbracciano fucili da guerra per rendere realtà i loro successi virtuali.
La realtà altra nella realtà e sapere dove passa il confine
Lo studioso Johan Huizinga studiò, nel suo Homo Ludens, il modo in cui la nostra realtà quotidiana e quella dell’attività ludica si compenetrano. Con la sua teoria del cerchio magico, Huizinga evidenziò che la realtà del gioco è una realtà dentro la nostra realtà abituale. Le due sono scandite da un confine, che prende proprio il nome del cerchio magico: entrando nel cerchio magico, il giocatore sospende le regole della realtà e dà una nuova interpretazione a dei gesti, che per chi è fuori dal cerchio magico hanno invece un altro significato. Un pugno su un ring da boxe ha un significato diverso rispetto a un pugno in mezzo alla strada.
Le persone che giocano e che entrano nel cerchio magico sanno di far parte di una realtà-altra momentanea, utile ai fini del gioco, della quale accettano le regole per divertirsi e dalla quale sanno di poter uscire in qualsiasi momento. Quando il giocatore abbandona la realtà-altra ed esce dal cerchio magico, la sua interpretazione della realtà quotidiana torna quella normale: un pugno in faccia è di nuovo un crimine, non un gesto di un atleta che cerca di vincere l’incontro.
Se davvero qualcuno – come vorrebbero sostenere coloro che vedono il videogioco che ha rovinato le loro menti, dietro i gesti compiuti dal signor Betts e dal signor Crusius – ha difficoltà a “uscire dal cerchio magico”, per comprendere che tirare il grilletto nella realtà e premere il tasto del mouse/il grilletto del controller sono due cose diverse, con interpretazioni, conseguenze, effetti diversi, allora siamo abbastanza sicuri di poter dire che la colpa non è del videogioco, ma della salute mentale di quell’individuo. E non lo diciamo noi: come abbiamo visto, lo dice la scienza. E sarà che alla scienza di trovare capri espiatori di comodo frega meno di niente.
Era solo questione di tempo prima che i videogiochi finissero di nuovo nel tritacarne delle sparatorie di massa statunitensi, accusati di far imbracciare armi alle persone, di spingerle a comprarle, di spingerle a tirare il grilletto per fare “come in un videogioco“. Come abbiamo visto, i pareri della scienza dimostrano che non ci sono correlazioni tra violenza virtuale e violenza reale. Ci sono invece armi alle quali è fin troppo facile accedere che, affiancate ai numeri del business videoludico nei diversi Paesi, dimostrano che negli Stati Uniti non si ammazza di più perché si gioca di più: si ammazza di più, perché individui che avrebbero bisogno di assistenza specializzata per le loro problematiche hanno la possibilità di imbracciare senza troppi intoppi armamenti che consentono in pochi secondi di causare una strage. Di versare sangue che di virtuale non ha niente – davvero niente.
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