Recensione

Shining Resonance Refrain - La serie Sega sbarca in Europa

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a cura di Gianluca Arena

Senior Editor

Oltre a rappresentare il primo titolo del franchise a sbarcare su console Microsoft, Shining Resonance Refrain rappresenta una sorta di pubblicazione “esplorativa”, da parte di Sega, per capire i sentimenti del pubblico occidentale nei confronti di un brand rimasto perlopiù confinato al territorio nipponico.
La speranza del publisher nipponico è che Europa e Stati Uniti riservino a questo marchio lo stesso affetto rivolto alla saga di Kazuma Kiryu, le cui avventure, difatti, stanno arrivando alla spicciolata in versione rimasterizzata.
Andiamo a scoprire insieme se vale la pena inoltrarsi nel mondo di draghi e canzoni ideato da Media.Vision.
Poteri e responsabilità
Yuma, protagonista delle vicende narrate in Shining Resonance Refrain, rappresenta il prototipo dell’eroe introverso, gravato dalle enormi responsabilità derivanti dai suoi poteri piuttosto che ringalluzzito da essi: per motivi ignoti, il suo corpo è stato scelto come vettore dall’anima dello Shining Dragon, entità mitologica venerata dalla popolazione di Alfheim.
Dopo aver combattuto nel Ragnarok, schierato con i suoi quattro fratelli contro Deus, divinità malvagia sconfitta e sigillata, lo Shining Dragon ha abbandonato le sue spoglie mortali, ma la sua anima ha perdurato e trovato finalmente dimora, ironia della sorte, in un ragazzo timido e per nulla portato al combattimento.
Sua madre, sul letto di morte, consapevole dell’enorme potere dormiente in fondo alla sua anima, gli ha donato un sigillo magico che gli consente di tenere a bada il lato più bestiale e violento del drago.
Per non rischiare,Yuma, spaventato dalla brutalità della sua forma draconica, decide di rinunciare del tutto alla trasformazione, finanche quando essa gli consentirebbe di fuggire dalle catene dei suoi aguzzini, emissari dell’Impero che conducono esperimenti disumani su diverse forme viventi.
A salvarlo dalla fetida prigione in cui è rinchiuso ci penseranno, però, la principessa guerriera di Astoria, Sonia e Kirika, sacerdotessa elfica del drago, che lo condurranno al cospetto del re di Astoria, unico reame ancora libero che si oppone allo strapotere imperiale.
Di qui, la storia prenderà una piega assai familiare per chiunque abbia giocato un gioco di ruolo di stampo giapponese: la crescita interiore, il superamento delle proprie paure grazie agli amici, le prime schermaglie amorose, con la possibilità di scegliere quale ragazza corteggiare, e via dicendo.
Nonostante i soli quattro anni intercorsi tra l’uscita originaria e questa versione rimasterizzata, come per molti elementi del gameplay, il plot è invecchiato maluccio, trascinandosi stancamente durante tutta la prima metà dell’avventura e trovando un paio di guizzi solamente nell’ultima parte.
Questa piattezza è dovuta principalmente alla volontà degli sceneggiatori di aderire in maniera pedissequa ai canoni del genere, finendo così con il soffocare anche personaggi dalle buone potenzialità (Kirika e la principessa imperiale Excella su tutti): se il ricorso a così tanti cliché può stuzzicare il palato del pubblico giapponese, in occidente certi stilemi risultano ritriti e stantii.
Come avremo modo di vedere nel paragrafo dedicato al comparto tecnico, invece, è stato fatto un buon lavoro tanto in termini di localizzazione (solo inglese) e di doppiaggio.
Di draghi e legnosità
Lo schema di gioco del titolo Media.Vision ricalca, a grandi linee, quello degli ultimi episodi della serie Tales of di Bandai Namco, con differenze non da poco in termini di fluidità dell’azione e di valori produttivi, purtroppo a sfavore del qui presente.
Il combat system, centro nevralgico di tutti i giochi di ruolo giapponesi, è in tempo reale, e si configura come una versione più legnosa e lenta di quello apprezzato nell’ultimo Tales of uscito (Berseria): il giocatore controlla un singolo personaggio per volta, affidando ad una discreta I.A. la gestione degli altri tre, e colpisce i nemici direttamente alla pressione di uno dei frontali.
