Poco più di due anni fa usciva Red Dead Redemption II. Dopo aver pubblicato nel 2013 quel Grand Theft Auto V capace di frantumare ogni record di vendite, ricavi e marketing (tanto che uscirà anche su nona generazione), Rockstar tornava al suo West decadente, per raccontare nuovamente la storia di una famiglia.
Eppure, Red Dead Redemption II cela dietro il suo mondo virtuale aperto ancora più significati e storie. Storie anche capaci di uscire dallo schermo e avere a che fare con realtà, dal game design a inaspettati testamenti. Oggi ne indagheremo qualcuno.
Le famiglie non vanno e vengono
Rockstar ha più volte detto che, da un punto di vista narrativo, ha costruito i due Red Dead Redemption in maniera complementare. Dove il primo parla di una famiglia che ricerca e riottiene la propria unità, il secondo invece assume i tratti tragici della famiglia che si sfalda. Un destino che per certi versi è inevitabile, e non solo per via del fatto che Red Dead Redemption II è un prequel – ma anche perché quello presentato dalla storia di Arthur Morgan è un ideale di famiglia volutamente perverso e pervertito.
Perché sotto la famiglia c’è una banda, quindi tecnicamente un’associazione a delinquere. Un contesto che è appunto malato all’origine, non importa che si cerchi di renderlo il più “pulito” possibile. E in questo senso, la banda di Dutch van der Linde prova in tutti i modi a presentarsi con una sua paradossale “etica”, che cerca l’ideale della comunità.
Nessuno ha compiti specifici, ma sono tutti invitati a fare il possibile per contribuire al sostentamento di tutti. A pensare oltre alla sopravvivenza quotidiana c’è proprio Dutch, che promette che presto faranno un ultimo grande colpo che metterà a posto tutti per sempre.
Questo sogno, dapprima realistico e paradossalmente raggiungibile, diviene con il corso di Red Dead Redemption II prima un’illusione che Dutch somministra ai suoi sottoposti per impedire che il suo mini-sistema crolli, poi la causa della sua rovina personale.
Dutch finisce col credere alle sue stesse bugie, cosa che lo porterà alle ciniche realizzazioni con cui accoglierà John Marston qualche anno dopo. La parola "Redemption" nei titoli di entrambi i videogiochi Rockstar sta proprio nello sfuggire a queste manipolazioni.
Red Dead Redemption II: la banda è corrotta di natura
Pure con l’apparenza della “mini-società” che vive da civile ma non nel modo in cui il “sistema” della civiltà normale vuole, l’attività della banda rimane orribilmente predatoria. I crimini si accumulano, dalle (canoniche?) rapine in banca all’ingannare due famiglie rivali per trarne reciproco vantaggio. I capitoli della storia di Red Dead Redemption II sono scanditi proprio da questo: la banda si sposta in una nuova regione e vi rimane finché l’accumularsi dei crimini non la costringe a cambiare aria.
Eppure, anche in contesti così brutali c’è spazio per gesti e calore umano. Considerazioni assurde, ma ci si dimentica che alla fine siamo tutti esseri umani e quindi certe cose non cambiano mai, non solo quelle negative. Hosea che prepara una medicina con pestello e mortaio che poi regala ad Arthur, il darsi il reciproco buongiorno al campo, i battibecchi tra Dutch e la sua compagna, le donne che fingono che il villaggio di Valentine sia Parigi e cantano sul retro del carro.
Lo stesso Arthur, nel ricongiungere due ragazzi innamorati e rispolverando un amore perduto ma mai dimenticato, insegue quello spettro di normalità che si allontana sempre di più. Ma è proprio aiutando la triste e dolce Mary Linton che il nostro protagonista inizia a comprendere cosa sia l’agire disinteressato.
