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Pro
- Ottime interpretazioni del cast principale.
- Personaggi inediti ben scritti e funzionali.
- Regia di altissimo livello.
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Contro
- Ritmo spesso troppo dilatato.
- Adattamento solo parziale della storia originale.
Il Verdetto di SpazioGames
Il coraggio di prendersi il proprio tempo è apprezzabile, ma ha smorzato l’impatto narrativo che il videogioco aveva scolpito con brutalità chirurgica. Il materiale è forte, la messa in scena pure: ora resta da capire se, nella seconda metà (e quindi nella terza stagione), avranno la stessa forza nel colpire dritti al cuore.
Informazioni sul prodotto

- Sviluppatore: HBO
- Produttore: HBO/PlayStation Productions
- Distributore: Sky
- Data di uscita: 16 gennaio 2023 (S1) - 14 aprile 2025 (S2)
Nel 2023, quando HBO ha trasformato The Last of Us da videogioco a serie TV, ci siamo tutti chiesti se sarebbe stata la solita minestra riscaldata o qualcosa di più.
La risposta l’abbiamo avuta nel giro di un paio d’ore: era un capolavoro, punto (come vi spiegai nella mia recensione originale). Un miracolo di adattamento, un racconto di umanità spezzata che ha saputo parlare a chi aveva giocato e a chi non aveva mai preso in mano un controller.
Ecco perché The Last of Us Stagione 2 portava con sé un peso enorme. Doveva confermare, ma anche osare. Doveva raccontare una storia già scritta, ma riuscire a farlo con una voce nuova.
E, per certi versi, ci riesce. Ma non senza spigoli. Vi spiego perché.
Bentornati a Jackson
Ho visto tutti e sette gli episodi, uno dietro l’altro. E mi è sembrato quasi di vivere una terapia d’urto. Ogni episodio è stato un pugno allo stomaco, ma anche un bisturi che affonda nei nervi.
La storia riprende circa cinque anni dopo gli eventi della prima stagione. Joel (Pedro Pascal) ed Ellie (Bella Ramsey) vivono a Jackson, Wyoming, ma il loro rapporto è teso a causa delle bugie di Joel riguardo al passato.
Ellie, ora diciannovenne, cerca la sua indipendenza e sviluppa una relazione con la sua amica Dina (Isabela Merced).
Nel frattempo, entra in scena Abby Anderson (Kaitlyn Dever), una ragazza determinata a vendicare la morte di suo padre, ucciso da Joel. La sua presenza innescherà una spirale di vendetta, con una serie di eventi destinata a cambiare per sempre il corpo - e lo spirito - dei protagonisti.
E no, non vi rivelerò nulla per non rovinarvi la sorpresa, specie se non avete giocato il gioco originale (che trovate su Amazon).
La desolazione non è mai estetizzata, è sporca, cruda, viva. Ma il punto focale, ancora una volta, sono i personaggi. E gli attori che li incarnano.
Bella Ramsey, dopo una prima stagione in cui molti si sono fermati al «ma non assomiglia a Ellie!», ora si prende la scena con una sicurezza spaventosa. Ellie è cresciuta, è diventata più dura, più cupa, più arrabbiata. E Ramsey riesce a catturare ogni sfumatura con una precisione quasi inquietante.
C’è un dolore costante nei suoi occhi, una rabbia che bolle sotto la superficie e che esplode nei momenti più inaspettati. Non è una performance, è possessione demoniaca – nel senso migliore possibile.
Pedro Pascal torna nei panni di Joel in una forma più vulnerabile, più stanca, eppure ancora capace di dominare la scena con pochi sguardi, pochi gesti. Non è più il protagonista assoluto – e chi ha giocato The Last of Us Part II sa bene perché – ma ogni volta che appare, il mondo intorno si ferma.
Il suo Joel è un uomo logorato dalle scelte, dai silenzi, dal peso di ciò che ha fatto. E Pascal riesce a farcelo sentire addosso come un masso sul petto.
Ma è Kaitlyn Dever, nei panni di Abby, la vera mina vagante di questa stagione. Personaggio odiato, divisivo, controverso già nel gioco, e che qui si presenta con un’umanità sorprendente.