Nel vano tentativo di limitare il festival del button mashing che ne scaturisce, il team di sviluppo ha pensato di dotare ognuno dei membri del party di una sorta di indicatore della stamina, che, in ogni caso, è lentissimo a svuotarsi ed impiega un paio di secondi al massimo per riempirsi totalmente, rivelandosi quindi del tutto inefficace: il risultato è che tutti gli scontri, dal primo in assoluto fino ai boss più imponenti, si risolvono pigiando come forsennati sul pad, con dosi minime di strategia e pochissima profondità.
Impostando le stance degli altri membri del party su un atteggiamento prudente, che desse priorità alla cura di stati alterati e delle ferite riportate in battaglia, non abbiamo mai visto la schermata del game over se non in una singola occasione, a pochi minuti dai titoli di coda: il combat system scivola fin troppo presto in una sorta di versione ristretta di un musou, abbandonando ogni velleità tattica e risultando tremendamente ripetitivo.
La trasformazione in drago, attivabile premendo i due dorsali (su PS4 prima L1 e poi R1), se, da un lato, riesce ad aggiungere spettacolarità agli scontri e a veicolare una sensazione di potenza non indifferente, dall’altro sbilancia ancora più il già precario bilanciamento, trasformando la maggior parte delle battaglie in passeggiate di salute.
Anche qui, le contromisure adottate dagli sviluppatori si rivelano pressoché inutili: se, infatti, ad abusare della forma di drago si corre il rischio di perdere il controllo di Yuma, che entra in un pericoloso stato di berserk in cui attacca indifferentemente nemici e amici, dall’altro, dopo solo un paio d’ore di gioco si ottiene una canzone calmante, attivando la quale si scongiura il pericolo della perdita di senno, consentendo di rimanere trasformati fino al completo svuotamento della barra dei punti magici.
Inutile dire che questo tempo è più che sufficiente per ridurre in poltiglia anche i boss più coriacei.
La legnosità e la lentezza del combat system non sono gli unici problemi della produzione: l’aspetto ruolistico è spesso relegato in secondo piano, con un sistema di crescita dei personaggi completamente automatizzato (il giocatore viene solamente informato dell’avvenuto passaggio di livello, senza poter influire in alcun modo sulla distribuzione dei punti esperienza), sul quale l’unico modo per “interferire” è scegliere diverse tipologie di aspetto delle armi/strumenti dei membri del party.
Alla luce della verbosità delle fasi dialogiche e della quasi totale automatizzazione del processo di crescita dei personaggi, si ha a più riprese la sensazione di stare giocando ad una visual novel con sezioni action piuttosto che ad un vero e proprio gioco di ruolo, con tutto ciò che ne consegue.
Queste mancanze finiscono con l’affossare una produzione che porta in dote anche buone idee: la presenza di dungeon opzionali procedurali, in stile Bloodborne (fatte le debite proporzioni), sui quali è possibile intervenire in quanto a livello di difficoltà e tipologie di mostri presenti, costituisce un’ottima alternativa ai combattimenti classici, che, difatti, ci siamo trovati ad evitare quasi del tutto una volta sbloccata questa funzione.
Questi labirinti riservano mostri unici, ricompense assai più preziose di quelle ottenibili combattendo i mob comuni e, soprattutto, sono stati gli unici ad offrire un minimo di sfida ai livelli più avanzati, elemento da non trascurare alla luce del livello di difficoltà della produzione, tarato decisamente verso il basso.
La stessa idea di coinvolgere i membri del gruppo in canzoni capaci di donare buff temporanei alle statistiche (o alleviare gli effetti negativi causati dai nemici) è sulla carta apprezzabile, ma la banalizzazione della maggior parte degli scontri finisce con l’annacquarne il valore.
A conti fatti, Shining Resonance Refrain si lascerà giocare dai super appassionati del genere, alla ricerca di qualcosa di diverso dalla serie Tales of, ma, oltre a non aggiungere nulla alla preesistente libreria di giochi di ruolo d’azione su PS4, non crediamo porterà nuovi proseliti alla causa del titolo Sega.