Ma più di tutti, il momento più grande sta nel piccolo Jack Marston, il figlio di John. Nella missione in cui bisogna portarlo a pescare c’è l’affetto spontaneo dell’infanzia, che lo spinge a considerare Arthur come una sorta di “zio acquisito”. Del resto se si chiede a un bambino che cosa sia “casa”, lui risponderà che sono i genitori, i nonni, gli zii. In questa breve parentesi di serenità (bruscamente interrotta) Arthur trova le prime idee del liberarsi del proprio passato attraverso l’educare un figlio a non fare i suoi stessi errori. Il titolo stesso della missione, Un pescatore di uomini, è una citazione biblica:
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli: Simone, detto Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano in mare una rete, poiché erano pescatori. E disse loro: «Venite, dietro a me e vi farò pescatori di uomini». Essi, lasciate subito le reti, lo seguirono.(Matteo 4:18-20)
Come tutte le cose di Rockstar, non è una citazione fatta solo per il gusto di farla. Anzi, è un collegamento profondo con il percorso di pentimento e auto-realizzazione di Arthur e John. Del resto proprio Gesù non cercava i grandi o ricchi, ma i poveri, gli ultimi, gli emarginati. Dava loro la possibilità di riscattarsi: appunto, di ottenere redenzione. Tanto che anche sulla croce permise al ladrone buono Tito/Disma (ne abbiamo parlato nell’approfondimento su Uncharted 4) di seguirlo in Paradiso.
Grande lettore, Jack Marston è il simbolo triste di un futuro che non riesce ad arrivare. Dove un GTA qualunque si fermerebbe all’apice e alla prosperità, mostrando i protagonisti di ogni capitolo che diventano criminali di successo, Red Dead Redemption mostra quella parte che non si vuole vedere di una simile condotta: ovvero che tale prosperità durerà poco e tutto il male fatto per raggiungerla andrà pagato caro. Tanto dai responsabili quanto da coloro che non c’entrano niente.
La decostruzione del West
Tanto nel 2010 quanto nel 2018, Red Dead Redemption è costruito attorno a un altro grosso tema: la decostruzione. Sappiamo tutti che i mondi Rockstar estremizzano le società umane per evidenziare quanto siano malate, ma con il West la cosa ha assunto tratti assai più storiografici. L’intenzione generale non è difficile da cogliere: Rockstar ha voluto accumulare in un’unica lunga trama tutto quello che, tanto nella letteratura quanto al cinema e in televisione, era il “western”.
Ma basta soffermarsi qualche minuto in più per capire come questa definizione sia tanto giusta quanto superficiale. Perché, dopo l’accumulo, Rockstar va oltre: lo decostruisce, o meglio lo distrugge silenziosamente e senza violenza. Con John Marston prima e Arthur Morgan poi, Red Dead Redemption silenziosamente smonta il mito del West un mattone alla volta. E a volte neanche si sforza a nasconderlo troppo: una delle missioni iniziali di Red Dead Redemption II si intitola “verso Est”.
Il selvaggio West fu comunque un fenomeno transitorio: anzi, quasi per uno scherzo della sorte, il periodo in cui diventò di gran moda fu anche quello in cui venne civilizzato. In poco più di una generazione la marea degli insediamenti dei pionieri bianchi invase tutta questa vastissima regione. Prima della fine dell’Ottocento la maggior parte dei territori del West erano stati raggiunti dal fischio delle locomotive; gli indiani delle pianure erano stati quasi annientati e i loro territori di caccia erano diventati dominio di minatori, cow-boy, contadini; con la divisione del West in stati o territori venne completata anche l’organizzazione politica degli Stati Uniti.
