Red Dead Redemption | La dura legge del prequel
Una riflessione sul passato e il presente di Red Dead Redemption, dall’esordio alle strane “difficoltà” del rendere il secondo capitolo un prequel.
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a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Red Dead Redemption non ha bisogno di presentazioni: uscito nel 2010 come tributo al western storico e cinematografico, è stata un’opera graffiante, indimenticabile ma incredibilmente umana. Contro ogni speranza il sequel è arrivato dopo quasi dieci anni, con quel Red Dead Redemption II campione di incassi e ben più vicino alla perfezione di quanto fosse lecito aspettarsi. Ma che, narrativamente parlando, si è trovato anche in una delle situazioni peggiori possibili: vediamo di indagarla in questo speciale, con l’avviso che vi potrebbero essere SPOILER su entrambi gli episodi di Red Dead Redemption.
Ero prima di te, ma non c’ero
Poco tempo fa aveva iniziato a circolare su internet la diceria che Rockstar avesse piani sia per un DLC single player di Red Dead Redemption II che per una riproposizione del Red Dead Redemption originale, uscito su precedente generazione nel 2010 e attualmente recuperabile su PlayStation Now o tramite la retrocompatibilità di Xbox One. I dettagli più succulenti erano proprio su quest’ultimo: non sarebbe stato “solamente” un remake, ma l’avventura di John Marston sarebbe stata parzialmente reimmaginata per collegarla meglio a quella di Arthur Morgan. Tutte queste voci sono state poi smentite da Rockstar, tra l’altro con una velocità quasi sospetta. Ma pure se nell’immediato futuro non vedremo quindi niente di nuovo nel West di Rockstar, queste voci hanno effettivamente portato alla luce l’unico vero punto controverso di Red Dead Redemption II: la sua natura di prequel.
Red Dead Redemption II si ambienta infatti prima dell’originale, quando la banda di Dutch van der Linde era ancora unita, e di cui Arthur Morgan è componente di spicco e uno dei più anziani. Oltre a lui ci sono Micah Bell, il pellerossa dal cuore d’oro Charles Smith, l’ostaggio poi bandita Sadie Adler e il saggio Hosea Matthews. Tutti personaggi importantissimi per la storia: Hosea è uno dei fondatori della banda, Arthur si comporta da mentore e fratello maggiore per John, Charles lo aiuterà a costruirsi una nuova vita insieme allo Zio. Eppure, nonostante la loro importanza capitale nella storia del gioco, nel primo capitolo non vengono mai nominati. Non succede perché nel 2010 non esistevano ancora nella mente di Rockstar: è tutto qui il grande, insuperabile difetto del prequel.
È già scritto, John
Visto che lo “status quo” è già deciso e noto al pubblico, il destino di tutti questi personaggi è sostanzialmente già segnato. Dovranno tutti uscire di scena, sparire in quel grigio alone di un sogno che diventa cenere. E così accade: Hosea viene ucciso durante l’ennesimo inutile tentativo di colpo grosso, il traditore Micah Bell muore per mano di un Dutch disgustato dal suo insano attaccamento al denaro. Lo Zio stesso si prolungherà solo un po’ l’agonia. E Arthur stesso, se lo si fa agire rettamente, in un commovente passaggio di consegne darà il suo cappello a John dicendogli di lasciarsi alle spalle una vita di soprusi. Addirittura la sua tubercolosi potrebbe essere stata ispirata dalla ballata Far Away del primo gioco, quando dice pushing forward through the night, aching chest and blurry sight (“spingendomi in avanti nella notte, col petto che fa male e la vista che si annebbia”). Quelli descritti in tale verso sono appunto i sintomi di Arthur quando si rende conto di essere malato. A salvarsi saranno Charles e l’indistruttibile Sadie, che potranno solo lasciarsi alle spalle quella vita.
Una volta ripresisi dall’emozione appare palese come, con l’eccezione di Dutch, i componenti della banda a cui John ha dato la caccia nel precedente episodio (Bill Williamson e Javier Escuella) sono infatti di sorprendente poco peso. Lo stesso John, per quanto presente anche lui da bambino, è “di poco peso” insieme alla moglie Abigail. Il figlio della coppia Jack (che abbiamo visto adolescente in RDR e che qui invece vediamo bambino) considera Arthur quasi come un secondo padre. E allo stesso modo sappiamo che non è qualcosa di casuale: il relegare a ruoli “minori” dei personaggi che abbiamo visto “maggiori” dona più rilievo a ciò che sarà, perché dice implicitamente che alla fine a cambiare tutto sono i piccoli e non i grandi.