Dever evita saggiamente di imitare l’Abby del videogioco (anche dal punto di vista prettamente fisico), preferendo una rilettura più intima, più trattenuta, che lascia spazio a momenti di autentica empatia. È difficile odiare la sua Abby, ed è esattamente questo il punto. Il dualismo morale, il ribaltamento dei punti di vista, tutto viene portato in scena con intelligenza e coraggio.
Attorno a loro, una schiera di volti nuovi e vecchi che reggono il peso emotivo della storia senza sbavature. Storm Reid, Gabriel Luna, Isabela Merced, ognuno trova il proprio spazio in un racconto corale che non fa sconti a nessuno.
Tutti, in un modo o nell’altro, sono spezzati, ricuciti male, segnati da un passato che non smette mai di sanguinare.
La serie riesce a distinguersi introducendo anche personaggi inediti, capaci di arricchire il contesto emotivo e sociale della narrazione. Allo stesso tempo, permette di spiegare alcune dinamiche appena accennate nel videogioco, come l’organizzazione politica e sociale di Jackson, che qui acquisisce maggiore profondità e realismo.
Eppure, nonostante tutto questo talento, nonostante la qualità indiscutibile del prodotto, resta quella sensazione sottile di mancanza. Di qualcosa che nella trasposizione si è smarrito.
Nel passaggio dal medium videoludico a quello televisivo, The Last of Us Stagione 2 perde parte della sua potenza immersiva. Non è solo una questione di interattività – che chiaramente non può esserci – ma di gestione del tempo, di ritmo narrativo, di costruzione dell’empatia.
Il gioco ti costringeva a vivere le scelte, a camminarci dentro, a soffrire per ogni singola azione. Qui, invece, tutto è più guidato, più esplicito. La serie sceglie una struttura fin troppo didascalica in certi momenti, come se avesse paura che lo spettatore non capisca da solo. Il risultato è che alcune svolte narrative – che nel gioco erano coltellate improvvise – qui diventano attese, quasi annunciate.
Anche la scrittura, pur restando di altissimo livello, a volte inciampa proprio dove dovrebbe volare: nei silenzi. Là dove nel gioco bastava una stanza vuota, una finestra rotta, una lettera appoggiata lì per raccontare un mondo, qui servono dialoghi, spiegazioni, confronti. Non peggiori, sia chiaro, ma meno impattanti.
Oltre al fatto che, come noto, questa seconda stagione non adatta The Last of Us Part II nella sua interezza.
Dilazionare la storia in più stagioni permette certamente di approfondire personaggi e dinamiche relazionali, ma secondo me spezza l’intensità e la coesione drammatica del racconto originale.
Se da un lato questa decisione offre spazio per arricchire l’universo narrativo e introdurre nuove sfumature — come già si intravede nell’evoluzione di Ellie, nel tormento di Joel e nella complessità di Abby — dall’altro potrebbe indebolire l’impatto emotivo del materiale di partenza, che nel videogioco colpiva con precisione chirurgica.
Sarà dunque fondamentale che la terza stagione riesca a mantenere coerenza tematica e tensione narrativa, ma è decisamente troppo presto per dirlo ora.
Il messaggio, però, resta. E non è un messaggio facile da digerire. The Last of Us continua a parlare di vendetta, di amore tossico, di cicli infiniti di dolore. E lo fa con una coerenza narrativa rara, quasi brutale.
Dolce vendetta
La seconda stagione non cerca di piacere a tutti, non ammorbidisce gli spigoli, non cerca redenzione. È un’opera che divide, che ferisce, che pretende partecipazione emotiva.
Quindi sì, in definitiva, The Last of Us Stagione 2 è promossa. Ma con quella nota malinconica in fondo al cuore. Come quando riascolti una canzone che ami, ma in una versione acustica che non ti fa battere il cuore allo stesso modo. Bella, intensa, ma diversa. Meno urlo, più sussurro.
Dal 14 aprile si torna in ogni caso nel baratro. E a quel punto parleremo davvero: di scelte, di personaggi, di vendetta. E forse capiremo se questa "nuova" Abby è riuscita davvero a convincere anche i cuori più diffidenti.
Perché una cosa è certa: nessuno, giocatore o spettatore, uscirà indenne da questo secondo atto.
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