(Maldwyn A. Jones, ed. 2001, Storia degli Stati Uniti d’America, Tascabili Bompiani, p. 248)
Lo storico Maldwyn Jones scriveva queste righe nel 1983, ma risuonano con insistenza anche nella storia e nel contesto di Red Dead Redemption II. Del resto è fin dal 2010 che Rockstar ci fa vagare in un West al tramonto, in cui le automobili stanno prendendo il posto dei cavalli e dove chi porta la guerra fa l’ipocrita travestendola da civiltà. Il mito del Lontano Ovest (Far West), visto come una grande opportunità per attraversare e civilizzare il continente, assume i tratti del saccheggio e dell’oppressione. Alla luce di tutto ciò, la possibilità che il West potrebbe non essere mai veramente esistito diventa quasi un paradossale conforto.
Il secondo grande mito: il ragazzo delle mucche
Se quindi West potrebbe essere solo un racconto mitologico con i revolver al posto delle spade, anche il suo eroe va demolito. Il cowboy in Red Dead Redemption II è solo un nome che serve a coprire le intenzioni del pistolero e del bandito. È nuovamente lo storico Maldwyn Jones a parlarcene, con un ritratto davvero impietoso.
Le lunghe marce delle mandrie su piste polverose possono sembrare avventurosamente romantiche, ma nella vita dei cow-boy c’erano soprattutto disagi, pericoli, monotonia. Per una paga di 25-30 dollari al mese il cow-boy doveva rimanere in sella per diciotto ore al giorno, cercando di spingere avanti, senza che si disperdessero, centinaia di capi di bestiame che procedevano in disordine. In due mesi di viaggio estenuante si spostava in una nube di polvere, tra un coro di muggiti. Lungo la pista doveva affrontare una serie di avversità naturali e di pericoli, come inondazioni, tempeste di vento, fughe di animali impazziti, razziatori, indiani ecc., che potevano costargli non solo la paga ma anche la vita. Non c’è da meravigliarsi se alla fine di un simile viaggio egli sperperava gran parte del suo guadagno in pochi giorni, abbandonandosi ai discutibili “piaceri” delle città sorte proprio per accoglierlo.
(Maldwyn A. Jones, op. cit., p. 251)
Date le condizioni usuranti e il basso rango lavorativo e culturale, non c’è da stupirsi che molti cowboy abbiano trovato più allettante il banditismo al marcire mesi e mesi per quattro soldi. Come altre volte, non si tratta di giustificare la pratica del crimine, bensì di capirla in funzione del contesto storico e culturale.
La vita nel West era dura in ogni caso: pure con tutte le sue conseguenze morali e penali, il crimine quantomeno dava la speranza di togliersi la preoccupazione dei soldi e dei disagi di una vita in sella. Ma come al solito, quello che non viene detto del crimine è appunto c’è il rischio concreto di non liberarsene mai.
La sindrome di Rockstar
“C’è un prima e un dopo Red Dead Redemption II”: questa frase ha segnato il gioco ed è finita sulla bocca di tutti, ma davvero in pochi hanno provato a capirne l’autentico significato. Facciamo qui un tentativo, che però deve partire dall’esatto opposto: Red Dead Redemption II, da un punto di vista strutturale, è terribilmente vecchio. È la perversione di un neonato con la mente e l’esperienza di un novantenne. E il “peggio” è che non è neanche colpa sua: è qualcosa di insito nei suoi stessi “genitori”. Pochi hanno il coraggio di ammetterlo ad alta voce, ma ormai sono quasi vent’anni che Rockstar fa sempre lo stesso videogioco.
Non fraintendete: le sceneggiature dei videogiochi Rockstar sono andate migliorando sempre di più nel corso degli anni. Hanno inseguito e ipertrofizzato la logica del cinema, proponendo storie lunghissime, personaggi sfaccettati e sviluppando una caustica satira che è essenziale per rendere sopportabile raccontare (e veder raccontati) certi mondi, pratiche e persone. Ma allo stesso tempo, le tappe della sua narrazione non cambiano mai.
