Visto che il nostro non è affatto un mondo ideale, non ci si può di certo aspettare che tutti gli utenti leggano una recensione per intero facendo a meno del voto finale. Eppure, dietro a quella che è di fatto una valutazione negativa, che ha dunque il dovere di avvertire i lettori che l’opera esaminata è stata valutata come insufficiente, si cela un gioco che merita di essere giocato ugualmente. In molti però non lo sapranno mai, perché avranno già chiuso questa pagina ancor prima di giungere alla fine dell’introduzione, facendosi bastare un numero e un paio di frasi. E in fondo va bene così, perché chi pecca di superficialità merita titoli ottimamente confezionati ma tristemente vuoti e tutto sommato anonimi. Quelli che sono in definitiva l’esatto contrario di Toren, reo di essere un mezzo disastro tecnico che terrà lontani tutti coloro a cui della narrativa interessa ben poco.
Praise the sun
Almeno concettualmente, i ragazzi brasiliani di Swordtales hanno provato a scrivere una storia complessa e ricca di simbolismi, capace a tratti di avere tutti i contorni di un racconto epico che nasce dal folklore e dalle antiche credenze popolari, senza lasciare da parte suggestioni mistiche ed esoteriche. Lo sviluppo della trama – che si espande per circa due ore – è però piuttosto sbrigativo, al punto da impedire al gioco di esprimere appieno tutto il suo grande potenziale. Meno pretenziosità, più concretezza, e un maggiore approfondimento delle linee guida narrative, avrebbero senz’altro giovato parecchio alle ambizioni del team, che ha dovuto al contrario compendiare una storia a cui serviva molto più spazio per assumere la rilevanza che avrebbe meritato.
La metafora del viaggio inteso come percorso di crescita personale – che parte dalle primissime fasi dell’infanzia, fino ad arrivare ai primi albori dell’età adulta della protagonista – si mescola all’antica storia degli uomini che vollero sfidare il Sole erigendo una Torre che superasse l’astro in altezza, su fino a dove il cielo sfuma e diventa spazio. La sfida degli uomini venne però persa, e il Sole impose la sua livida presenza smettendo di cedere il passo alla Luna. La leggenda narra che solo una fanciulla potrà riappropriarsi della luce lunare, ma non prima di aver sconfitto il drago che veglia il corpo e la sommità della Torre.
In questa breve storia dark-fantasy dove il tempo pare essere sospeso, seguirete la storia frammentaria di colei che viene chiamata Moonchild, ascoltando parole criptiche di vecchi saggi e apprendendo verità su pergamene intrise di inchiostro indelebile. Si viene dunque a creare un’atmosfera carica di mistero e ricca di rimandi che non sono mai troppo chiari, quasi a voler sottintendere molteplici significati dietro le continue metafore che il gioco mette davanti al giocatore. Ed è così, in effetti: sebbene alla trama manchi una struttura ben consolidata, è impossibile non riconoscere agli autori il merito di aver approcciato il racconto da punti di vista per certi versi completamente nuovi. I messaggi da cogliere sono parecchi, il lato artistico è ben curato e la colonna sonora amalgama tutta l’avventura alla perfezione, ma i pregi di Toren – purtroppo – terminano proprio qui, ben prima di raggiungere il sole a cui miravano gli antichi.
La figlia della Luna
Toren va giocato con un controller anche su PC, e sebbene sia comunque possibile scegliere la configurazione classica con mouse e tastiera, capirete sin da subito quanto si tratti di una scelta assai controproducente. Userete solo tre tasti: uno per il salto, uno per eseguire azioni basilari e l’altro per osservare da vicino alcune sequenze di immagini contestuali. Mentre vi inerpicherete faticosamente lungo i piani della torre, scoprendo gradualmente il vostro vero scopo, sarete chiamati a risolvere alcuni puzzle ambientali davvero elementari: bisognerà accendere un paio di fiaccole lungo il cammino o piazzare dei pesanti oggetti davanti a sé per contrastare delle violentissime folate di vento. Niente di complicato insomma, a dimostrazione del fatto che la difficoltà è pressoché inesistente all’interno del mondo di Toren, nel quale anche i combattimenti sono ridotti all’osso . Potrete usare la spada solo durante gli scontri col drago, o quando verrete attaccati da un paio di inoffensivi mostriciattoli, ma per il resto, tutto viene vissuto come una passeggiata dove non esiste alcun reale senso di sfida. Il problema di Toren, tuttavia, non è esattamente questo; è piuttosto un comparto tecnico che risulta essere arretrato e pieno zeppo di problemi nient’affatto trascurabili. Come già detto, artisticamente Toren ha una sua identità ben precisa, ma la modellazione poligonale dei personaggi e degli ambienti lascia molto a desiderare. Alcuni tratti della protagonista sembrano impastati, mentre l’eccessiva semplicità di certi scenari e la loro preoccupante vacuità dimostrano che sul gioco c’era ancora parecchio lavoro da fare, e non solo per quanto riguarda le rifiniture. A tutto ciò, vanno aggiunti diversi bug, glitch e una quantità spropositata di compenetrazioni poligonali, che creano qualche problema di troppo quando non si segue la strada principale e ci si avventura in zone appena adiacenti. Manca infine qualche animazione di raccordo e l’aspetto generale è piuttosto grezzo, come se lo sviluppo fosse stato portato a termine un po’ troppo in fretta. E la stessa sensazione, badate bene, si estende all’intera produzione, che appare più come l’inizio e la fine di una storia a cui sono state troncate le parti più importanti.
– Storia affascinante, raccontata con un approccio inconsueto
– Ottima colonna sonora
– Tanti problemi tecnici
– Troppo semplice e breve
Chiunque si avvicini a Toren non lo farà di certo perché meravigliato dal suo comparto tecnico, né tantomeno per il suo livello di sfida. Nonostante dei problemi tutt’altro che trascurabili a cui probabilmente non basteranno nemmeno diverse patch correttive, il primo titolo di Swordtales meriterebbe di essere provato almeno una volta: ha una buona atmosfera, è molto particolare e narra una storia ricca di simbolismi e metafore. Storia che ha avuto forse l’ardire di aver puntato troppo in alto, senza poter disporre delle voci giuste per essere raccontata nel pieno della sua bellezza.