Basso budget
A parte il filmato iniziale, di buona fattura, la grande maggioranza degli elementi che compongono il comparto audiovisivo di Shining Force Refrain sembra voler indicare a chiare lettere quanto limitato fosse il budget tanto a disposizione del team di sviluppo ai tempi del debutto su Playstation 3 quanto in occasione di questa rimasterizzazione, che presenta, difatti, numerosi problemi.
Alla scarsissima interattività con i fondali e alla loro pochezza poligonale si sommano animazioni altalenanti, un bestiario nemico che ricorre in maniera massiccia al palette swapping, e, soprattutto, inspiegabili fenomeni di stuttering in occasione delle scene più concitate, quando gli effetti delle mosse speciali intaccano il framerate in maniera evidente.
Le origini old gen del gioco sono evidenti, ma questo, in sé, non sarebbe un male, se il lavoro di rimasterizzazione non si fosse limitato ad innalzare la risoluzione (quantomeno nella versione PS4 da noi testata) e a ripulire, in maniera piuttosto sbrigativa, la qualità dell’immagine: dai modelli degli NPC alle texture spigolose dell’unica cittadina presente nel gioco (peraltro composta da tre strade in croce), appare chiaro come la produzione, già a cavallo del 2014, non puntasse sull’effetto “wow” a livello grafico.
Fortunatamente, due ancore di salvezza sono rappresentate dal comparto sonoro e dal character design, di ottima fattura l’uno e gradevole (sebbene non proprio originale) l’altro.
Vista la centralità della musica nel gameplay e nella storyline principale, la cura riposta nelle canzoni cantate dalle protagoniste è lodevole, come anche la varietà di esse, visto che ognuno degli adepti del drago ne possiede una tutta sua: pur non comprendendone le parole (essendo interamente in giapponese), se ne apprezzano la melodia e l’energia.
Riguardo al design dei personaggi, pur non essendo di fronte ad uno dei migliori lavori di Tony Taka, uno degli illustratori più apprezzati degli ultimi vent’anni in patria, c’è poco da lamentarsi: stante una certa aderenza ad intramontabili cliché di genere, il tratto è fantasioso ed androgino, e si diverte ad invertire ruoli ed aspettative del giocatore con indizi subdoli e talvolta fuorvianti.
Come per il comparto sonoro, insomma, anche la parte meramente artistica del titolo pubblicato da Sega avrebbe meritato valori produttivi più consoni al suo reale valore.
La già citata assenza di quest secondarie che esulino dalle fetch quest più banali riduce, infine, la durata complessiva del prodotto, che si attesta attorno alla quarantina di ore, un valore di per sé di tutto rispetto ma inferiore alle media delle produzioni similari presenti nella libreria PS4.

La trasformazione in drago non stanca mai…

Colonna sonora energica e orecchiabile

Dungeon procedurali apprezzabili

…ma sbilancia completamente il combat system

Ancorato al passato sotto diversi punti di vista

Trama ricca di cliché

Scarsissimo senso di progressione e personalizzazione

Framerate tutt’altro che granitico

6.5

Valori produttivi limitati, un combat system all’insegna del button mashing e un’eccessiva semplificazione di molte delle dinamiche classiche da gioco di ruolo fanno di Shining Resonance Refrain un prodotto inferiore alla media qualitativa che Sega (e Media.Vision stessa) ci hanno proposto negli ultimi anni.

I fan di vecchia data del franchise, assente da troppi anni dai lidi occidentali, e coloro che in un JRPG cercano prima di tutto immediatezza potrebbero comunque ricavarne una quarantina d’ore di discreto divertimento, ma le pecche sono numerose ed impossibili da ignorare.

La speranza è di non dover attendere un’altra decina di anni per rivedere il franchise qui da noi, e, soprattutto, di trovarlo in forma migliore quando questo accadrà.

Voto Recensione di Shining Resonance Refrain - La serie Sega sbarca in Europa - Recensione


6.5

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