C’è un punto di partenza dove il protagonista è in difficoltà o dove perde tutto e gli tocca ricominciare da capo, un’ambientazione aperta e dei compiti (più o meno criminosi) da svolgere per conto di diversi committenti. Le prime missioni sono un normale tutorial mascherato che illustra le possibili attività sia secondarie che ancillari. E quando il giocatore è riuscito a ottenere una qualche stabilità (tra oggetti, potenziamenti e denaro) ecco che l’incarico successivo manda all’aria l’equilibrio e lo costringe a ripartire, seppur stavolta non del tutto da zero.
Tale stravolgimento avviene un numero di volte variabile nel corso della storia, ma ogni volta la perdita di risorse per il giocatore è sempre meno preoccupante. Questo finché appunto il cerchio non si chiude e dopo aver finito la trama principale ci si ritrova all’apice di tutto e con un’ambientazione ormai divenuta un enorme campo da gioco.
Potremmo chiamarlo il “paradosso della missione”. Rockstar Games è sempre più concentrata sullo scrivere e recitare la migliore sceneggiatura possibile, e ormai gli riesce sempre di più. Ma è qualcosa che ogni volta paga sempre più caro, perché sull’altare della trama deve ogni volta offrire in sacrificio la propria struttura di gioco.
E, volendo, la “rottura” in questione avviene proprio con Red Dead Redemption II, con missioni puramente narrative che trovano nei cavilli l’unica scusa per “migliorarsi”. Paradossi da “walk simulator” da completare entro un certo numero di minuti e dove i filmati vanno saltati perché non fanno fermare il timer, pratiche e artifici di fatto anti-narrativi.
Un tocco che distrugge, un altro che crea
Guarda caso, gli unici due videogiochi Rockstar che abbiano provato a scollarsi da questo rituale lungo due decenni sono stati proprio i due Red Dead Redemption. La scappatoia che hanno trovato è sia narrativa che strutturale, che come abbiamo visto sono qui strettamente legate. La narrativa dei Red Dead Redemption ci mostra “ciò che non vogliamo vedere”, quindi gli effetti distruttivi del crimine e le loro conseguenze su chi lo subisce e su chi lo pratica. E dove appunto si arriva a realizzare la consapevolezza di una redenzione pagata cara.
La loro struttura toglie le missioni secondarie e si concentra sugli eventi casuali e sull’atmosfera. Specialmente l’avventura di Arthur sfrutta il game design per creare la convincente illusione di realtà. Ma il motivo per cui Red Dead Redemption II va “oltre” è perché viola quelle che oggi sono divenute delle regole non scritte dell’intrattenimento videoludico: l’immediatezza, la sfida, la soddisfazione, il tutorial limitato alle prime ore.
Invece qui ogni volta bisogna prendersi cura del proprio cavallo, percorrere lunghe strade, fare attenzione a quello che si fa. Un game design subdolo dove la condotta disonorevole è possibile ma disincentivata, perché appunto parliamo di una redenzione.
Un “Horse Simulator” che serve a far capire che i Red Dead Redemption fanno solo finta di vivere di colt, sparatorie e belle donne. Piuttosto che la destinazione vogliono evidenziare il viaggio, facendo nutrire il giocatore di scenografie enormi e silenziose, spezzate da pochi strumenti e canzoni cantate. Chiunque l’abbia giocato (e se non l’avete fatto, ve lo consigliamo con tutto il cuore) non potrà mai dimenticare la malinconia orgogliosa del West percorso da John Marston.
Red Dead Redemption con un tocco della mano sinistra distrugge Grand Theft Auto, e con un tocco della destra crea un’epopea personale, profondamente nuova nel suo irreale realismo. Buttano all’aria vent’anni di lavoro sui mondi aperti e allo stesso tempo creano un esempio di ambientazione davvero “viva”, capace di reagire alle sollecitazioni del giocatore in un modo così credibile da far dimenticare che in realtà abbiamo a che fare con quelli che sono solo (si fa per dire) ammassi di pixel creati in funzione dell’agire del giocatore stesso.
