Red Dead Redemption: Dieci anni di West - Speciale
Una riflessione su Red Dead Redemption, capolavoro western di Rockstar, a dieci anni dalla sua pubblicazione originale.
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a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Attenzione: l’articolo contiene spoiler sulla trama di Red Dead Redemption.
A maggio del 2010 usciva Red Dead Redemption, una sperimentazione inedita e inaspettata da parte di una casa di sviluppo da tempo impegnata in tutt’altro genere. Acclamato da pubblico e critica, il western secondo Rockstar si è rivelato uno dei videogiochi più belli della sua generazione, un equilibrio perfetto tra rievocazione, tributo e graffiante parodia. Ma dove il pubblico ha atteso (non a torto) un sequel per otto lunghi anni, in queste righe vogliamo indagare i temi, i messaggi e le scenografie di questa avventura ormai di fatto immortale.
Red Dead Redemption, perché i cowboy non mollano
La trama di Red Dead Redemption se vogliamo ormai è arcinota, quindi neanche stavolta conviene parlarne molto. L’ex fuorilegge pentito John Marston, dietro ricatto di Edgar Ross (membro del BOI, l’agenzia governativa Bureau Of Investigation) che gli ha preso in ostaggio la famiglia, deve rintracciare ed assicurare alla giustizia gli ultimi tre sopravvissuti della banda di Dutch van der Linde, gruppo di fuorilegge di cui faceva parte lui stesso.
Dove Arthur Morgan nel prequel si sarebbe concentrato sulla calibrazione di meccaniche per ottenere la convincente illusione di realtà, la storia di John Marston è più “semplice”, obbediente com’è a un cammino di redenzione assai più esplicito. Marston ha infatti molti tratti in comune con i tipici protagonisti dei videogiochi Rockstar (origini disagiate, vite di espedienti, ambienti moralmente tossici, famiglia problematica) ma non lo vediamo nella sua ascesa, ma semplicemente nella sua ricerca di normalità.
È un uomo profondamente etico, nonché fedele tanto alle promesse quanto agli impegni presi. Una fedeltà anche coniugale, esplicitata nel suo rapporto con Bonnie MacFarlane. Con la tagliente ma femminile ranchera non andrà mai oltre la rispettosa gratitudine per averlo salvato e curato, pur chiaramente avendo intuito il debole che lei ha nei suoi confronti.
Sarebbe però sbagliato ricondurre Bonnie MacFarlane solo alla classica “maschiaccio per contesto”; lei è anche uno dei pochi personaggi positivi con cui John ha a che fare, invischiato com’è in folli lavori e collaborazioni con gente affatto raccomandabile. Il repertorio di Red Dead Redemption annovera tutti gli stereotipi dal western, dai venditori truffaldini di lozioni “miracolose” ai colonnelli messicani traditori, dai dottori tossici ai nativi ormai rassegnati alla morte culturale.
Rockstar dipinge un West morente, che sta cadendo sotto ai colpi di una modernità che pare imposta solo “perché sì”. Qualcosa che si concretizza anche in perversioni, con il tombarolo Seth che, alla ricerca di una fantomatica mappa (chiara citazione al Signore degli Anelli) è più a suo agio con i morti che con i vivi. John ha gli “anticorpi” per ciascuno di loro, ma l’aver a che fare con tali grettezze serve solo a rafforzarne la morale.
Questo forse perché Red Dead Redemption appartiene a quel breve periodo (appunto tra il 2010 e il 2011) in cui Rockstar tentava di mostrare anche “l’altra parte della barricata”, quindi coloro che si battono per l’ordine (fosse anche per banale antieroismo). Tanto che, pure se una condotta da “desperado” è possibile, è molto poco incentivata dal sistema, che riserva le ricompense maggiori alla condotta onorevole. Del resto l’anno successivo avrebbe visto la luce anche il chiacchierato L.A. Noire.
Bring me back to No-Place
Stando alla stessa Rockstar, nella progettazione dei loro prodotti prima ci si occupa di definire l’ambientazione e solo dopo delle storie che si intende ambientarvi. Ciò è particolarmente vero per Grand Theft Auto V, a cui risale effettivamente tale dichiarazione, ma non si tratta di qualcosa da limitante. Piuttosto questo modo di pensare produce un effetto collaterale bizzarro ma efficace: il non-luogo.
Questo termine è stato introdotto nel 1992 da Marc Augé, antropologo francese che con così definì tutti quei posti dove si passa in modo impersonale, transitorio e omologato, e su cui (nel bene e nel male e in maniera anche un po’ paradossale) si finisce sempre con lo spendere molto tempo pro-capite. Fuori dalla definizione enciclopedica e volendone semplificare il concetto, il non-luogo è un posto che sta “ovunque e da nessuna parte”, e in ambito narrativo assume spesso i tratti di “ambientazione che racchiude in sé tutti i tratti e le caratteristiche di un determinato genere di intrattenimento”.
Red Dead Redemption è il videogioco che cerca di “alzare il tiro”, pur non rinnegando la propria natura di nazional-popolare. Lo ha fatto, dieci anni fa, ri-raccontando prima di tutto una storia auto-conclusiva, in una maniera genuina e che spesso sfocia nel metavideoludico. È uno di quei classici che vengono fuori quando gli autori hanno qualcosa da dire, e tengono così tanto a dirla da infischiarsene anche del rischio di non guadagnarci.
Alla fine, pure con tutta la grande quantità di parole, idee e speculazioni che il capolavoro western di Rockstar ha seminato in dieci anni di vita, la redenzione di John Marston è soprattutto una lezione. Un insegnamento drammatico somministrato come la più amara delle medicine: il fuorilegge non invecchia, letteralmente.
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