Un bluff a fin di bene
Prima della pubblicazione di Red Dead Redemption II molti avevano pensato che ce l’avrebbero fatta vedere quando era ancora a pieno regime, tra una rapina in banca e una vita all’accampamento. Così non è stato, accampamento a parte. La banda compie crimini perché pare non riuscire a escogitare niente di differente dalla predazione, da vivere arraffando la ricchezza degli altri. Le attività di “recupero crediti” che si possono intraprendere per conto dello strozzino Leopold Strauss paiono veramente costruite per trasmettere un disagio strisciante.
La banda di Dutch appare unita da un’ideale differente da quella dello stereotipo dei “banditi”. L’illecito continua ad accumularsi, ma il contesto è drammaturgicamente costruito per dare un sentore di vera e propria comunità. Eppure con Arthur vediamo quando sia palese come alle fondamenta sia un’unione precaria e disagiata, fatta di spostamenti e un atteggiamento saccheggiatorio. E pure se le operazioni e lavori vanno piuttosto a buon fine, ogni volta c’è una perdita, grande o piccola che sia. La morte di Hosea è la più sconvolgente, ma anche prima la catena di uccisioni e vendette non fa che spingere nella mente del giocatore presagi distruttivi. Dutch stesso esibisce un’ambiguità inquietante, dal suo sincero preoccuparsi che la banda stia bene alla sua inutile spietatezza, pure con chi dimostra un po’ di buona volontà nei suoi confronti.
E pure se prequel, Rockstar è riuscita a fare qualcosa di narrativamente incredibile: ha inserito finali multipli. Pur se la componente onore-infamia è meno preponderante rispetto al precedente, è comunque possibile fare in modo che la storia di Arthur si concluda in diversi modi, anche se accomunati da un passaggio di testimone. Perché ciò che ha sempre distinto Red Dead Redemption da qualunque altro videogioco (anche dai fratelli come GTA) è che mostra le conseguenze, la punizione dei protagonisti per il loro comportamento scellerato. Forse non è altro che l’ennesima sottesa verità: chi fa del male agli altri spesso finisce con l’autodistruggersi.
Il giorno in cui il West morì
Ma a vederla ancor più a fondo, c’è un motivo per cui è stata fatta questa scelta. La storia di John Marston era un cerchio chiuso, compiuto e convincente, talmente tanto che i fan non hanno mai smesso di anelare a una nuova avventura nel west di Rockstar. Ma proprio perché l’avevano giocato il finale del primo Red Dead Redemption dava una conclusione così netta che era impossibile svilupparla oltre. Anche senza travalicare nello spoiler, la scelta originaria di optare per i primissimi anni 1910 dipingeva un western ormai caduto, lentamente divorato dalla “civiltà”.
A modo suo però il finale del seguito cerca di impostare una qualche risoluzione “decente” per la propria storia. A fronte di Marston che è riuscito con fatica a ricostruirsi una vita nell’epilogo, il suo istinto di fuorilegge si risveglia improvvisamente nel finale, quando parte insieme a Sadie che è venuta a sapere la posizione di Micah. L’ultimo confronto si risolve in un modo apparentemente positivo: se la fuga di John è stato il modo per non rendere vano il sacrificio di Arthur, la morte di Micah serve a mettere un punto anche sull’argomento vendetta. Nel corso dei lunghissimi titoli di coda assistiamo a scene sparse del futuro dei personaggi, tra cui finalmente il matrimonio tra John e Abigail e i festeggiamenti. Dutch ha rinunciato al bottino di Blackwater, e pure se John lo utilizzerà per qualcosa di buono (saldare il debito col ranch), ancora una volta Rockstar è lì a ricordarci che il futuro è già scritto: Edgar Ross e il suo assistente Fordham stanno già indagando su John. L’ex fuorilegge starà tranquillo per un po’, quel tanto che basta a dargli la falsa certezza di potersi rifare una vita. E nel momento giusto entreranno in azione condannando anche lui a un’ulteriore espiazione. In tal senso il monologo finale che Dutch fa a John prima di buttarsi dalla scogliera è forse uno dei cardini su cui è stato scritto RDR2, perché è una scena che guardandola dopo essere stati Arthur Morgan cresce ancor più di significato. Perché alla fine quello che pare contare per certa gente non è agire eticamente, ma solo avere una scusa per giustificare il proprio stipendio.
La natura di prequel di Red Dead Redemption II è sia la sua benedizione che la sua maledizione, perché introduce dei personaggi che rende importantissimi ma che poi non verranno neanche ricordati o nominati. Un prezzo da pagare per una storia che, pur non potendo modificare l’ovvio status quo di partenza dell’avventura originale di John Marston, deve essere in grado di parlare del West in una maniera differente, non mitizzata ma neppure troppo parodistica. Arthur Morgan assume quindi i tratti del custode invisibile, che si redime dove non pareva possibile e darà una seconda possibilità a John. E pure se già sappiamo il suo gramo destino, non metteremo mai in discussione la sincerità del suo impegno.
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