Red Dead Redemption II e quell’addio
Ma all’avventura di Arthur è correlata anche la realtà, e la cosa sia bella che brutta era che non potevamo saperlo. Red Dead Redemption II è stato infatti l’ultimo videogioco Rockstar ad avere alla sceneggiatura Dan Houser, fondatore assieme al fratello Sam proprio della Rockstar Games. Senza fare paragoni impropri, anche Dan Houser è stato un “pescatore di uomini”.
Con Sam ha infatti unito migliaia di persone dietro a un sogno comune. Un sogno per certi versi “strano”, ma che ha spinto tutti a dare il meglio. Per stessa ammissione dei fratelli Houser, Rockstar Games fa successo perché crea i videogiochi che vorrebbero acquistare e videogiocare. Un sogno che in qualche modo prescindeva dal business per ricercare la passione.
Inevitabile, a questo punto, pensare a quanto questa coppia di fratelli sia stata in grado di far progredire il medium videoludico, soprattutto grazie alla passione di Dan per la narrativa, direttamente mutuata dalla cinematografia. Ma basta anche uscire dall’idealizzazione perché un’altra idea più “pericolosa” si insinui. E se il “difetto” di Rockstar che da vent’anni fa sempre lo stesso videogioco fosse proprio a “causa” dei fratelli Houser?
Di certo i due hanno avuto intuizioni geniali e grandi ambizioni realizzate, così come altre loro persone chiave come il celeberrimo produttore e designer Leslie Benzies. Ma è anche palese che queste intuizioni non sono mai veramente “cresciute”, a parte poche eccezioni.
Così come diventa facile pensare che sia stata proprio la consapevolezza del non “riuscire a fare niente di nuovo” ad aver portato, in anni recenti, ad abbandoni eccellenti. Leslie Benzies (già designer anche del primo Red Dead Redemption) ha lasciato nel 2016, e da lì molte altre persone chiave (in ogni reparto) hanno continuato a lasciare. Il culmine di tutto ciò si è avuto a marzo di quest’anno, quando sono state ufficializzate le dimissioni dello stesso Dan Houser.
Ancora non possiamo sapere se, adesso che pure il suo stesso creatore si è ritirato, Rockstar riuscirà a continuare a creare così come ha sempre fatto. Ma è innegabile il rischio che insieme a Dan se ne sia andato anche il “sogno” (o lo “spirito”) che con tutti i suoi limiti aveva fino a quel momento tenuto insieme Rockstar e il suo pubblico. Ma è altrettanto innegabile che, nel 2018, Red Dead Redemption II sia stato l’addio di Houser che non potevamo sapere né tantomeno capire.
Conclusione: la cavalcata infinita
Se il primo Red Dead Redemption era quello che viene fuori quando hai qualcosa da dire e lo vuoi così tanto da infischiartene dei rischi che potresti correre facendolo, Red Dead Redemption II è un percorso silenzioso che mostra la morte di una famiglia disfunzionale. Nessuno dei due tratta tematiche universali: piuttosto sono un percorso di auto-realizzazione dei loro protagonisti e del prezzo che pagheranno.
Tutto vero, ma sono anche il primo vero tentativo, dentro e fuori da Rockstar Games, di fare un passo avanti nella videoludica, rendendo “vivo” un suo personale paradosso. Una trama grandiosa con una sceneggiatura altrettanto densa che però solo alla fine fa capire come in realtà la vera attrattiva non fosse quella, bensì il fascino di un’ambientazione silente fatta di grandi orizzonti. Una malinconica realizzazione dell’insensatezza del sistema banda e di un West che non ha avuto neanche il tempo di esistere. Non ci resta che montare a cavallo e tornare a percorrerlo.
Se volete mettervi in gioco con i kolossal recenti di Rockstar Games, ecco qui sia l'ormai famosissimo Grand Theft Auto V che Red Dead Redemption II!