Recensione

War Machine

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a cura di TheIappi

Netflix prova ad emergere anche sul piano cinematografico, rimasto un po’ sottotono rispetto alle recenti ottime esclusive seriali di cui dispone, con War Machine, scritto e diretto da un regista di caratura come David Michôd e interpretato, tra gli altri, da Brad Pitt, Ben Kingsley e Tilda Switon.
Il film è tratto dal libro “The operators: The Wild and Terrifying Inside Story of America’s War in Afghanistan” e prova a raccontare la contraddizione idealistica che la guerra in Afghanistan si porta dietro attraverso la vicenda di Glen McMahon, un leader carismatico inviato sul posto con un unico obiettivo: vincere la guerra. Un conflitto, quello afghano, che si protrae ormai da nove lunghissimi anni.
Generale Mcmahon
Attraverso le parole di una voce narrante, la cui importante figura ed identità verrà esplicitata nella parte centrale del film, veniamo lentamente calati nella vicenda, facendo la conoscenza di Glen McMahon: un generale pluridecorato, figura di spicco dell’esercito statunitense che ha ottenuto numerosi ed importanti risultati, culminati con la gestione delle operazioni speciali in Iraq e la nomina a “comandante delle forze USA e di coalizione in Afghanistan”.
Al suo arrivo però, nella prima scena, il generale appare caratterizzato in modo bizzarro: non c’è l’epicità classica che trasuda in ogni film di questo genere di produzione americana, ma piuttosto appare buffo, goffo, ingessato, ridicolo e la sensazione percepita viene rafforzata dall’accompagnamento musicale completamente fuori luogo vista la figura non particolarmente “epica” presentata. Quest’immagine è solo la prima fotografia del ritratto che ci viene fornito lungo tutto la prima parte del film: attraverso le sue vicende scopriamo altri curiosi aspetti della vita del generale, come per esempio il fatto che mangi un pasto al giorno, che dorma quattro ore a notte o che corra undici chilometri ogni mattina. Insomma, tutto contribuisce a rendere l’idea di una figura fortemente stereotipata, tanto da risultare ridicola. Nella caratterizzazione del personaggio, la classe di Brad Pitt emerge: il suo incedere a braccia rigide e piegate, il volto volutamente caricaturale, ingessato e sempre contrariato, i gesti meccanici e poco disinvolti; tutto questo riesce a generare ilarità e inquadra il generale nella figura canonica del generale americano tutto d’un pezzo, riuscendo comunque a non sforare nel banale e a non risultare esageratamente ridicolo.
L’intento della prima ora e mezza del film è sostanzialmente quello di fornire quanti più dettagli possibile sul generale e sul contesto, optando quasi per la presentazione sistematica di situazioni e vicende, da cui spesso la figura di Glen ne esce ridicolizzata. 
Guerra? Anche basta
Una volta inquadrato il personaggio e il contesto, ecco che focus si allarga: il generale statunitense viene ridimensionato a burattino, la sua figura viene ridotta a mero “ruolo” della partita in corso in favore della critica piuttosto feroce all’ideologia stessa della guerra, portata avanti con testardaggine e senza alcuna presa di coscienza rispetto ai fallimenti che la storia ha ciclicamente dimostrato: la controinsorgenza, strutturata imbracciando le armi, non è una strada percorribile.
Nell’esplicazione di questo concetto, il film si rivela essere davvero efficace, utilizzando momenti emotivamente rilevanti sapientemente lasciati sfumati sullo sfondo, sfruttati per arricchire e caricare l’ambiente di quel tono pesante che la guerra richiama: vengono trattate le vicende di una squadra composta da ragazzi ( volutamente) molto giovani, confusi dall’ambiguità della missione data dal dover uccidere i ribelli ma allo stesso tempo dimostrare ai cittadini intenti pacifici e di protezione nei loro confronti. Momenti difficili, dove il nervosismo fa da padrone, in cui sparare a un civile piuttosto che a un ribelle potrebbe essere questione di secondi; addirittura gli atti eroici, aspetto legato visceralmente alla figura del Marine, vengono interdetti in virtù della tipologia di guerra portata avanti.
La parte conclusiva è indubbiamente il momento più riuscito del film, dimostrandosi davvero efficace nei modi e nei toni, esplicitando chiaramente l’intento dell’autore di arrivare al cuore del problema: non basta sostituire il generale di turno in capo, perché non è l’uomo che non funziona, bensì il sistema.
La controinsorgenza non è efficace: l’importazione della democrazia, della cultura, della religione o qualsiasi altro valore o aspetto, esercitata con al collo dei fucili e urlando alla pace non è la via per la costruzione di una nazione solida e indipendente. Anzi, forse crea solamente nuovi conflitti.

Messaggio che arriva al pubblico in modo chiaro e naturale

La classe di Brad Pitt c’è e si vede

Conclusione davvero brillante

Prima ora troppo lenta

Lunghezza eccessiva

7.0

Una buona esclusiva da parte di Netflix, che continua a sgomitare per provare a lasciare il segno anche nella sezione cinematografica. Una produzione a due facce quella di David Michôd : la prima ora e mezza molto lenta, con la necessità comprensibile di costruire il personaggio nei dettagli ma che esagera probabilmente con il minutaggio, arrivando a tratti a essere pesante. Sicuramente, l’ultima ora di riproduzione è di ottimo livello, la critica è pesante, diretta e soprattutto chiara, che non è un aspetto da sottovalutare quando si tratta di tematiche cosi importanti.

Voto Recensione di War Machine - Recensione


7

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